Tra fine febbraio e inizio marzo, il Belgrado Film Festival (FEST24) ha riempito le sale nel centro della capitale serba, portando al pubblico numerosi titoli di grande interesse, con forte accento sulla produzione cinematografica dello spazio ex-jugoslavo
Sale sempre affollatissime e pubblico curioso con tanti giovani. È un bilancio positivo per il 52° Belgrado Film Festival , meglio noto come Fest, che ha animato per una decina di giorni la vita cinematografica della capitale serba. Una manifestazione storica che ha il suo centro al Dom Sindikata, nel cuore della città, e una decina di schermi complessivi.
Il Fest ha proposto un programma molto ampio, con anteprime per la Serbia di molti dei film più discussi degli ultimi mesi e dei nominati agli Oscar, compreso “Io capitano” di Matteo Garrone. In più Premi alla carriera sono stati consegnati al grande regista serbo Želimir Žilnik e all’iraniano Asghar Farhadi.
Tra i 17 film nel concorso erano presenti titoli come l’argentino “Los delinquentes” di Rodrigo Moreno, di imminente uscita anche in Italia, o il cinese africano “Black Tea” di Abderrahmane Sissako, reduce dalla Berlinale.
La giuria ha decretato come miglior film il russo “Gospodar - The Owner” di Yuri Bykov, che aveva già vinto nel 2015 con “The Fool”, Premio come miglior attore al palestinese Saleh Bakri (visto in “La banda”, “Il tempo che ci resta”, “Wajib – Invito al matrimonio” e “Il caftano blu”) per “The Teacher” di Farah Nabuldi e miglior regista esordiente l’ungherese Katalin Moldovai per “Without Air - Elfogy a levegő”, già premiata a Trieste Film Festival.
La classe operaia va all’inferno
Premio di miglior regista al serbo Mladen Đorđević (noto per “Život i smrt porno bande” del 2009) per “Working Class goes to Hell – Radnička klasa ide u pakao”, che è emerso come il titolo più in vista dell’intera selezione, avendo ricevuto pure il Premio Fedeora della federazione di giornalisti e il premio intitolato a Nebojša Đukelić come miglior film della regione.
In una cittadina della Serbia, tutto gira intorno all’ex fabbrica Primo maggio, che per anni ha dato lavoro e sostentamento a tutti i dintorni. Cinque anni prima, un incendio ha causato la morte di alcuni operai e portato alla chiusura dell’impianto, che ora il nuovo proprietario vorrebbe trasformare in un inceneritore.
L’adolescente Danica ha perso la madre nella tragedia, non parla da allora e frequenta i locali abbandonati, osservando le vecchie scritte e i dipinti che celebravano i lavoratori.
Fuori c’è una protesta di ex dipendenti contro la privatizzazione e per chiedere giustizia: a capo dell’associazione che si prepara ad affrontare un processo, c’è la vedova Ceca (Tamara Krcunović), zia di Danica.
Nel frattempo ricompare Mia (Leon Lučev), che nei tanti anni di lontananza è stato anche in carcere e ha appreso a leggere il futuro nelle carte e nei metalli: l’uomo condurrà una seduta spiritica che spingerà la comunità verso un punto di non ritorno.
Intorno a questi personaggi centrali, Đorđević racconta diverse altre figure di cittadini segnati dalla tragedia e dalle trasformazioni dell’impianto e arrabbiati con il padrone, soprannominato Pupazzo di neve, un approfittatore di guerra che accusano di corruzione, di ruberie e di agire solo nel proprio interesse.
“Working Class goes to Hell” nel titolo cita “La classe operaia va in paradiso” (1971) di Elio Petri ma se ne distacca parecchio, del resto là si mostrava il lavoro, l’alienazione della fabbrica e pure il trionfo (auspicato) dei lavoratori, qui ci sono la perdita del lavoro, la rassegnazione e il pessimismo, nonostante un finale che fa ricordare: “C’è ancora domani”.
Il regista porta avanti quasi in parallelo due strade, quella del cinema sociale e di denuncia e quella del cinema di genere tendente all’horror, ma due stili restano un po’ troppo separati, con scene di diverso stampo che si alternano e la parte più sociale finisce in secondo piano.
La pellicola è in ritratto di una comunità allo sbando, senza più riferimenti se non la taverna che è l’unico punto di ritrovo, tutti sono teledipendenti con l’unica speranza nelle vincite al lotto e il pope sta con i potenti e ricchi.
Tra i temi centrali l’emancipazione femminile e la liberazione sessuale, nei personaggi di Ceca e Stanka, picchiata dal marito. Il tema degli approfittatori delle privatizzazioni dei beni collettivi di epoca socialista lo avvicina allo sloveno “Jaz sem Frenk - I’m Frank” (2019) di Metod Pevec, sebbene trattato in modo completamente diverso.
La famiglia santa
Premio del pubblico belgradese e miglior sceneggiatura a “The Holy Family – Sveta porodica”, secondo film della croata Vlatka Vorkapić, che l’ha scritto con Slavica Šnur.
Siamo in Slavonia nel 1963. Janja (Luna Pilić) è una giovane bosniaca, povera, non ha nessuno, parla poco, è in zona per il raccolto ed è una grande lavoratrice. Il proprietario terriero donnaiolo Marko (Nikola Djuričko) e la moglie bigotta Ana le fanno sposare il loro unico figlio Ivo.
La ragazza accetta spinta dalla povertà, l’altro, sfuggente e interessato solo alla caccia con gli amici, si sente forzato dalla famiglia, così il loro matrimonio rimane silenziosamente in bianco. Finché Marko non approfitta di Janja e la violenta, ricattandola: il marito scopre la cosa quando la giovane rimane incinta e la vicenda prende una piega diversa.
È un dramma familiare con tanti aspetti prevedibili (l’essere narrato in flash-back dà già una direzione) e molti stereotipi, a partire dai personaggi di Marko e Ana, quasi una strega per quanto è onnipresente e controlli tutto.
Più interessante la sotto trama del legame della protagonista con l’ebrea Nota (Judita Franković) che ha un negozio con il marito comunista Milan, un vecchio amico di Marko, con il quale condivide un segreto risalente al 1947. Il film resta però un bozzetto di vita in campagna al tempo del comunismo, tra privilegi sopravvissuti per qualcuno e approfittatori del potere di cui godono: qualche passaggio è interessante ma l’insieme risulta un po’ debole.
Tanto per oggi
La bella sorpresa del festival è stata “Za danas toliko – That’s it for Today” di Marko Djordjević, già conosciuto per il suo esordio “Moj jutarnji smeh” (2019). Il film ha ricevuto il Premio Milutin Čolić del giornale Politika come miglior film serbo e quello di miglior attrice per Ivana Vuković, che era già nel film precedente del regista.
Il medico Moca è vedovo con la figlia Marta e vive in campagna con la sorella Visnjia (Vuković). Insieme conducono una vita tranquilla, ordinaria e felice con poco, dilettandosi a infornare dolci con il cocco.
Questa serenità quasi bucolica è però turbata dall’arrivo del terzo fratello, il più tormentato Vasa che fa l’attore a Belgrado. Emergono le ansie di Moca che non sa guidare e sarà costretto a farlo. Intanto si canta “Nessun dorma” e si mette in scena un buffo spettacolo teatrale con lo sciopero dei semafori. E si scopre che la famiglia è di origine bosniaca, terra cui sono molto legati.
“Za danas toliko” è una commedia insolita, leggera e deliziosa, mai superficiale, fatta di tante piccole cose, di abitudini e di imprevisti e assurdità quotidiane e di legami non proclamati ma forti. Un film che potrebbe essere ambientato forse ovunque e che è profondamente serbo.
Solo quando rido
Affronta il tema dell’emancipazione femminile e della violenza “Samo kad se smejem - Only When I Laugh” di Vanja Juranić, che porta però a svolte a sorpresa.
Siamo a Zara e Tina (Tihana Lazović, che da “Sole alto” è diventata una stella dello spettacolo non solo in Croazia) è una trentenne sposata con Frane, che è da poco rientrato da un periodo di lavoro in Austria.
L’unica distrazione della donna, che accudisce la piccola figlia Mara, sono le periodiche uscite con me amiche, ma il suo sogno è riprendere gli studi all’università che aveva interrotto.
Incontrare per caso una ex compagna di studi che ha divorziato e ha cominciato una nuova vita le dà la sprinta per iscriversi a psicologia “per fare la mental coach e motivare le persone”.
La scelta della donna rende Frane sempre più scostante (alterna senza apparente spiegazione momenti di soddisfazione al altri di rabbia e violenza) rigido e geloso, le fa dispetti, la rimprovera per nulla e inizia a picchiarla anche violentemente: il titolo “Solo quando rido” indica quando le duole la schiena per le percosse.
La paura di Tina, che emergere anche dagli incubi ripetuti, è perdere Mara, ha incubi ripetuti. La donna ha sempre accettato tutto per il marito, ora non le sta più bene, anche se non si ribella direttamente.
Il film vira verso una direzione inattesa, ma se l’imprevedibilità e l’andare contro le aspettative iniziali sono lodevoli, sembra preoccuparsi più del meccanismo e delle svolte narrative. Il personaggio di Frane (e pure i suoi genitori, presentati già nella scena iniziale) sono un po’ stereotipati e il film appare un po’ troppo semplice nella scrittura.
Ricordo solo i giorni felici
Nella sezione Gala era incluso “Pamtim samo srečne dane - Good Times, Bad Times”, quinto lungometraggio del croato Nevio Marasović.
Un anziano avventore si presenta al solito ristorante, è un abitudinario, lo conoscono, ha i suoi riti, le sue insofferenze. Dal suo tavolo laterale ascolta i discorsi degli altri, dove si alternano famiglie e gruppi.
Ci sono: un politico (Leon Lučev) che annuncia di essere pronto a sostituire il capo del partito perché “serve un nuovo padre e io sono quel padre”, quando all’improvviso annunciano il suicidio di sua figlia; un padre che dà insegnamenti di vita al figlio che affronta la cresima, mentre la madre è un po’ meno rigida e pedante; un genitore solo spiega al figlio, che vorrebbe fare il cameriere, di studiare e farsi servire, non servire gli altri.
Diverse tipologie di padri nel quale l’anziano si rivede e può ripensare al proprio passato, alle proprie azioni e ai propri errori. Di impianto teatrale, il film mostra l’attesa della morte, il prepararsi, pensare a un bilancio della vita e a quel che si lascia, all’eredità che riguarda anche il ristorante che fa da ambientazione.
Un lavoro non male, interessante soprattutto per l’idea, in cui l’asciuttezza e la brevità non si sa se siano un pregio o un limite.
Il console russo
È quasi un kolossal storico “Ruski konzul” di Miroslav Lekić dal romanzo di Vuk Drašković, presentato come film di chiusura dopo la cerimonia di premiazione e subito distribuito nelle sale serbe.
È il 1973 e lo psichiatra Ilija Jugović è trasferito, dopo la morte di una paziente a cui aveva sbagliato la terapia, da Belgrado a Prizren in Kosovo. Qui si imbatte nello strano comportamento dell’insegnante di storia Ljubo Božović, che si sente il console russo Yastrebov e fa discorsi nazionalistici, tanto che le guardie lo picchiano.
L’uomo è molto istruito e fissato con “I demoni” di Dostoevskij e ha una casa piena di libri, sulla quale mette gli occhi il boss Berisha, anche capo del comitato locale. Ricoverato e seguito da Jugović, una sera Ljubo è trovato “suicidato” in circostanze sospette e non è difficile accusare il medico, difeso solo da Milica, moglie del defunto.
Dopo la condanna, Jugović sconta anni in carcere e conosce un prigioniero politico albanese, che è il punto di riferimento per i reclusi del suo popolo. È un film che mette i principi titini di “fratellanza e unità” a confronto con i due nazionalismi contrapposti, i discorsi sul sangue e sulle appartenenze.
Lekić (e Drašković) colgono non a caso un momento in cui i radicalismi si stanno diffondendo e affermando e parlano soprattutto all’oggi. Il succo è che il Kosovo è un po’ albanese e un po’ serbo, e forse su questo convengono i più aperti dei personaggi.
“Ruski konzul” è una pellicola dalle tante implicazioni, che cerca di guardare le cose, la storia e le relazioni da più punti di vista, ponendo dilemmi e con un’immagine finale molto significativa.
Ottimo il gruppo di attori comprendente Nebojša Dugalić, Svetozar Cvetković, Visar Vishka, Paulina Manov, Danica Radulović e Žarko Laušević, da dopo scomparso.