Generazione Serbia di Dušan Veličković - Bottega Errante Edizioni

Gli intrecci della "grande" e della "piccola" storia, di cui siamo autori e vittime allo stesso tempo. Dušan Veličković racconta il suo "Generazione Serbia" con cui torna sugli scaffali delle librerie italiane

03/12/2018 -  Aleksandra Ivić

"So di essere responsabile, ma non mi sento colpevole. Semplicemente ne prendo atto: a me interessano prima di tutto i miei piccoli diritti e la mia vita quotidiana; voglio essere ironico e non credere ai grandi destini, ai grandi uomini e alle grandi parole; voglio vivere in un piccolo bicamere e avere un grande letto dal quale si alza ogni mattina una donna dai seni piccoli che mi racconta i suoi sogni. Io non ascolto i suoi racconti, ma so che nutrono la mia vita".

In questa confessione che sa di resa dei conti con se stesso c’è il ritorno, poetico e ironico, di Dušan Veličković tra gli scaffali delle librerie italiane. Un ritorno atteso a lungo, dopo le folgoranti e spiazzanti short stories di Serbia Hardcore e Balkan pin-up, recentemente ripubblicate dall’editore Besa per la traduzione di Sergej Roić (entrambi proposti in prima battuta da Zandonai rispettivamente nel 2008 e 2013). Un ritorno in forma di romanzo, Generazione Serbia, uscito in patria nel 2011 con il titolo originale di Bela, ćao!, e tradotto da Elisa Copetti per i tipi di Bottega Errante Edizioni. Una saga familiare che diventa la «metafora di un popolo che attraversa il Novecento», dove i protagonisti, l’intera linea maschile della stirpe Kobac-Tomić, alternano le proprie vicende rocambolesche e spesso tragicomiche in un ordine che rompe la rigida linearità cronologica, intrecciandosi con i destini di illustri personaggi storici e letterari, e susseguendosi in un racconto corale e ricco di sorprese. Ciascuno diventa testimone di un’epoca, chi nel tentativo di compiere grandi gesta, chi cercando di fuggire dalle proprie responsabilità, tutti alla ricerca di una vita migliore. Sullo sfondo l’epopea travagliata e chiaroscurale del Novecento serbo, cui si sono indissolubilmente legati i destini dell’intera Europa.

Classe 1947, Veličković è uno scrittore e giornalista tra i più brillanti ed eclettici della sua “generazione Serbia”. Di formazione filosofica, è stato direttore della prestigiosa rivista NIN durante i drammatici anni Novanta, ha pubblicato numerosi articoli, racconti e saggi, e collaborato per diverse testate giornalistiche internazionali. Ex presidente e attuale membro del PEN club serbo, le sue opere e la sua carriera hanno ricevuto svariati riconoscimenti, tra cui il Premio internazionale per la Libertà e il Giornalismo a Napoli nel 2009.

Noto soprattutto per il suo spirito critico, per la sua vena dissacrante e per il suo atteggiamento oppositivo nei confronti del regime di Milošević e dei totalitarismi in generale, Veličković torna a farci divertire e allo stesso tempo riflettere sul destino dell’uomo dinanzi ai grandi avvenimenti della Storia, dai quali, volente o nolente, non può mai chiamarsi in disparte. Il suo sguardo sul presente è sempre attento, acuto e beffardo, la sua narrativa vivace e frizzante, la sua poetica fine e talvolta velata, come la luce fievole e intermittente di una stella lontana che squarcia il buio e il conformismo dell’epoca attuale, illuminando una piccola porzione di universo. La nostra.

Lo abbiamo incontrato di recente, a margine della presentazione ufficiale di Generazione Serbia, in occasione della rassegna Fiera delle Parole tenutasi a Padova.

La protagonista del tuo ultimo romanzo Bela Ćao, pubblicato in italiano con il titolo Generazione Serbia è la famiglia Kobac (in italiano significa “sparviero”). Si tratta della tua stessa famiglia? E in ogni caso, questa storia contiene molti elementi autobiografici?

Penso che in ogni famiglia esista un personaggio “letterario”, qualcuno che vi si è impresso nella memoria con certe sue parole o comportamenti, talvolta con autentiche avventure. Anche nella mia esiste ed è da lui che è scaturito il mio protagonista – il vecchio Tomić, il cui destino, nonché il carattere burbero, non è frutto della mia invenzione, e che mi ha dato la possibilità di impostare una struttura di base per il romanzo. Nel libro si chiama D.M. Tomić, che al lettore può legittimamente richiamare una misteriosa “parentela” con D.M. Thomas, l’autore de L’albergo bianco. Nel romanzo Generazione Serbia vi sono diversi cenni autobiografici, è vero, come del resto in tutti i miei libri, e tuttavia non si tratta di un’autobiografia. La famiglia Tomić non è la mia famiglia, ma non avrebbe preso forma senza la mia esperienza personale, senza i racconti che ho ascoltato e scoperto in seno alla mia famiglia.

Il racconto segue una linea maschile: Aleksa, Toma, Lazar, Rastko, Slobodan, Milivoje, poi di nuovo Toma e Aleksa. Perché sono importanti per te i protagonisti maschili? E perché le donne non sono personaggi centrali, benché siano un leitmotiv e un continuo motivo di ispirazione?

Ho voluto raccontare una storia sul rapporto padre-figlio, forse ingaggiando una polemica non pretenziosa con Freud. Allo stesso tempo, Generazione Serbia attraversa “cent’anni di vita di una famiglia serba”, quindi è abbastanza logico che sia una storia al maschile, se pensiamo che quella serba è stata, ed è tuttora, in grande misura una società patriarcale. Del resto, il Novecento, che è il vero tema di questo romanzo, è prima di tutto il secolo dei maschi nel peggior senso possibile: è il secolo delle guerre più sanguinose, delle polizie segrete e senza scrupoli, delle più terribili forme di totalitarismo e di tutto quello che è stato prodotto dal genere maschile.

Che rapporto hai con la grande Storia del Novecento, di cui da scrittore diventi il testimone nelle varie sue epoche – dalla Jugoslavia di Tito alla strenua opposizione al regime di Milošević, dal rapporto di amicizia con il primo premier democraticamente eletto in Serbia, Zoran Djindjić, a oggi? Quanto ti senti “piccolo” e “impotente” rispetto alla “grande” Storia?

Considero la “grande” Storia ufficiale e la “piccola” storia individuale come due realtà intrecciate l’una con l’altra. È vero che davanti alla grande Storia, un autentico tritacarne, siamo spesso impotenti, però in ogni caso siamo attori, vittime e “consumatori” di entrambe. C’è sempre la possibilità di ribellarsi ai grandi eventi storici o di influenzarli in qualche modo, pertanto l’impotenza è spesso soltanto apparente.

La responsabilità e la coscienza personale dell’individuo versus gli interessi politici della nazione alla quale “appartiene”. Cosa ne pensi?

Chi è colui che definisce i principi e le priorità? Dipende da questo. In un regime, diciamo, fascista, la responsabilità la definirei come “resistenza incondizionata”. Del resto, secondo me, insistere sull'appartenenza a una nazione come se fosse una virtù, sul patriottismo volgare e categorie simili sono cose che in me destano sempre sospetto e che, in fondo, hanno come base la propaganda e solitamente sono funzionali a obiettivi non umani e non onorevoli.

Conoscere la storia e il passato è importante per capire il presente. Nei paesi dell’ex Jugoslavia la memoria non è condivisa. Come superare questo divario?

La maggior parte dei paesi dell’ex Jugoslavia soffre di un surplus di storia e dell’approccio emotivo che ha verso il passato recente e lontano. Attualmente sembra che la malattia sia incurabile perché è sempre a servizio dei particolari interessi politici. Quel divario scomparirà quando l’educazione diventerà più importante dei “messia” autoreferenziali che si presentano come portavoce di una volontà popolare, spesso impazzita. Mi auguro che vi sia presto un vero cambio generazionale, e una conseguente emancipazione delle nuove generazioni. Conto soprattutto sui più giovani, quelli che vengono definiti “generazione Alpha”.

La guerra è un tema ricorrente nelle opere letterarie degli scrittori in tutta l’ex Jugoslavia. Per esempio, anche tu hai scritto a più riprese del bombardamento della Serbia da parte della NATO nel 1999, un’esperienza traumatica. Quel trauma si può superare scrivendo?

Sul piano individuale la scrittura senz'altro è una forma di autoterapia. Per quanto riguarda i traumi collettivi, non ne sono certo. Quelli si possono spiegare e superare con la scrittura, ma possono diventare ancora più dolorosi. Tutto dipende dall'autore, dalle sue capacità e dalle sue motivazioni.

Quanto sono liberi gli scrittori e gli intellettuali nell'odierno sistema sociale e politico e qual è il loro ruolo, generalmente parlando e in Serbia in particolare? È possibile rimanere indipendenti, liberi e neutrali verso un certo mainstream politico? E a quale prezzo?

Non bisogna essere eroi per essere liberi e indipendenti, è più una questione di carattere e di punti di vista. Certamente, il prezzo può essere alto, ma anche la soddisfazione personale non è irrisoria. Infine, qui si pagava con la testa non solo per opinioni libere e indipendenti, ma anche per la modernità di quelle opinioni. Il drastico esempio è l’assassinio del premier serbo Zoran Djindjić.

Il sistema patriarcale, e il modello conservatore che ne scaturisce, sono una costante in Serbia. È vero che in tutte le stagioni, dal totalitarismo morbido di Tito fino all’odierno populismo assoluto del partito, ci sono sempre stati coloro che sono riusciti a trovare uno spazio per la propria voce indipendente e libera. Tuttavia, temo che in Serbia e nei Balcani in generale la gente non desidera tanto un ruolo indipendente. Sono molto più attraenti la sicurezza e il “calore” dell’appartenenza a principi o simboli. Probabilmente per questo gli intellettuali critici e davvero indipendenti sono una specie in estinzione.

Nel tuo romanzo compaiono alcuni importanti figure storiche, come Freud, Koestler, Lenin. Qual è il loro ruolo e funzione nella storia?

Da un buon libro io mi aspetto che sia divertente e che mi insegni qualcosa, perciò penso che anche i miei lettori si aspettino lo stesso da me. Mi diverte, per esempio, uscire dalle analisi serie e rigide, dalle descrizioni di personaggi importanti e dagli eventi per i quali essi sono diventati famosi. Per questo nel mio romanzo Freud è solo un collezionista e mercante di reperti archeologici, che discute di questioni d’amore con un commerciante serbo; Lenin cerca un pernottamento sicuro a Vienna; Arthur Koestler, l’autore del primo romanzo antistalinista nella storia della letteratura, decide di suicidarsi insieme alla moglie. Tutto ciò è basato su fatti storici, ci voleva solo un po’ di fantasia da parte mia affinché i destini di questi personaggi venissero a intrecciarsi in maniera convincente. Ho avuto insomma modo di divertirmi intervenendo nella Storia, mentre il lettore ha potuto sapere qualcosa di più della vita di persone illustri e allo stesso tempo – me lo auguro – si è divertito riflettendo sul continuo rimando tra la “grande” e la “piccola” storia.

Il tuo stile narrativo è molto veloce, vivace, stimolante, ironico. Non cadi mai nella trappola del cliché patriottico o del vittimismo patetico davanti alle tragedie collettive o al proprio destino. È solo il tuo modo di scrivere o è anche il tuo modus vivendi?

Io sono come Patrick Melrose, odio il patetismo e sono dipendente dall’ironia, della quale non riesco mai a fare a meno.

Negli ultimi anni sei stato ospite di alcuni festival di letteratura in Italia. Come sei stato accolto dai lettori italiani? Sei felice di poter in qualche modo avvicinarli alla Serbia, con tutte le sue sfumature, difetti e virtù?

Generazione Serbia è il mio terzo libro tradotto in lingua italiana, perciò ho avuto modo di incontrare molti lettori italiani e mi sono sempre sentito a mio agio, rilassato, a volte anche troppo loquace. Non lo so, probabilmente esiste un feeling che non è casuale. Non ho mai pensato al fatto che forse a qualcuno ho dato la possibilità di capire meglio la Serbia, ma se è successo, ne sono felice.