Dragan Velikić - Youtube

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Il quadro di un'epoca, che culmina con la Serbia di oggi, dominata da criminalità e corruzione. Una recensione di "Bonavia", di Dragan Velikić

09/12/2019 -  Diego Zandel

Dragan Velikić gioca con la sua autobiografia intima e meno intima, ad ampi tratti anche politica, e ci dà un romanzo superbo, trasversale, capace di restituire al lettore più epoche in un quadro d’insieme. Mi riferisco a “Bonavia”, edito da Keller e magnificamente tradotto da Estera Miocić.

Partiamo dal titolo, che parrebbe improprio a leggere gran parte del romanzo. Il “Bonavia” del titolo, infatti, si riferisce al più antico hotel di Fiume, fondato, come lo stesso nome italiano suggerisce, nel 1877, dando vita a una tradizione interrotta solo nel 1945 quando, come ricorda lo stesso Velikić, i partigiani di Tito entrati a Fiume lo occuparono per due anni per installarvi il loro comando, finché non riprese la sua funzione d’albergo (mi sono anche meravigliato a leggere che, tra i tanti ospiti importanti avuti negli anni del comunismo, uno scrittore della statura di Miroslav Krleža avesse insistito con il direttore dell’albergo perché gli cambiasse il nome in croato, da “Bonavia”, che sta ovviamente per buon passo, buon viaggio, in “Hotel Na dobrom putu”, dando così esempio di una deludente miopia nazionalista in una città celebre per la sua multiculturalità). Ma alla fine tutto ciò conta poco nell’economia del romanzo, così come, nonostante il titolo, conta poco il Bonavia stesso, la cui presenza nel solo ultimo capitolo del libro ha un senso perché sembra che proprio lì sia stato concepito Dragan Velikić stesso, da un padre, Miljan che, insieme al figlio - quest'ultimo sotto le mentite spoglie del personaggio di Marko - attraversa la storia del dopoguerra lungo la rotta del Danubio che, in questo caso, da Belgrado arriva prima a Budapest e quindi a Vienna.

È quest’ultima la città nella quale si apre il romanzo. Marko si trova su un taxi in compagnia della sua compagna Marija. E i ricordi in lui volano a quel giorno di sei anni prima quando s’incontrò con lei al Caffè Gerbeaud in piazza Vörösmarty. Marija s’era appena congedata dalla sua cara amica Kristina partita per gli Stati Uniti. Un personaggio in qualche modo secondario ma importante, che il lettore seguirà a lunghi tratti nel corso di quei sei anni che hanno segnato, con la sua partenza per gli USA, anche il rapporto tra Marko e Marija, che sta attraversando un momento di crisi.

In questo rapporto, il fatto che Marko sia uno scrittore, privo di sicurezze (“Marko Kapetanović non aveva una professione”), ha anche il suo rilievo, soprattutto dal punto di vista quotidiano: è una sorta di uomo folle, immaturo, in qualche modo un uccello senza gabbia, imprevedibile, incontrollabile, e non tanto dal punto di vista sentimentale – lui amava Marija, e c’è un lungo passo, bellissimo, in cui l’autore descrive come il loro rapporto sia figlio di due anime gemelle “il cui vuoto nessun altro poteva colmare” – quanto, piuttosto, da quello della stabilità quotidiana. Entrambi serbi, a Budapest si erano trovati uno dietro l’altro in fila al loro consolato per pratiche amministrative che consentissero loro di muoversi liberamente tra Belgrado, Budapest e Vienna. Sembrerebbe che lì Marko avesse adocchiato Marija, e che le avesse carpito su un modulo in suo possesso indirizzo e numero di telefono così poi brigando per incontrarla al Caffè Gerbeaud.

Sei anni dopo, ormai sposati, i due sono a Vienna. La capitale austriaca per Marko non è una città qualunque. Suo padre Miljan, lasciata la marina militare jugoslava (dov’era tenente della corvetta fluviale Sava, negli anni del suo concepimento), aveva lavorato nelle ferrovie, per poi lasciare queste e trasferirsi definitivamente a Vienna dove avrebbe aperto un ristorante jugoslavo, il Balkan grill, un po’ troppo frequentato dalla criminalità serba, per poi, due anni dopo, trasferirsi in un altro quartiere più tranquillo della città ungherese e aprirne un altro, il Morava, di piatti non più così etnici per evitare la stessa clientela, e poi, ancora, chiudere anche questo e aprirne, altrove in città, un altro ancora, il Sonata.

Quando arrivava a Vienna Marko scendeva all’hotel Urania, di cui era titolare Franz, un altro serbo che era stato collega di Miljan alle ferrovie. Ed è interessante far notare che l’amica di Marija, Kristina, scienziata ricercatrice, che negli Stati Uniti aveva voluto assolutamente prendere le distanze dal suo paese d’origine (la Serbia del dopo Milošević, anche se mai nominato) - e ci sono a riguardo, anche qui pagine molto belle e significative del suo distacco psicologico - arrivata all’insaputa dei suoi amici belgradesi a Vienna per un convegno, sceglierà per caso proprio l’Urania per alloggiare, dove morirà improvvisamente d’infarto mentre in un’altra stanza, ignari, alloggiano Marko e Marija, la quale vede solo dalla finestra un’ambulanza allontanarsi dall’albergo.

Naturalmente, a parte il richiamo paterno a Vienna – l’ultimo viaggio di Marko per assistere alla morte del padre, la cui vita ha visto altre donne e altri figli, offre un altro capitolo molto bello – tutto il romanzo grava su Belgrado. La vita lungo il Danubio e la Sava e il paese vicino di Zemun, la vita nei caffè frequentati da letterati, tra tutti il poeta Raša Livada, fanno la loro parte. Così come, dal punto di vista politico, le critiche rivolte a una Serbia dominata dalla criminalità e dalla corruzione, con il rimpianto molto forte e più volte richiamato dall’autore, dell’omicidio di Zoran Đinđić che ha tolto ogni speranza al paese di un riscatto. Soprattutto perché arrivato dopo lo sfacelo degli anni Novanta a Belgrado, che a sprazzi, nei dialoghi, più che nelle rievocazioni dirette, ritornano, senza mai essere però il contenuto centrale del romanzo che spazia a 360 gradi nella vita dei protagonisti così come in quella di tutti, in forme che possiamo dedurre da un dialogo come questo tra Marija, che rimprovera al Marko scrittore di scrivere “sempre e solo frammenti, mai un insieme”.

E tu cosa vorresti che scrivessi, racconti? Quelle sono solo chiacchiere. Non m’interessano”. E più avanti, seguendo lo stesso dialogo: “A me piacerebbe sapere altro” disse Marija “Com’è possibile che il sicario del primo ministro, ricercato da Interpol, occupi un posto al parlamento serbo? Non è mica entrato di nascosto!”.

Paura” gli risponde Marko “piccole, misere paure della maggioranza hanno consentito che questo accadesse. Rinchiusi nei bunker delle proprie teste, scrutano come dei ratti il mondo esterno. Credono che non toccherà mai loro”.

Il risultato è un grande romanzo che traccia un quadro d’epoca attraverso il racconto di più personaggi, ciascuno dei quali, intorno al perno rappresentato da Marko, rappresenta un destino comune o una pagina di storia, per arrivare, tra le righe, alla Serbia di oggi, descritta soprattutto in corsivi – nel senso proprio che sul libro vengono evidenziati da questo carattere tipografico – al veleno.

Solo un assaggio di questi per concludere: “Il sistema vascolare della società è corrotto fino all’ultimo capillare. Tutti hanno le mani in pasta, dai rappresentanti dei condomini, impiegati e ispettori comunali fino ai presidenti di consigli d’amministrazione, consiglieri di Stato e ministri. Una piramide fatta di mimica e sussurri segreti, di percentuali e bustarelle. Tutto si può comprare, e tutti ci sono dentro. Nelle lavanderie e nelle cantine, nei parcheggi e nei parchi, nei terreni e nelle fabbriche statali, negli oleodotti e nelle raffinerie. La corruzione è profondamente radicata nel carattere e nella mentalità. I crocifissi dondolano sugli specchietti delle jeep scure, luccicano sui petti degli assassini e dei truffatori. L’eroe del nostro tempo è fatto di illusioni e stereotipi. Un misto di bugie a cui egli stesso crede. Le icone sulle porte delle ville di Dedinje chiudono gli occhi per la vergogna”.