L’attività intensa di Mosca in Serbia sta mettendo in difficoltà il premier Aleksandar Vučić

09/11/2016 -  Dragan Janjić Belgrado

In meno di un mese la Russia ha avviato in Serbia una serie di iniziative indirizzate al rafforzamento della sua presenza nella regione. Sono stati ad esempio spediti aiuti umanitari serbi in Siria, arrivati grazie ad aerei russi atterrati e decollati da aeroporti serbi. Poi vi è stata la visita di una delegazione della Crimea in Serbia seguita dalla visita ufficiale a Belgrado del capo dei servizi segreti russi Aleksandar Petrušev. A fine ottobre poi è arrivato anche il capo della regione russa militare occidentale, Andrej Kartapolov.

Sulla visita di Petrušev la Serbia ufficiale ha dichiarato che era stata concordata tempo addietro, su quella della delegazione della Crimea non ha proferito parola, sulla visita di Kartapolov ha detto che si tratta di routine, mentre per l’aiuto alla Siria ha precisato che è puramente umanitario e non ha nessuna valenza politica. Ma siccome si tratta di questioni che riguardano eccome la politica estera, non è tanto importante cosa dicano i politici locali ma come il tutto venga visto dai centri internazionali di potere ai quali interessano gli eventi collegati alla Serbia.

Il premier serbo Aleksandar Vučić ha cercato di dimostrare che le iniziative in questione non preannunciano alcun cambiamento dell’atteggiamento di Belgrado verso l’Unione europea e l’Occidente. Vučić ha del tutto ignorato la visita della delegazione della Crimea, mentre ha limitato la visita di Kartapolov ad incontri con parigrado della difesa serba. Il trasporto con aerei russi di aiuti umanitari è stato invece descritto come aiuto alla popolazione sofferente siriana. Ha però ricevuto Petrušev, evidentemente ritenendo la visita molto importante per tutelare i rapporti con la Russia.

Su tutto ciò Bruxelles e Washington non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali, tuttavia l’ambasciatore americano a Belgrado Kyle Scott, in un’intervista rilasciata a un giornale belgradese, ha dichiarato che è una scelta “insolita” affidare gli aiuti alla Russia, dato che "in questo momento insieme al governo siriano bombarda Aleppo, bombarda gli ospedali e i convogli umanitari delle Nazioni unite”. È chiaro dunque che la fitta agenda delle attività russe in Serbia non lascia l’Occidente indifferente e che il rafforzamento dei contatti con la Russia, inclusi quelli militari e di intelligence, vengono seguiti con attenzione.

Sospetto

Da mesi il premier Aleksandar Vučić sta gradatamente scivolando verso una posizione sempre più scomoda. Bruxelles e Washington si aspettano una rapida normalizzazione dei rapporti col Kosovo e un maggiore contributo nel placare le tensioni in Bosnia Erzegovina, mentre la Russia sta cercando di rinnovare la sua influenza in Serbia proprio sfruttando l’insoddisfazione di gran parte della popolazione serba, dei circoli politici e delle organizzazioni ultranazionaliste per il modo in cui si sta risolvendo la crisi kosovara e per il tiepido sostegno di Belgrado al governo dei serbi di Bosnia.

L’Occidente non è certo soddisfatto esclusivamente del fatto che Vučić non incontri una delegazione dalla Crimea o che non abbia sostenuto la decisione del presidente della Republika Srpska (RS, entità serba di Bosnia Erzegovina) Milorad Dodik sul referendum sulla Giornata nazionale della RS. Da lui si aspettava piuttosto che convincesse Dodik a non farlo proprio il referendum, ma anche che impedisse alla Russia di trovare all’interno delle stesse istituzioni serbe quel sostegno che permette il rafforzamento della cooperazione tra Serbia e Russia, in particolare in ambito militare e attraverso le strutture di sicurezza.

Vučić potrebbe ora passare dal godere di un totale e incondizionato sostegno dell’Occidente ad una fase in cui si guarda al suo operato con più cautela, dove si valuteranno i fatti e non vi sarà spazio per nuovi “crediti politici”. E occorre vedere in quale misura l’Occidente nei prossimi mesi sarà pronto a mostrare comprensione per i problemi che il premier affronta in casa. Bruxelles e Washington non devono fare nessun passo diretto verso Belgrado per indebolire la posizione di Vučić: sarà sufficiente non contrastare i tentativi di Pristina di porre il prima possibile sotto pieno controllo l'intero Kosovo, incluse le enclave al nord a maggioranza serba, per mettere Vučić in una posizione molto difficile.

Prospettive

Quanto accaduto in Serbia nel mese scorso dimostra che Mosca continua a godere del sostegno del presidente Tomislav Nikolić e del ministro degli Affari Esteri Ivica Dačić, leader del Partito socialista della Serbia (SPS). Nikolić ha ricevuto Petrušev e Dačić ha parlato molto duramente di pressioni dell’Occidente, aggiungendo che la Russia è di grande importanza e che la Serbia non deve accelerare il processo di eurointegrazione se questo significa rinunciare ai propri interessi nazionali.

“Qualcuno dirà che stiamo sacrificando la strada europea: non la stiamo sacrificando, ma la rallentiamo volutamente, non dobbiamo ad ogni costo aprire dei capitoli se le condizioni sono che la Serbia in cambio ceda il proprio territorio”, ha dichiarato Dačić al parlamento durante una polemica con i deputati dell’opposizione. Vučić non ha fatto commenti né su Dačić né su Nikolić, ma la sua relativa noncuranza rispetto alle loro saltuarie “uscite” è un chiaro indice che le resistenze interne ci sono e che non può soffocarle facilmente.

Si può dire, perlomeno, che vi è una grossa differenza nell’intensità con cui, Vučić da una parte e Nikolić e Dačić dall’altra, sostengono il processo di integrazione europea e le relazioni con l’Occidente. Una situazione difficile da mantenere sul lungo periodo e quindi qualcuno di loro dovrà prima o poi adeguare la propria retorica alla realtà.

Vučić, il politico più potente del paese, potrebbe “chiudere” l’intera faccenda chiedendo pubblicamente ai due alti funzionari di non relativizzare il percorso europeo della Serbia. Ma non lo sta facendo. Due i possibili motivi per questo comportamento: o sente di non avere abbastanza forza per un’azione che sia effettivamente decisiva, oppure anche lui inizia a pensare che sia arrivato il momento di accontentare il sempre più forte desiderio degli ultranazionalisti e di iniziare a rivolgersi verso la Russia.