Classe 1968, scrittore, traduttore, editor, columnist tra i più caustici, Igor Marojević è uno dei primattori della scena letteraria belgradese, un tipo la cui presenza non passa mai inosservata. Autore del recente Beograđanke (Donne di Belgrado), che in soli due mesi ha visto la quinta edizione
"Cos’è secondo me Belgrado? È New York scritta in cirillico" rispose a precisa domanda. E davanti alla mia espressione tra l’incredulo e il sardonico, rincarò la dose: "Se solo in questa fottuta città ci fossero immigrati stranieri, allora New York sarebbe davvero una copia imperfetta di Belgrado".
Sì, certo, un’estrema vitalità culturale, una metropoli che vive ventiquattr’ore su ventiquattro, dove è possibile fare la spesa, mangiarsi una pleskavica o far lavare e lucidare la macchina anche in piena notte, addirittura assistere a una maratona poetica alle prime luci dell’alba in un barcone sulla Sava. Un agglomerato di due milioni e mezzo di anime inquiete, la cui storia è un avvicendarsi di distruzioni e ricostruzioni, e che sta attraversando una nuova, delicata fase di trasformazione urbanistica (ne è testimonianza il recente, ciclopico progetto Waterfront, il cui rendering è pubblicizzato a caratteri cubitali nei luoghi di maggiore afflusso e nelle arterie principali: un investimento da quattro miliardi di euro che convertirà un’area dismessa sulle rive della Sava in una piccola Dubai). E tuttavia quell’iperbole mi sembrò quanto mai ardita, la sparata di un adorabile burlone con l’attitudine alla provocazione.
A due anni di distanza, seduti nel dehors dell’elegante Hotel Moskva ci tiene a ribadire il concetto, tra un bicchiere di rosé e l’altro, argomentando con la sua tipica aria da guascone e lo sguardo del fanciullo che prende a fiondate le lucertole. Classe 1968, scrittore, traduttore, editor, columnist tra i più caustici, Igor Marojević è uno dei primattori della scena letteraria belgradese, un tipo la cui presenza non passa mai inosservata. La “New York in alfabeto cirillico”che mi descrive è un perfetto ordigno narrativo, si adatta plasticamente a ogni sorta di genere, dal noir al dramma sociale, dalla commedia romantica alla pornosatira, dal thriller psicologico alla parodia, fino al romanzo distopico. Lui, tuttavia, ha provato a farne l’oggetto di un esperimento letterario, collocandola in un’inedita tipologia di racconto che definisce “realismo digitale”.
"La letteratura come possibile chiave d’accesso alla contemporaneità, oggi più che mai, deve fare i conti con la digitalità ormai incorporata in ogni forma reale e con le sue conseguenze antropologiche ed emotive. E dunque con la necessità di codificare un nuovo soggetto, inquadrato nella presente civiltà dell’informazione e in una rete di comunicazione globale che offre diritto di cittadinanza solo a prezzo di una radicale autoesclusione". Nel caso specifico il soggetto è declinato al femminile. Sono tutte “belgradesi”, infatti, le protagoniste, sin dal titolo, di questo esperimento, nel quale Marojević, dopo quattro romanzi e alcune importanti traduzioni (tra cui il monumentale 2666 di Roberto Bolaño), torna alla narrazione breve, che lo ha fatto conoscere al grande pubblico e gli ha permesso di varcare i confini nazionali.
Non a caso il suo Racconto prevedibile, soddisfatto, tratto dalla sua prima raccolta Tragaći [Cercatori] del 2001 e inserito nell’antologia Casablanca serba. Racconti da Belgrado curata da Nicole Janigro (Feltrinelli, 2003), è a tutt’oggi l’unico suo testo tradotto e pubblicato in Italia. Esperimento riuscito, almeno stando ai dati commerciali, che a soli due mesi dall’uscita in libreria fanno già registrare la quinta edizione e quasi novemila copie vendute, numeri del tutto inusuali per il mercato librario serbo. Beograđanke [Donne di Belgrado, Laguna 2014] non solo è balzato in vetta alle classifiche, ma a giudicare dalle reazioni e dal dibattito che ha scatenato, compreso l’inevitabile corollario di polemiche, è destinato a diventare il caso editoriale dell’anno.
Beograđanke, Donne di Belgrado
Si tratta di otto racconti che vedono al centro ragazze comuni, madri, amanti, mogli tradite, donne vittime di discriminazione sul lavoro o inghiottite dagli anonimi casermoni di Novi Beograd, oppure migrate all’estero ma emotivamente legate alla “città bianca” come al grembo di una matrigna. Racconti in prima persona dall’economia narrativa ridotta all’essenziale e con una sapiente miscela di ironia e cinismo, che rifuggono dalla spettacolarizzazione metropolitana così come dallo psicologismo prêt-à-porter, privilegiando un’intimità verace, fatta di malriposte aspirazioni sociali e investimenti affettivi a perdere. E presentano un registro colloquiale nutrito da un vocabolario tagliato a misura di ciascun Io-narrante (l’aspetto forse più originale e ambizioso dell’esperimento).
"L’idea di un libro concepito e scritto da una simile prospettiva mi ha accompagnato sin dalla fine degli anni ottanta, per la precisione da quando lessi Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver e fui colpito dai tre racconti al femminile presenti nella collezione, dal senso di vuoto sociale e di disperazione domestica che essi dischiudevano. In quel periodo le donne incarnavano al meglio l’urbanità di Belgrado, la connotazione spiccatamente civica del suo tessuto sociale e culturale. Da quando ho fatto ritorno, nel 2006, dalla mia lunga esperienza accademica in Spagna mi sono accorto che quella componente così decisiva si era dissolta, era fuggita dalla miseria e dal primitivismo dilagante, oppure semplicemente invecchiata – e piuttosto male, direi! Ho capito che la gentrificazione compiutasi anche in virtù degli sconvolgimenti geopolitici del Paese aveva prodotto una nuova generazione, che nulla aveva in comune con la precedente. Ho cominciato così a osservare e a registrare con meticolosa attenzione comportamenti, abiti mentali e stilemi delle mie nuove amiche, colleghe, fidanzate, vicine di casa, cui ho voluto dar voce, con gli opportuni accorgimenti finzionali, nei miei racconti. E ho capito che Belgrado mutava pelle non soltanto insieme a loro, ma attraverso di loro. Questo libro è il risultato di una ricerca durata anni."
Mentre la compagine maschile sembra tuttora avvolta in una paralizzante spirale di orgoglio ferito e latente senso di colpa per i disastri politici degli anni novanta, dalla generale sensazione di fallimento e dalla mancanza di prospettive, a detta di Marojević la nuova popolazione femminile ha trasformato l’eredità del socialismo in un esuberante mix di ortodossia ed erotismo, diventando la cartina al tornasole della metamorfosi per certi versi epocale che la città sta attraversando. «Il novanta per cento delle giovani belgradesi ha una solida fede religiosa, va in chiesa quasi regolarmente, officia le slave e rende onore ai santi patroni, ma al tempo stesso affolla i concerti turbo-folk, spende i pochi soldi a disposizione in vestiari appariscenti ancorché succinti, considera Internet come la nuova frontiera del sesso e in generale cerca di dare alla propria vita una dinamicità tutto sommato confusa e priva di gusto."
"Sono più individualiste, egoiste ed esigenti delle loro madri o nonne. E nonostante siano venuti perlopiù a mancare i danarosi “sponsor” dell’era Milošević, finiti in disgrazia o in galera, esse hanno introdotto nel costume cittadino, da sempre refrattario a simili pratiche, la tradizione rurale del miraz [la “dote”, ndr], pur trasfigurandola in un’etichetta a metà tra il bene materiale e il valore simbolico. Il corpo è diventato infatti l’unico oggetto di “trattativa”: svincolato da ogni condizionamento familiare, racchiude la solidità di un bene fisico ‑ le forme modellate ed esibite con cura ossessiva – e la proiezione ideale verso un modello enfatizzato dai media, una femminilità dominante e devota a un tempo."
Ne è testimonianza, con oltre diecimila interventi nel solo 2013, il boom della chirurgia estetica – Belgrado, grazie alle sue cliniche sorte come funghi negli ultimi anni, è diventata la capitale europea della mastoplastica low cost ‑, al punto che la Strahinjića Bana, una via del quartiere di Dorćol piena di bar, taverne e locali notturni, è stata ribattezzata, in uno sfoggio di ironia a chilometri zero, la “Silicon Valley serba”.
Fuga dalla realtà
Tuttavia Marojević non si è fermato alla superficie, ai riflessi di un’effimera ribalta, alla versione offline di un fenomeno visibile in parte anche all’occhio dello straniero, ma ha voluto spingersi nella sua dimensione privata, nella grigia coltre di quotidianità che offre ricca sostanza al nuovo immaginario, nei claustrofobici appartamenti delle periferie da cui si spicca il volo verso le luci del centro o ci si affida al flusso perpetuo ed evanescente della comunicazione virtuale. Mettendo a nudo quegli schemi culturali, vecchi e nuovi ‑ in gran parte meccanismi repressivi ‑ che forgiano desideri ed emozioni, e condizionano le vite delle protagoniste. Per esempio il patriarcato, o il maschilismo ancora imperante negli ambienti di lavoro, che condanna Jovana a una forma particolarmente subdola di mobbing, o il consumismo tecnologico che genera labili sensazioni di onnipotenza e spinge la ventitreenne lesbica a uccidere l’ex fidanzato fracassandogli in testa un telefono Philips ultimo modello.
La fuga dalla realtà, uno dei fili conduttori della raccolta, si traduce in un isolamento autoimposto, talvolta compiaciuto, come nel caso della teenager che sublima l’amicizia con tre compagne di scuola in un ininterrotto e violento social-videogame, o della donna che soffre di un perenne stress post-traumatico da bombardamenti, vive reclusa in casa da sei anni e mezzo e ha un boyfriend online con cui fa sesso via Skype (finché quest’ultimo, un giorno, decide di bussarle alla porta). La stessa illusoria o precaria fuga di un’altra belgradese, che ha fatto carriera universitaria a Londra, ma che nella sua esistenza vicaria e digitale continua ad abitare nella metropoli natale e a frequentare compulsivamente, attraverso i social media, gli amici di un tempo. O infine quella fuga insopprimibile e inesauribile chiamata adulterio.
In questi frammenti di confessione biografica la città non è semplicemente lo sfondo che tiene insieme le più disparate vicende personali, non si limita a stabilire analogie o a delineare destini collettivi, ma riproduce un’autentica topografia dell’anima. Un luogo che offre coordinate fisiche alla solitudine, all’estraneità, allo sradicamento, e che genera nondimeno un paradossale senso di appartenenza. È questa, in ultima istanza, la Belgrado-New York di Marojević, la vera protagonista del suo libro.
Marojević tra i più importanti scrittori serbi contemporanei
I recentissimi riflettori non hanno certo cambiato i connotati alla sua immagine pubblica – Marojević è abituato a essere al centro di discussioni e controversie, letterarie e non. Gli hanno garantito senz’altro una maggiore visibilità internazionale, attestata dalla partecipazione, tra gli ospiti d’onore, alla prossima Fiera del Libro di Guadalajara (ci auguriamo sia lo spunto affinché qualche lungimirante editore italiano presti la dovuta considerazione alle sue opere). E gli hanno procurato tuttavia non pochi problemi a livello personale. "La mia posta elettronica e la messaggistica si riempiono ogni giorno di commenti, non sempre lusinghieri. Non mancano gli insulti, né sporadici atti di cyberbullismo. Sono quasi tutte lettrici, e non mi sorprende, visto che è un libro che parla di donne e che le donne costituiscono il principale target editoriale in Serbia (rappresentano all’incirca il settanta per cento dei consumatori di libri). Alcune mi accusano di aver attinto a stereotipi maschili o alle solite banalità funzionali al confezionamento di un best seller, ma non è così. Mi sono soltanto limitato a raccontare storie di individui in carne e ossa che ho conosciuto e frequentato, stili di vita e dettagli psicologici con cui ho dovuto misurarmi personalmente."
Alla domanda se modificherebbe la versione finale alla luce dei feedback ottenuti, non ha dubbi: "Certo! Probabilmente riscriverei ogni singolo racconto. Non sono uno di quegli autori che hanno un approccio dogmatico al proprio manoscritto. I miei romanzi di maggior successo, Žega [Siccità, 2004, Premio Stevan Pešić come migliore opera in prosa] e Šnit [Schnitt, 2007], sono il risultato di molteplici e faticose revisioni, nelle loro versioni finali è rimasto ben poco delle prime stesure. Se potessi rimetterci mano, li stravolgerei di nuovo. Come diceva Borges, il libro non è un ente chiuso alla comunicazione, ma un asse di innumerevoli relazioni, e per me la scrittura è nulla più che un continuo processo di apprendimento."
Il suo editore, Laguna, pare essersi fatto interprete di questa istanza, trasformando Beograđanke in una sorta di open work. Ha indetto un concorso letterario tra le lettrici, invitandole a scrivere e ad inviare alla redazione un proprio racconto, ampliando così la prospettiva delle “belgradesi”. I tre migliori racconti verranno pubblicati online e andranno ad arricchire il volume di un’inconsueta appendice.
Polemiche a parte, il successo di Beograđanke pare davvero costituire un passaggio ulteriore e decisivo verso la definitiva consacrazione di Marojević tra i più importanti scrittori serbi contemporanei, quanto meno la garanzia di un posto di rilievo nella comunità letteraria. Un’ipotesi peraltro sgradita al diretto interessato. "La letteratura serba contemporanea, intendo quella “ufficiale”, è lontana dallo spirito del tempo, chiusa in se stessa e legata ancora a codici ottocenteschi ‑ con alcune felici eccezioni, naturalmente. La colpa è soprattutto di certa critica letteraria, insensibile ai nuovi stili e tendenze, ancorata a paradigmi obsoleti e a quel vuoto accademismo ben rappresentato dalla figura maschile presente in Sivi komplet [Abito grigio], il racconto che chiude la raccolta: uno scrittore fallito che ha fatto del culto commemorativo dei grandi padri della letteratura nazionale un’autentica fissazione e uno strumento di ostracismo. In quest’ottica preferisco rimanere un’eterna promessa o un outsider convinto. Anzi, sono e sarò sempre un loser. Dicono così a New York, vero?".