Quest’anno ricorrono i quarantacinque anni dallo scoppio della più grande polemica letteraria in Jugoslavia che spingerà Danilo Kiš a scrivere la sua Lezione di anatomia, un’opera ancora attuale nella regione post-jugoslava
Sarajevo, tardo autunno del 1976. Sto in compagnia di alcuni miei colleghi del corso di letterature slave meridionali, discutiamo del racconto Smrt gospodina Goluže [La morte del signor Goluža] di Branimir Šćepanović, pubblicato sul settimanale belgradese NIN. Una collega, “avvocato” dell’autore, sostiene di aver trovato in quel racconto più sostanza che nelle migliori opere di Krleža e Andrić! Dopo aver ripetuto in modo sarcastico quel “più che nelle”, un collega afferma che quel racconto non è altro che una pochade. Uno degli ammiratori della prosa di Šćepanović replica citando le numerose traduzioni di quel racconto, ma anche di un romanzo di Šćepanović intitolato Usta puna zemlje [La bocca piena di terra]. Quel collega che ritiene che il racconto di Šćepanović sia privo di qualsiasi valore conclude che solo il tempo mostrerà quale posto spetti effettivamente a tale prosa e al suo autore. Le traduzioni, sostiene il mio collega, possono anche rispecchiare una tendenza in voga. Quelli che la pensano diversamente agitano le mani per esprimere il proprio disappunto. Mi intrometto nella discussione affermando che nel racconto La morte del signor Goluža non ho trovato nulla che mi spingesse a rileggerlo. La maggior parte dei partecipanti alla discussione di nuovo scuote le mani.
Quel collega che non apprezza il racconto di Šćepanović afferma che quell’opera non c’entra nulla con la letteratura essendo piena di elementi poco convincenti, se non addirittura artificiosi, dalla tendenza a flirtare con il tema del suicidio ad un pessimo stile. Per poi aggiungere laconicamente: “Avete letto Grobnica za Borisa Davidoviča [Una tomba per Boris Davidovič] di Kiš?”. Silenzio. Nessuno di noi, tranne quel collega, aveva letto quei “sette capitoli di una stessa storia” pubblicati nell’estate del 1976.
Alcuni testimoni affidabili sostengono che nell’autunno del 1976 Kiš, il cui libro Una tomba per Boris Davidovič ebbe subito un’eco notevole in Jugoslavia (e successivamente anche in Europa e in America), si fosse fatto beffa del racconto di Šćepanović che fu lodato dal settimanale NIN e venne incluso, come l’unica opera della letteratura jugoslava, in una raccolta di racconti della letteratura mondiale curata da Charles Angoff. Fu annunciato che il racconto di Šćepanović sarebbe stato incluso anche in un’antologia di racconti di autori europei moderni preparata in Danimarca da Peter Brask e Mogens Gradenwitz. Quindi, Kiš non si era fatto beffa solo di Šćepanović, ma anche del settimanale NIN e del gusto dei curatori di varie antologie (diciotto in tutto) in cui fu incluso il racconto di Šćepanović e, implicitamente, anche del gusto di vari traduttori (“gusto” è un eufemismo dietro al quale si cela la domanda: Cos’è e cosa non è la letteratura?). Credo che Kiš si fosse fatto beffa anche di tutti quelli che si illudevano pensando che lo stalinismo – inteso in senso lato, non solo come metafora dell’uniformità del pensiero – fosse stato sradicato dalla Jugoslavia nel 1948.
Branimir Šćepanović fu davvero il massimo rappresentante della letteratura jugoslava del periodo compreso tra il 1945 e i primi anni Settanta? Dubito che fosse stata la vanità a spingere Kiš a farsi beffe di Šćepanović. Credo invece che fosse stato guidato da una riflessione più ampia e più profonda dal ragionamento dei curatori di varie antologie. Perché un racconto (a prescindere dalla tradizione letteraria a cui appartiene), una volta incluso in un’antologia – che lo si voglia ammettere o meno – assume un ruolo più ampio.
Negli anni Settanta Crnjanski e Krleža erano ancora vivi (Andrić morì nel 1975), così come lo erano alcuni altri scrittori, tuttora rilevanti, che avrebbero rappresentato la letteratura jugoslava meglio di Šćepanović. Una letteratura della periferia d’Europa, ma importante grazie al contributo di alcuni suoi esponenti. Quindi, la decisione di Kiš di mettere alla berlina l’opera di Šćepanović può essere interpretata anche come un tentativo di sollevare un interrogativo del tutto lecito.
Ammettendo pure che il gesto di Kiš contenesse qualche briciola di vanità, o forse sarebbe meglio definirlo orgoglio, credo lo si possa interpretare come frutto del tentativo di Kiš di raffrontare, in chiave critica, la sua opera a quella di Šćepanović. Un tentativo del tutto legittimo tenendo conto del fatto che proprio in quel periodo Kiš – che già da giovane si era distanziato da tutte le correnti letterarie conservatrici, considerando “il sentimento differenziale” come un elemento fondamentale del suo laboratorio letterario – aveva iniziato ad opporsi non solo al gusto dominante, ma anche ai vari clan letterari, in primis a quelli belgradesi.
Dove siamo oggi, quando anche i più rinomati giornali, da New York a Tokyo, da Berlino a Johannesburg, considerano ogni libro che si vende bene come “un evento”? Dove siamo e chi siamo se continuiamo a far finta di non accorgerci della formula scrittore-editore-media-vendita?
“Forse tutte le correnti letterarie sono davvero morte? Forse si è spenta anche la Galassia Gutenberg senza aver illuminato sufficientemente la Storia in Movimento? Non conosco la risposta a queste domande, ma quello che so con certezza è che oggi prevale un’unica ‘corrente letteraria’: l'editorismo. Il suo manifesto è interamente basato su una semplice domanda retorica. Se non la conoscete, ve la ripeto: I vostri libri si vendono bene o male?”. Scriverebbe una cosa simile se fosse ancora vivo? Lui, Kiš.
Il primo a scagliarsi contro Kiš fu Dragoljub Golubović Pižon, giornalista della rivista Duga. In un articolo pubblicato verso le fine del 1976 Golubović accusò Kiš di aver inserito nei racconti che compongono Una tomba per Boris Davidovič alcune parti di opere altrui senza citare la fonte. Ben presto la polemica si infiammò, soprattutto sulle pagine della rivista zagabrese Oko e di quella belgradese Književne novine, finendo per coinvolgere anche il giornale ufficiale dell’unico partito politico della Jugoslavia di allora. Un gruppo di scrittori belgradesi appoggiò Golubović in quello che indubbiamente fu un attacco orchestrato. Tra i più rumorosi sostenitori di Golubović c’erano Miodrag Bulatović, il professor Dragan M. Jeremić e, ovviamente, Branimir Šćepanović. A difendere Kiš non furono tanto gli scrittori serbi quanto quelli croati, in primis Predrag Matvejević, e in Slovenia Taras Kermauner.
Allo scoppio della polemica, che oltrepasserà l’epoca in cui è nata, molti scrittori e intellettuali belgradesi si tennero in disparte, aspettando semplicemente che la disputa si risolvesse. Tra quelli che invece si rifiutarono di rimanere in silenzio spiccano Oskar Davičo, il professor Nikola Milošević e Borislav Mihajlović Mihiz. La redazione del settimanale NIN cercò di relativizzare l’importanza della polemica pubblicando, solo occasionalmente, alcune parti dei testi di chi difendeva Kiš. A nome della redazione intervenne uno scrittore secondo cui “una volta che l’intera polemica si placherà, sul campo di battaglia rimarranno centinaia di migliaia di parole e citazioni e in quel conglomerato non si saprà più nemmeno quale fosse l’oggetto del contendere”. Si sbagliava però, così come si sbagliavano tutti quelli che la pensavano come lui, assumendo un atteggiamento neutro o tollerante verso entrambe le parti coinvolte nella polemica, ritenendo quindi che ognuno abbia il diritto di esprimere la propria opinione.
Con l’intensificarsi della polemica, la strada di Kiš e quella di Branimir Šćepanović, Miodrag Bulatović, Dragan M. Jeremić e di altre menti anguste non solo della palanka letteraria belgradese, ma anche di quella jugoslava, divennero parallele.
Noi, studenti, seguimmo quella polemica pro e contro Kiš come se fossimo tifosi, schierandoci da una o dall’altra parte senza nemmeno immaginare, così come non se lo immaginavano tanti altri, che l’autore di Una tomba per Boris Davidovič non si sarebbe limitato a replicare pubblicamente a chi aveva preso parte a quella gogna contro di lui, bensì avrebbe deciso di immortalare quella “fiera ubriaca della nostra letteratura”, quei “fiumi di inchiostro e di bile” nella sua Lezione di anatomia (1978). Un’opera impregnata di uno spirito cosmopolita che sopravvivrà all’epoca in cui è nata; una riflessione sulla letteratura con cui Kiš ci ha fornito materiale sufficiente per provare a indovinare quale sarebbe la sua opinione su alcuni fenomeni attuali, letterari e non solo. Non è forse vero che Kiš fu tra i primi a sollevare, proprio nella sua Lezione di anatomia, quella domanda che mette in imbarazzo molti scribacchini della nostra epoca: Chiunque impugni una penna è scrittore?
All’apice della polemica, Dragan M. Jeremić, professore di estetica e di sociologia dell’arte presso la Facoltà di Filosofia di Belgrado, divenne corifeo del coro degli oppositori di Kiš. Presidente dell’Associazione degli scrittori della Serbia e critico letterario noto per la sua riluttanza ad aprirsi alle nuove tendenze letterarie, Jeremić era considerato una persona seria, al pari dello scrittore Miodrag Bulatović.
Quale fu il principale motivo che spinse Jeremić ad attaccare Kiš? Nessuno ha mai rimproverato ad Andrić il fatto di aver utilizzato, durante la scrittura del romanzo Travnička hronika [La cronaca di Travnik], varie fonti, dai documenti d’archivio al materiale storiografico (Kiš affronterà anche questa questione nella Lezione di anatomia.) Senza le memorie di Simeon Piščević, ufficiale dell’esercito austriaco, e poi di quello russo, di origini serbe, non ci sarebbe stato il romanzo Migrazioni di Miloš Crnjanski. Meša Selimović non ha mai nascosto di essersi ispirato, durante la stesura del romanzo Tvrđava [La fortezza], agli scritti di un cronista della vita sarajevese, Mula Mustafa Bašeskija, e i critici letterari non glielo hanno mai rimproverato. Cito Andrić, Crnjanski e Selimović perché si tratta di nomi noti anche ai lettori europei.
Tra i numerosi ricordi riguardanti quella polemica che i contemporanei di Kiš ci hanno lasciato, cito un testo di Ivan Ivanji, uno dei pochi scrittori serbi viventi nati prima dell’autore di Una tomba per Boris Davidovič. “Il conservatore Jeremić amava di più i grandi scrittori russi, in primis Dostoevskij. Anche Dostoevskij talvolta si era ispirato alle esperienze vissute da altre persone [detenute] in Siberia. Penso che Dragan Jeremić, che conoscevo bene, fosse stato geloso di Kiš, della sua fama letteraria raggiunta in giovane età, ma anche del fatto che Kiš era diventato cultore [della lingua serbo-croata] presso un’università francese, e il dottor Jeremić non ci era mai riuscito. Inoltre, in un suo testo pubblicato prima [dello scoppio della polemica] Kiš aveva scritto che ‘il nazionalismo è una paranoia’, offendendo profondamente tutti i nostri ‘patrioti’ che quindi giunsero alla conclusione che [Kiš], in quanto ebreo, non era ‘dei nostri’. E Danilo […] aspirava ardentemente ad essere non solo universale, ma anche ‘nostro’”.
Oltre a portare allo scoperto vari aspetti del provincialismo dell’ambiente letterario belgradese e jugoslavo, gli attacchi contro Kiš evidenziarono quanto in Jugoslavia fosse ancora vivo lo spirito dello stalinismo, nonostante la rottura epocale tra Tito e Stalin del 1948. (L’unico partito all’epoca esistente in Jugoslavia, quello comunista, aveva assunto una posizione saggia nella polemica creatasi attorno all’opera di Kiš. Va però ricordata un’affermazione di uno dei più alti esponenti del partito secondo cui il libro di Kiš sarebbe stato un attacco al comunismo. Proprio in quel periodo Tito si era incontrato con Brežnev, il quale aveva chiesto al presidente jugoslavo spiegazioni su “un libro antisovietico”. Non si sa cosa avesse risposto Tito.)
E Kiš? Si rifiutò di stare seduto sul banco degli imputati senza fare nulla. In quella polemica basata sulle accuse di plagio, Kiš utilizzò toni tutt’altro che gentili, respingendo anche l’accusa di essere uno scrittore filoebraico e antisocialista. Gli oppositori di Kiš cercarono di corroborare le accuse di plagio citando alcune pagine che Kiš avrebbe “copiato” dalle opere di Louis Réau, Roj Medvedev e Karlo Štajner. Successivamente, il professor Jeremić aggiunse anche altri scrittori ai quali Kiš avrebbe “rubato”, tra cui Borges e Schulz.
No, Kiš non fu affatto gentile: per lui quella polemica era una questione di vita o di morte. Uno scrittore che commette plagio è morto a prescindere dal fatto che sia ancora fisicamente vivo o meno. Lezione di anatomia è frutto della lotta di uno scrittore per la sopravvivenza. Kiš aveva trasformato la lezione che i malvagi e gli invidiosi volevano dargli in una lezione destinata agli autori mediocri, ma anche ai giovani scrittori in cerca del proprio credo.
Quale posto occupa Lezione di anatomia oggi, quarant’anni dopo la fine della polemica, conclusasi ufficialmente all’inizio degli anni Ottanta con una sentenza a favore di Kiš? In parole povere, Mozart ha sconfitto e superato i vari Salieri: scrittori mediocri, semiscrittori, scrittori “filosofi, scrittori-giornalisti, tutti invidiosi e perfidi”. (Narcis bez lica [Narciso senza volto], un’opera in cui Jeremić, rispondendo alla Lezione di anatomia, aveva investito tutte le sue capacità e competenze, finendo per accusare Kiš anche dei propri fallimenti letterari, è ormai caduta nell’oblio.)
Nel contesto della letteratura serba (ma anche di altre letterature slave meridionali), Lezione di anatomia resta importante come un’autopsia applicabile anche agli attuali clan e camarille letterarie belgradesi, zagabresi, sarajevesi… Ad oggi ha avuto una ventina di ristampe in Jugoslavia, in Serbia e in altri paesi della regione. A prescindere dal contesto nazionale in cui è nata, Lezione di anatomia, nei suoi contenuti essenzialmente estetici, supera i confini nazionali proprio grazie allo spirito cosmopolita del suo autore. Purtroppo, Lezione di anatomia è stata finora tradotta solo in francese, tedesco e spagnolo. Il mio non è un lamento, vorrei solo ricordare i lettori in Italia, quelli veri, che una traduzione italiana della Lezione di anatomia ad alcuni potrebbe apparire come una pietra gettata nella palude dell’iperproduzione letteraria.
La storia che segue, storia che nasce dal dubbio e dalla perplessità,
ha la sola sfortuna (alcuni la chiamano fortuna) di essere vera:
è stata scritta per mano di persone oneste e di testimoni affidabili.
(Danilo Kiš, Una tomba per Boris Davidovič)