Copyright Muzej Jugoslavije

Copyright Muzej Jugoslavije

Questa estate, a Belgrado si è respirata un'atmosfera africana. Due esposizioni hanno ricordato i legami tra la Jugoslavia socialista e il continente africano, sullo sfondo del Movimento dei non allineati

(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 25 settembre 2017)

Nympa kor ndzidzi: "L'uomo non può far niente da solo". Questo proverbio, dipinto sul fianco di un peschereccio del Ghana, accoglie i visitatori all'ingresso del Museo delle arti africane di Belgrado . "Per la comunità di pescatori, ciò significa una cosa, ma quando veniva esposta in un museo in Jugoslavia, la frase assumeva tutto un altro senso. Significava che ciascun paese non allineato non è solo, che sono tutti uniti e solidali", spiega la curatrice Emilia Epštajn, che ha pensato alla ristrutturazione di questo luogo unico. La giovane donna, che è cresciuta in Zambia, prosegue: "Le nostre collezioni sono limitate se le si compara a quelle del Quai Branly, ma noi siamo il solo museo di arti africane dell'Europa orientale". All'entrata del museo, troneggia un'ancora, recuperata da una nave negriera. Una targa, che è sparita da qualche anno, spiegava la sua provenienza, ripetendo "che nessun popolo jugoslavo ha mai partecipato alla tratta degli schiavi."

Veda e Zdravko Pečar, foto d'epoca

Il museo, creato da Veda e Zdravko Pečar, festeggia quest'anno i suoi 40 anni. Militante del Partito comunista e clandestina dal 1936, Veda Zagorac sposò nel 1944 Zdravko Pečar, giovane partigiano sloveno destinato a diventare giornalista dopo la guerra. Nel 1958, il reporter accompagna per due mesi un battaglione del Fronte di liberazione nazionale (FLN), infiltrato dietro le linee francesi in Algeria. Nello stesso periodo, Veda, consigliera culturale presso l'ambasciata jugoslava a Tunisi, gioca un ruolo importante per la propaganda del FNL. La coppia continuò la propria carriera in Africa, frequentando tanto Frantz Fanon o Patrice Lumumba quanto tutti i nuovi dirigenti di un continente che accedeva all'indipendenza sognando il socialismo. Molto vicino a Ahmed Ben Bella, primo presidente algerino, Zdravko Pečar denunciò il colpo di stato di Boumedienne (1965). Incomincerà poi anche lui una carriera diplomatica, prima in Mali, poi in Ghana. In una ventina d'anni, i coniugi Pečar fecero quasi il giro dell'Africa, prima di rientrare in Jugoslavia nel 1977, con circa 1200 oggetti della loro collezione privata, base del futuro museo.

"Zdravko Pečar insisteva sul fatto che tutti i pezzi fossero stati esportati legalmente, con i documenti doganali a posto, che nessuno fosse stato derubato, contrariamente a ciò che si può vedere nei musei occidentali", ricorda Emilia Epštajn. "Zdravko Pečar ha creato una collezione con uno sguardo alla Jugoslavia, in un modo che può essere qualificato come non-occidentale. Questa collezione riflette il suo punto di vista di diplomatico jugoslavo e si differenzia molto da ciò che si può vedere nell'Europa occidentale. Questo museo racconta una pagina di storia titoista, il modo nel quale il regime voleva rappresentare all'epoca l'Africa, ossia come un continente sul punto di liberarsi delle catene del colonialismo".

Veda e Zdravko Pečar, questa coppia di rivoluzionari internazionalisti, furono contemporaneamente testimoni privilegiati di una straordinaria ondata di liberazioni e di rivoluzioni, ma anche attori principali della solidarietà jugoslava. Prima la Conferenza di Bandung (Indonesia, 1955), poi la dichiarazione adottata nel 1956 a Brioni congiuntamente da Tito, dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e dal primo ministro indiano Jawaharlal Nehru e infine la Conferenza di Belgrado (1961) misero in piedi il Movimento dei non-allineati.

In un mondo polarizzato dallo scontro tra l'URSS e il "blocco occidentale", si trattava di far sentire una terza voce, quella dei popoli sulla via della liberazione, quella di coloro che avevano provato ad inventare un "altro socialismo". Per il regime titoista, il non-allineamento fu anche un mezzo di sopravvivenza e per farsi rispettare sullo scenario internazionale. Dalla rivoluzione algerina alla causa palestinese, la Jugoslavia sostenne tutte le lotte anticolonialiste. Come suggerisce il suo biografo Jože Pirjevec, Tito fu il primo dirigente europeo capace di incontrare gli africani senza paternalismo: il ghanese Kwame Nkrumah diceva di lui che era "l'uomo di stato contemporaneo che aveva compreso meglio l'Africa".

L'impegno jugoslavo in Africa

Emilia Epstejn - foto di Laurent Geslin
Emilia Epstejn - foto di Laurent Geslin

"Anche la Jugoslavia è stata territorio colonizzato per più di cinque secoli dall'Impero Ottomano, senza dimenticare l'annessione della Bosnia Erzegovina all'Austria Ungheria" spiega Danilo Milić, diplomatico in pensione che ha condotto quasi tutta la sua carriera in Africa. "Noi abbiamo un riflesso incondizionato di solidarietà verso i paesi colonizzati. La Lega dei comunisti jugoslavi era legata all'idea di contribuire alla liberazione dei popoli posti da così tanto tempo sotto il giogo coloniale. Questo orientamento ha dominato la nostra politica, sebbene i paesi socialisti pro-sovietici fossero soprattutto impegnati a non turbare l'equilibrio tra i blocchi". La Jugoslavia di Tito ha giocato un ruolo fondamentale nel sostegno dell'indipendenza algerina, tanto sul piano diplomatico, trasmettendo sin dal 1954 le rivendicazioni del FLN dinnanzi alle Nazioni Unite - quando l'URSS si mostrava molto più riservata - quanto fornendo armi.

Dopo l'indipendenza algerina, migliaia di cooperanti jugoslavi sono partiti per l'Algeria, nonostante il progressivo allineamento di questo paese con l'URSS a partire dal colpo di stato del 1965. La Jugoslavia si impegnò ugualmente anche in Congo-Kinshasa al fianco di Patrice Lumumba, in Mali, in Guinea-Conakry e in Ghana. "Nel 1958, la Guinea di Sekou Toure ha votato in massa contro il progetto di una nuova costituzione di De Gaulle, provocando la rottura brutale dei legami con la Francia", ricorda Danilo Milić. "Immediatamente, tutti i francesi sono partiti e migliaia di cooperanti jugoslavi sono venuti a sostituirli. Hanno imparato il francese per poter insegnare nelle scuole dei villaggi". Durante quegli anni, si strinsero anche le relazioni tra la Jugoslavia e Che Guevara, partito egli stesso nel 1965 per combattere in Congo dopo aver effettuato un viaggio nei Balcani quando era ancora poco conosciuto. Durante questi anni d'intenso fervore politico, l'URSS e la Cina di Mao si disputavano la leadership della rivoluzione mondiale, ma anche alcuni paesi socialisti "diversi", come Cuba e la Jugoslavia, intendevano giocare pienamente il loro ruolo.

Quest'ultima fu particolarmente attiva nell'appoggio ai movimenti di liberazione delle colonie portoghesi - Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Guinea Equatoriale, Sao Tomè e Princip, Capo Verde -, gli ultimi a liberarsi dal giogo coloniale, nel 1975, dopo la rivoluzione portoghese dei garofani. L'ambasciatore Milić, che ha terminato la sua carriera in Angola si ricorda di quegli anni folli: "Il governatore portoghese della Guinea-Bissau diceva che era per colpa della Jugoslavia se questa colonia era diventata il 'Vietnam portoghese'. In effetti rifornivamo massicciamente di armi il movimento di liberazione: il Partito africano per l'indipendenza della Guinea e di Capo Verde di Amilcar Cabral".

La Jugoslavia si è anche interessata alla lotta contro il regime di apartheid in Sudafrica. "All'inizio degli anni '80, centinaia di ufficiali della SWAPO si sono venuti a formare a Belgrado", prosegue Danilo Milić. L'Organizzazione del popolo dell'Africa del Sud-Ovest (SWAPO) era il movimento di liberazione della Namibia, occupata dal Sudafrica fino al 1990. Di contro, la Jugoslavia titoista intrattenne delle relazioni più distanti con il Congresso nazionale africano (ANC) di Nelson Mandela, giudicato troppo vicino all'URSS, preferendogli il movimento della Coscienza nera e il Congresso panafricano (PAC) di Steve Biko.

Un'eredità dimenticata

Dopo la frammentazione della Jugoslavia, gli stati successori hanno conservato qualche traccia di questa eredità: alcune aziende jugoslave - divenute nel frattempo croate o serbe - sono ancora presenti in certi paesi africani, soprattutto nel Maghreb, e la Serbia ha conservato per lungo tempo una rete diplomatica sproporzionata rispetto ai mezzi economici a disposizione, che però si è progressivamente ridotta. Oggigiorno solo otto paesi africani hanno una propria sede di una rappresentanza a Belgrado: l’Algeria, l’Angola, la Repubblica democratica del Congo, l’Egitto, la Guinea-Conakry, la Libia, il Marocco e la Nigeria.

Ciascuno di questi paesi ha uno stand durante l’Afrofest, il festival delle culture africane organizzato tutti i mesi di luglio dal 1997 ad oggi presso i giardini del Museo delle arti africane. L’incaricato di affari guineense, Almamy Kobélé Keita, serba memoria dell’aiuto che la Jugoslavia ha portato al suo paese. "EnergoProject ha largamente contribuito a portare l’elettricità nel nostro paese, la Jugoslavia ha inviato insegnanti, medici, ci ha offerto bus, trattori… Noi l’abbiamo sempre considerata come una grande amica della Guinea e siamo stati molto tristi quando è scoppiata e per il fatto che sia sprofondata nella guerra. Se fosse dipeso dalla Guinea, la Jugoslavia sarebbe ancora unita, ma nessuno può l’impossibile...".

Il diplomatico assicura che le imprese serbe sono sempre le benvenute nel suo paese e possono usufruire delle risorse naturali esistenti, un invito che però ha ben poche possibilità di concretizzarsi. Di fatto, la Serbia non sembra più avere l'intenzione, né i mezzi, di far fruttare questa eredità, della quale ha saputo tuttavia ricordarsi dopo la proclamazione d’indipendenza del Kosovo, nel 2008. L’allora ministro degli Affari Esteri, Vuk Jeremić aveva frequentato i vertici dell’Unione africana - dove la Serbia dispone sempre di uno status di osservatore - e aveva saputo ravvivare le vecchie solidarietà per dissuadere i paesi dell'Africa dal riconoscere il nuovo stato. Questo risveglio del non-allineamento aveva sorpreso gli "sponsor" occidentali dell’indipendenza kosovara, ma era puramente opportunista e non ha avviato una dinamica di cooperazione.

Al contrario, la memoria di questa eccezionale solidarietà tra la Jugoslavia e l’Africa è oggigiorno caduta nell’oblio. I quarant’anni del Museo di Arti africane, come l’esposizione su "Tito e l’Africa, immagini della solidarietà" ugualmente organizzata al Museo della Jugoslavia , sono l’occasione di tirar fuori dall’ombra questi stracci di storia. "In occidente, la realtà del colonialismo è sempre lasciata nell’ombra perché non si vuole parlare di anticolonialismo. I musei occidentali sono istituzioni derivate dal colonialismo, che ha forgiato la loro metodologia e il loro sistema narrativo. Da noi, l’esclusione dell’anticolonialismo ha tutta un’altra origine", spiega Ana Sladojević, la coordinatrice dell’esposizione presso il Museo della Jugoslavia. "L’anticolonialismo, il non-allineamento e la solidarietà internazionale sono dei valori molto legati all’identità jugoslava. Dagli anni '90, si è tentato di eclissare questa identità jugoslava in nome del nazionalismo serbo, si è dunque messo da parte valori quali l’antifascismo e l'anticolonialismo, che fanno tuttavia parte della nostra storia".