Il ministro degli Esteri Giulio Terzi

Il ministro degli Esteri Giulio Terzi (foto www.esteri.it)

Lo status di candidato recentemente ottenuto dalla Serbia è un merito che il Paese si è guadagnato con grandi sforzi. La diplomazia però, soprattutto quella italiana, ha lavorato alacremente per sostenere la candidatura di Belgrado

06/03/2012 -  Alvise Armellini Bruxelles

In Serbia si avvicinano le elezioni, e come quattro anni fa, l'Unione europea cerca di tirare la volata al suo interlocutore preferito, il presidente Boris Tadić. E, come allora, dietro questa strategia c'è lo zampino della diplomazia italiana. “Per noi è fondamentale dare un riconoscimento a un uomo politico coraggioso come Tadić,” raccontava un diplomatico nazionale di stanza a Bruxelles, a pochi giorni dal summit che ha ufficialmente riconosciuto la Serbia come candidato all'UE,  e a pochi mesi dalle elezioni legislative di fine aprile-inizio maggio, in cui il Partito democratico (Ds) del presidente serbo rischia di sfigurare contro il Partito progressista serbo (Sns) dell’ex radicale Tomislav Nikolić.

I primi effetti dell'assist europeo hanno già cominciato a farsi sentire: mentre nei sondaggi di febbraio il Ds viaggiava sotto il 26 per cento dei consensi, contro il 33 per cento del Sns, nell'ultima rilevazione pubblicata il 5 marzo dall'agenzia Tanjug il distacco si è ridotto a meno di tre punti: 26,4 contro 29,3 per cento.

In quattro anni di mandato, Tadić ha assicurato la cattura degli ultimi tre latitanti dal Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia – Radovan Karadžić, Goran Hadžić e Ratko Mladić – e, sia pur con qualche sbandata, ha contenuto la reazione serba alla perdita del Kosovo entro i confini della diplomazia. L'anno scorso è arrivato ad accettare il dialogo sotto egida UE, che ha sostanzialmente messo fine all'embargo commerciale e diplomatico con cui Belgrado aveva punito la secessione di Pristina.

Gli italiani, ma non solo, erano convinti che meritasse qualcosa in cambio. “Dovremmo riconoscere il recente raddoppio degli sforzi e degli impegni della Serbia, e concedere lo status di candidato,” ha scritto qualche settimana fa il ministro degli Esteri, Giulio Terzi di Sant'Agata, insieme ai colleghi francese e austriaco, Alain Juppé e Michael Spindelegger, in una lettera al capo della diplomazia UE Catherine Ashton. Tadić ha ricambiato i complimenti. “Ringrazio l'Italia e il governo di Mario Monti per l'appoggio alla nostra candidatura europea” ha dichiarato venerdì a Belgrado, dove il presidente del Consiglio è  atteso l'8 marzo.

“Quello dell'Italia è stato un appoggio di importanza cruciale”, ha rincarato la dose il presidente serbo. Ma il rischio è che quello che hanno da offrire l'Italia e l'Europa faccia gola meno di prima. Nel 2008, a pochi giorni dal ballottaggio che vide Tadić prevalere sullo sfidante Tomislav Nikolić, l'elettorato fu conquistato dalle promesse europee di abolizione dei visti Schengen e dall'annuncio del ritorno della Fiat a Kragujevac, che fece da apripista alla sigla degli accordi commerciali UE-Serbia. Ma da allora l'investimento italiano ha faticato a partire – la presentazione del nuovo modello 500L è attesa in questi giorni a Ginevra – mentre le speranze di crescita economica hanno lasciato il posto alla crisi e alla disillusione nei confronti del miraggio europeo.

Il vicino Montenegro è candidato UE dal dicembre del 2010, ma non è ancora riuscito ad aprire i negoziati di ingresso, complice l'indisponibilità del presidente francese Nicolas Sarkozy a parlare di allargamento UE sotto campagna elettorale. Il dossier dovrebbe sbloccarsi a giugno, salvo sorprese. Per la Croazia, se verrà rispettata la data del 1° luglio 2013 per l'adesione, ci saranno voluti ben nove anni per passare da candidato a membro UE.

Un altro diplomatico a Bruxelles – appartenente a uno dei cinque paesi UE che, come Belgrado, rifiuta di riconoscere l'indipendenza di Pristina - offre un'altra verità scomoda. “Ormai si sta stabilendo la prassi secondo cui ogni passo verso l'Europa della Serbia debba essere accompagnato da uno parallelo del Kosovo”, sospira, ricordando come a dicembre sia stato lanciato il dialogo UE-Kosovo sulla liberalizzazione dei visti, mentre a febbraio la Commissione europea si è impegnata a produrre uno studio di fattibilità su un accordo di associazione tra Bruxelles e Pristina, malgrado i problemi giuridici legati allo status. Per i serbi, insomma, non solo la strada verso il benessere UE è ancora lunga: dovranno anche rassegnarsi a compierla insieme ai loro vicini kosovari.