Il ruolo dei media nella guerra degli anni novanta e le manipolazioni della storia messe in atto dalla politica ufficiale attraverso gli organi di informazione. Intervista a Dragan Petrovic, giornalista di lungo corso e corrispondente presso la sede Ansa di Belgrado

14/12/2006 -  Francesca Rolandi

Jugoslavia, 1990. Le prime elezioni libere tenutesi dopo il crollo del muro di Berlino portarono al potere nelle repubbliche più grandi della Federazione partiti nazionalisti, che della diversità rispetto ai propri vicini facevano una bandiera. Nella successiva escalation verso il conflitto svolsero un ruolo di massima importanza i media che, dalla carta stampata alle televisioni, soffiarono sul fuoco delle tensioni già presenti e fomentarono l'odio etnico sfruttando abilmente le paure popolari.
Per approfondire la questione abbiamo intervistato Dragan Petrović, già redattore per la radio-televisione serba e per Radio Belgrado, accreditandosi nel 1980 come commentatore per i Balcani e vincendo diversi premi di giornalismo. Nel 1992, dopo avere manifestato apertamente il proprio dissenso nei confronti della politica del regime, è stato licenziato e nello stesso anno è diventato corrispondente presso la sede Ansa di Belgrado.

Si è parlato del ruolo dei media in Serbia nel fomentare la psicosi nazionalista che avrebbe portato alla guerra civile. Qual è la sua opinione a riguardo?

Sì, è vero, fu molto importante il ruolo dei media. Posso farle un esempio. Mia madre, che era una donna che guardava la tv dello Stato RTS e leggeva «Politika», il quotidiano dello Stato, mi chiese: «Ma tu, come giornalista, puoi dirmi chi bombarda Sarajevo?». Lei era una donna normale, ma non capiva nulla di quello che leggeva. Io le ho detto: «Mamma, usiamo un po' di logica. È possibile che i musulmani di Sarajevo bombardino se stessi? C'è qualcosa di inspiegabile». «Chi bombarda allora Sarajevo?» «I serbi che stanno sulle colline». Lei disse: «Ma i telegiornali questo non lo dicono». Si può immaginare quante persone normali ascoltavano la tv dello Stato e leggevano i giornali, che in questo modo hanno soffiato sul fuoco dell'odio e della catena delle vendette. E sono sicuro che anche dall'altra parte c'erano le stesse manipolazioni mediatiche. A Sarajevo c'erano tre specie di media: media croati, media serbi, media bosniaci. Praticamente tutti i serbi hanno scelto i media serbi, i croati i media croati, i musulmani i media bosniaci e non c'erano serbi che ascoltavano media bosniaci o viceversa, neppure per sentire che cosa dicevano gli altri nella stessa situazione.

Anche se in linea teorica avrebbero potuto farlo...

Certo, ma non lo fecero. Quindi la responsabilità dei media è molto grossa perché loro sapevano che il popolo li avrebbe ascoltati e avrebbero dovuto informare in modo decente. Ma quando c'è la guerra, quando si sentono le trombe di guerra, la prima vittima è la verità. Non c'era spazio per una libera analisi perché i croati attaccavano con i cannoni e i serbi rispondevano con i cannoni, giornalisticamente parlando. Io ero alla tv di Stato, ma come esperto dei Balcani non vedevo bianco e nero, tutto era grigio e non vedevo buoni e cattivi. Non c'era pace per me, non volevano darmi spazio. E così come me hanno cacciato 1.000 persone da RTS.

In quali anni?

Negli anni dell'ascesa di Milošević, 1990-1991, prima che scoppiasse la guerra. Ci cacciarono perché non eravamo abbastanza patrioti, nazionalisti. In questo periodo quasi tutti i professionisti hanno lasciato ed è subentrata gente che non sapeva fare il giornalista. Tecnici, dattilografi, stenografi... Questi erano i giornalisti! In Serbia si era sempre dato poco peso ai giornalisti ma poi si è visto come è stato facile manipolare questa gente priva di conoscenze e di dignità professionale.

Non era facile manipolare me perché sapevo molto di più di quelli che mi volevano manipolare. Per esempio mi hanno chiesto: «Puoi scrivere un articolo sulla nascita del nazismo in Europa?». Ho risposto: «Sì, perché no? Però comincio da piazza della Repubblica, dal Partito radicale e dai suoi stand dove si vendono dischi con canzoni nazionaliste e altri gadget ispirati alla simbologia cetnica» ...questo è un esempio di neofascismo. «Grazie, grazie, cercheremo qualcun altro». Le responsabilità di stampa e televisioni furono molto forti. Ma a distanza di 10 anni la gente che aveva fatto queste brutte cose è riuscita piano piano a "ripulirsi", non lo so, i ricordi non durano molto per il nostro popolo e loro si sono riciclati. Alcuni di quelli che secondo me dovevano essere espulsi dall'ordine dei giornalisti hanno recuperato un ruolo in diversi media e ricominciano a scrivere.

Per tornare agli anni del regime, la situazione era questa: erano in pochi che cercavano di informare e questi erano trattati dalla maggioranza come traditori, come mercenari pagati dall'estero. Slavko Curuvija, un nostro collega, che possedeva già da prima del 1999 un quotidiano privato, «Dnevni Telegraf», è stato ucciso l'11 aprile 1999, ancora non si sa né come né perché ma qualche giorno prima sul suo giornale era stata pubblicata una lettera contro Milošević e Mira Marković in cui si criticava l'operato del governo. Certo, c'era anche qualche debole spazio per i media indipendenti, c'era B92.

B92 divenne molto importante per quelli che la pensavano in un altro modo, erano contro la guerra e volevano sentire una voce dalla normalità. Si raccontava in giro un aneddoto. C'era un amico che doveva comprare casa e andava a vedere gli appartamenti con una radiolina in mano. Quando gli hanno chiesto il perché, lui ha detto: «Non compro appartamenti dove non si sente B92!».

Il ruolo dell'emittente era molto importante, era praticamente l'unica voce nel buio. Il regime ha provato a chiuderla varie volte e quando c'è riuscito, è stata fondata B92 II. Poi è arrivata la rivoluzione del 5 ottobre 2000, quando ci sono state le manifestazioni che hanno portato al ribaltamento del regime e sono stati creati altri media indipendenti.

Ma in un certo senso le repressioni continuano ancora adesso a causa di questo incredibile nodo creato da Milošević tra politica, polizia, polizia segreta, servizi segreti e mafia, criminalità. Noi non riusciamo a sciogliere questo nodo perché ogni giorno scopriamo qualcosa di nuovo. Non ci sono prove ma secondo me la mafia controlla alcuni mezzi di comunicazione. Ci sono delle informazioni che possono provenire solo o dalla mafia o dai servizi segreti, altrimenti non si può comprendere perché vengano piazzate in determinati momenti. I nostri ordini di categoria dei giornalisti sono molto deboli e privi di esperienza, abbiamo da imparare dall'ordine dei giornalisti italiani, in particolare l'idea che ci debba essere un esame per regolare l'accesso alla professione e che non tutti possano improvvisarsi giornalisti.

Si può dire che con le manifestazioni del 1996-97 si siano aperti sui media i primi spazi per un'opposizione al regime, per esempio con la nascita di «Danas»?

Sì, «Danas», B92, ma il problema di questi media era la scarsa diffusione. Leggevamo quei giornali noi che manifestavamo, mentre per la tv dello Stato non esistevamo. E perciò la gente non sapeva, non era informata. Perché per loro la tv statale noi eravamo dei traditori, dei criminali, era normale che la polizia ci malmenasse, che ci mandasse in carcere...

Noi organizzavamo delle manifestazioni, avevamo dei media, Radio Pančevo, Radio Index e Danas a Belgrado, e alcune altre radio e altri giornali in Serbia ma erano poca cosa, una goccia nel mare. La responsabilità dei media pubblici risiede nel fatto che, in accordo con il regime, hanno manipolato una certa forma di nazionalismo e hanno presentato tutte le manifestazioni dell'opposizione come antipatriottismo. Noi non abbiamo ancora superato del tutto quest'esame. Tutta la nazione deve assimilare le sue responsabilità e capire quello che i serbi hanno commesso, sebbene il fatto che essi siano stati gli autori del più grande genocidio europeo dalla Seconda Guerra Mondiale è molto difficile da accettare. Per questo spero che i nuovi media lavorino in maniera intelligente, non solo i media serbi, ma tutti i media della zona perché le radici di ciò sono molto forti e ci vuole altrettanta forza per sradicarle.

D'altro canto l'immagine dei serbi che viene fornita all'esterno è terribilmente negativa. Tempo fa stavo guardando un film americano con Mel Gibson, ad un certo punto i due personaggi passavano in una zona devastata e uno diceva all'altro: «Sembra che i serbi siano passati di qua». Ma non c'entrava nulla e si trattava di tutt'altro contesto. Così, facendo circolare per il mondo immagini di questo tipo, i serbi vengono demonizzati e ci vogliono anni per superare questi stereotipi.

Quali sono stati gli effetti del bombardamento Nato sull'opposizione anti-Milošević filo-occidentale?

Disastrosi, come io tentavo di informare fin dall'inizio. Io ero corrispondente per Radio Popolare, ndr e dal primo momento cercai di spiegare che le prime vittime furono proprio le forze democratiche perché i bombardamenti diventavano la maggior arma nelle mani del regime che poteva dire: «Vedete cosa stanno facendo i vostri amici occidentali? Voi volete che la Serbia diventi parte dell'occidente? E ora l'occidente sta uccidendo i nostri bambini, sta bombardando i nostri ponti, sta distruggendo le nostre fabbriche».

Secondo me il bombardamento non ha aiutato a rovesciare Milošević. E anche l'isolamento e le sanzioni erano sbagliati perché il virus di "Slobo" si nutre dell'isolamento e può essere sconfitto solo da venti democratici.

Le bombe non erano contro "Slobo", erano contro di noi. C'è bisogno di un vento di democrazia e che l'Europa apra le sue porte. 2/3 dei serbi, compresi i giovani, non hanno mai varcato una frontiera, invece devono vedere come si vive in Italia, in Francia, in Europa per poter lottare e dire: «Qui vogliamo vivere come in tutta Europa». Loro non sanno. Con la storia dei visti non so quante notti fuori dall'ambasciata un giovane deve aspettare per poter andare in Europa e questa è una vergogna, è veramente una vergogna.

Per questo dico che le vittime dei bombardamenti, delle sanzioni e dell'isolamento siamo noi. Perché finché ci sono le guerre "Slobo" si sente molto bene e molto forte; quando c'è la pace iniziano i problemi perché la vita è cara, perché la gente non ha da mangiare, perché non c'è democrazia e lì nasce l'insoddisfazione. Lei può immaginare come Milošević sia potuto rimanere al potere solo in una situazione di chiusura in cui poteva fare il tiranno, non certo in un'Europa aperta spazzata da venti di democrazia. Alcuni miei colleghi sostengono che i bombardamenti hanno aiutato a rovesciare Milošević; io credo solo che abbiano spianato la strada ai nostri avversari.

Sui media serbi si è assistito ad un recupero molto spesso strumentale della memoria storica, a partire da lontano, dalla storia medievale, in particolare per quanto riguarda l'insistenza sulle tradizioni guerriere del Regno di Serbia. Come si può valutare questo fenomeno?

E' vero, è stato molto utilizzato questo tipo di manipolazioni nazionaliste. Sembra una cosa ridicola, ma c'è poco da scherzare. Milošević ha portato in giro le ossa del principe Lazar, che ha perso la battaglia di Kosovo Polje ed è in seguito diventato un mito. Il mito di questa battaglia è stato molto importante per noi perché è stato utilizzato dalla Chiesa nel suo sforzo di proteggere l'identità serba in cinque secoli di supremazia turca, per sopravvivere e mantenere la sua ortodossia.

E oltre a questo, altri temi sono stati strumentalizzati, come l'affermazione, spesso ripetuta da fonti nazionaliste, che nel medioevo i serbi mangiavano usando posate d'oro mentre nel resto d'Europa si mangiava con le mani. Queste storie aizzavano il patriottismo e il nazionalismo in modo completamente irresponsabile. Che cosa hanno dato i serbi alla cultura europea in confronto all'antica Grecia, in confronto all'Impero romano? Dove sono i serbi? Io non li vedo! Va bene, ci sono i monasteri, ci sono le icone, ma ci vuole un po' di autocritica. Certo, noi abbiamo dato qualcosa all'Europa, ma dobbiamo essere coscienti di quanto siamo piccoli, di quanto siamo deboli. Invece queste piccole manipolazioni sono collegate alla manipolazione centrale del nazionalismo allo scopo di controllare tutto.

Qual è il grado di strumentalizzazione della memoria storica ora in Serbia? O meglio dove arriva la strumentalizzazione e dove invece c'è un'autentica volontà di recupero dell'identità nazionale?

Non so rispondere con esattezza a questa domanda. Io ho l'impressione che i giovani non vogliano più pensare né alla storia, né alle sue manipolazioni. I giovani vogliono vivere, vogliono lavorare, vogliono avere il loro appartamento, la loro famiglia. Vogliono fare una vita normale, come in tutta Europa. Ma come possono vivere con 200 euro al mese? Io spero che questa gente dica basta: basta con la storia, basta con gli ustaša, basta con i ćetnici, basta con la Grande Serbia. Non conosco bene la situazione, ma ho un figlio e vedo che non vuole più sentire parlare di tutto questo, è arrabbiatissimo.

La memoria storica assume un ruolo molto negativo in questo contesto?

Certo, è stata utilizzata per le manipolazioni da Milošević e anche l'attuale regime di Koštunica la usa sebbene in maniera più sofisticata.

In che senso?

Questa collaborazione con L'Aia non è completa, si parla ancora di patriottismo, di onore: come è possibile che in Serbia non riusciamo a trovare un uomo che non abbia a che fare con tutto ciò? Con questo non si mangia! Il nostro paese è stato punito per Koštunica, per Mladić e via dicendo. La stessa cosa accade con il Kosovo. Si strumentalizza la gente che soffre, i profughi serbi, non si lavora per proteggerli e assicurare una convivenza con gli albanesi kosovari. La classe politica al potere agisce in direzione opposta al solo scopo di proteggere se stessa. La Serbia invece deve entrare in Europa: questo è il treno che non può perdere. Deve avere degli aiuti dall'Europa e dopo deve iniziare a produrre da sé e a vivere del suo lavoro. Forse sono troppo ottimista, ma mi sembra di vedere che la nuova generazione è vaccinata contro il virus del nazionalismo. E allora sparirà un terreno fertile per le manipolazioni dei politici.