Il gruppo di ciclisti a Srebrenica (foto Donne in Nero)

Il gruppo di ciclisti a Srebrenica (foto Donne in Nero)

L’11 luglio a Srebrenica c’erano anche nove persone venute in bicicletta da Belgrado per esprimere solidarietà con le vittime del genocidio. Due partecipanti all’iniziativa, un serbo e un italiano, raccontano a Osservatorio il senso di questo viaggio

24/07/2013 -  Federico Sicurella Belgrado

Le fatiche delle montagne sono alle nostre spalle, davanti a noi le fatiche delle pianure” scrisse Bertolt Brecht al suo ritorno, dopo un sofferto esilio, nell’Europa ridotta in macerie dalla Seconda guerra mondiale. Le fatiche delle pianure sono quelle del post-conflitto, della transizione, della riconciliazione. È la fatica, ad esempio, della società serba a confrontarsi con le proprie responsabilità, oltre che con quelle delle sue élite, nel contesto dei gravi crimini che hanno segnato le guerre di dissoluzione della Jugoslavia.

Ed è anche la fatica di nove persone, otto serbi e un italiano, che hanno scelto di affrontare un percorso che è pianeggiante solo sulla carta. Tre giorni di pedalata per coprire la distanza, anche simbolica, che separa Belgrado da Srebrenica. Un viaggio lungo e impegnativo per consegnare questo messaggio: “Vogliamo mostrare la nostra solidarietà con le vittime del genocidio di Srebrenica e con le loro famiglie, e segnalare all’opinione pubblica serba la necessità di confrontarsi con i crimini commessi nei territori dell’ex Jugoslavia in nome dei cittadini e delle cittadine della Serbia”.

L’iniziativa è stata organizzata da un gruppo informale di attivisti in collaborazione con l’associazione SOS Vlasotince, con il supporto delle Donne in Nero e di Rekonstrukcija ženski fond. Duecentoventi chilometri da percorrere, una sosta a Šabac, una a Loznica, e poi dritti fino al memoriale di Potočari. Sempre accompagnati da un’ingombrante scorta di polizia - due auto e una camionetta, quindici agenti in tutto - per ‘assicurare l’incolumità’ degli intrepidi ciclisti. Tra i partecipanti c’erano anche Nicola e Đorđe. Nicola è un insegnante di italiano, e prima di trasferirsi a Belgrado ha lavorato a Niš e Novi Sad. Đorđe è un grafico, e collabora con le Donne in Nero da vent’anni. Osservatorio li ha incontrati.

Quali ragioni vi hanno spinto a partire?

Nicola: Se uno frequenta i Balcani e se ne appassiona, il nome di Srebrenica lo incontra spesso. Ti accorgi che è una macchia nera, la peggiore di tutta la storia, e così nasce la voglia di capire che cosa sia successo veramente. Quindi ero curioso di andare fisicamente in quel luogo. Il discorso politico, invece, mi interessa meno.

Đorđe: Una delle ragioni è che collaborando con le Donne in Nero mi sono accorto di quanto la presenza di qualcuno venuto dalla Serbia sia importante per i bosniaci. Per me questo viaggio è stato un’occasione per collegare simbolicamente Belgrado, dove le guerre dell’ex Jugoslavia sono state concepite, e Srebrenica, dove quelle guerre hanno raggiunto il loro culmine estremo. È importante che dalla Serbia si vada lì e si dica: questi crimini non sono stati commessi in mio nome. Bisogna dirlo chiaramente, “non in mio nome”, perché il silenzio equivale a una tacita approvazione.

Le altre biciclettate commemorative, partite dalla Bosnia Erzegovina e dalla Croazia, hanno raccolto centinaia di partecipanti. Dalla Serbia siete partiti in nove. Che spiegazioni vi date?

Nicola: Avendoci fornito una scorta di quindici poliziotti probabilmente era previsto che fossimo un centinaio (ride). Ne ho parlato con gli altri e siamo tutti d’accordo: nove persone sono poche. Probabilmente hanno inciso sia il fatto che l’iniziativa viene organizzata per la prima volta, sia la scarsissima copertura da parte dei media serbi. Quando siamo arrivati al memoriale di Potočari ci si è affiancata una comitiva di ciclisti provenienti da Bihać, erano centinaia. Ho sentito gli altri ragazzi dire che quando finalmente ci sarà un’affluenza del genere anche dalla Serbia... forse un senso ci sarà.

Đorđe: Molta gente, anche miei conoscenti, non hanno colto il senso di andare a Srebrenica, né hanno capito quanto sia importante che sempre più persone vi si rechino proprio dalla Serbia. Ma credo sia necessario costruire delle buone relazioni con la Bosnia. Inoltre, la maggior parte dei cittadini serbi non crede che a Srebrenica sia stato commesso un crimine, e non ne vogliono sentir parlare. È più facile per loro vedere i serbi come vittime, negare le atrocità come prodotto di una manipolazione della storia, e proteggere in questo modo i serbo-bosniaci. Per queste ragioni non c’era da aspettarsi una grande adesione. Sogno il giorno in cui ci saranno tanti partecipanti, perché forse allora la gente comincerà a chiedersi che cosa sia davvero successo a Srebrenica. Per il momento, ho l’impressione che ci abbiano percepito come una specie di setta, peraltro scortata dalla polizia.

Come è andato il viaggio? E come siete stati accolti al vostro arrivo a Potočari, sede del memoriale, la sera prima della cerimonia?

Nicola: Il primo giorno è stato molto difficile, dovevo pensare ad arrivare alla fine e quindi non ho avuto momenti di raccoglimento. Solo il secondo giorno ho pensato un po’ di più a dove stavo veramente andando. Gli altri partecipanti erano contenti di avermi con loro, presto Đorđe e io siamo diventati la “coppia Coppi-Bartali”... Sono pochi i chilometri che separano Bratunac da Potočari, ma è come passare dal giorno alla notte. A Bratunac ci hanno insultato e deriso, mentre a Potočari ci hanno accolto applausi, abbracci e tante telecamere. È stato davvero molto intenso. Poco prima di arrivare Đorđe mi ha mostrato il braccio: aveva i brividi dall’emozione. Tuttavia, devo ammettere che all’arrivo non ho percepito un clima di lutto. La sera del 10 luglio sembrava piuttosto una sagra di paese: la strada principale era piena di agnelli sul girarrosto, e c’erano tanti motociclisti che passavano rombando...

Đorđe: Il viaggio è stato interessante, e sorprendentemente leggero, almeno per me. Non ho sentito la fatica fisica neanche per un momento. A Šabac e Loznica, insieme con le Donne in Nero, siamo rimasti in piedi per un’ora con uno striscione su cui c’era scritto “Per non dimenticare il genocidio di Srebrenica”. La disapprovazione nei confronti della nostra azione era evidente. Nessun passante ha manifestato solidarietà, mentre in tanti hanno espresso disprezzo e rabbia, invocando le vittime serbe di Bratunac e dintorni. Il mito del vittimismo serbo è una costante.

Che cosa vi ha colpito in particolare delle commemorazioni ufficiali dell’11 luglio?

Responsabilità e solidarietà (foto Nicola)

Nicola: Sono rimasto impressionato da quanto le Donne in Nero di Belgrado siano rispettate in Bosnia. Noi ciclisti siamo entrati nel memoriale con loro, e ci è stato riservato un posto di riguardo accanto alla stele di marmo che riporta i nomi delle vittime del genocidio. Eravamo tutti in fila, e tenevamo uno striscione con scritto “Odgovornost, solidarnost” (responsabilità, solidarietà). Alla fine della cerimonia, sotto una pioggia battente, un coro di tre ragazze vestite di nero ha cantato tre canzoni popolari dedicate a Srebrenica. È stato un momento bellissimo.

Đorđe: Quando il coro delle ragazze ha intonato la canzone “L’inferno di Srebrenica” (composta dal mio amato Đelo Jusić) è stato un momento particolarmente difficile per me. Ma tre anni fa, quando presi parte per la prima volta alle commemorazioni, lo fu ancora di più. Questa volta, per lo meno, sapevo che sarebbe accaduto. È simbolico che il coro sia solo femminile: gli uomini non ci sono, sono nelle tombe. Vorrei aggiungere un’altra considerazione: ho l’impressione che la commemorazione abbia assunto tratti sempre più religiosi, il che compromette in parte il senso dell’intero evento. 

Alle comunità bosniaca e internazionale il vostro messaggio è arrivato forte e chiaro. E alla società serba? Avete avuto momenti di confronto durante le tappe in Serbia?

Nicola: Questo è un punto critico. Abbiamo indossato la maglietta dell’iniziativa soltanto all’arrivo, mentre per tutto il resto del viaggio eravamo praticamente irriconoscibili. Addirittura si è preferito non svelare il senso del nostro viaggio a chi, nelle città e nei villaggi, ci avvicinava incuriosito dalla nostra presenza. L’ho detto anche agli altri ragazzi: avremmo dovuto essere riconoscibili. Si deve capire che si tratta di cittadini serbi che vanno a Srebrenica per esprimere la propria solidarietà, altrimenti perdiamo un’occasione preziosa per trasmettere il nostro messaggio.

Đorđe: Il fatto che non avessimo segni di riconoscimento durante il viaggio, e che quindi i passanti non potessero capire facilmente chi fossimo e perché ci seguisse tanta polizia, costituisce senz’altro un problema in termini di comunicazione. Se fossimo stati più riconoscibili, probabilmente avremmo sentito insulti e offese lungo tutto il percorso, e non solo a Bratunac, e il viaggio sarebbe stato sicuramente più “interessante”...

Una delle idee per l’anno prossimo è di passare per altri luoghi significativi fuori dalla Serbia (ad esempio Vukovar) per ‘raccogliere’ altri partecipanti. Ma non è forse più urgente coltivare un rapporto con le comunità serbe che s’incontrano lungo il percorso?

Nicola: Hai ragione, e penso non tanto a città come Šabac, ma proprio ai villaggi, dove la gente si fa influenzare da quello che sente, da quello che trasmette la TV quando si torna a casa dopo aver lavorato nei campi. Sono persone che raramente si confrontano su questi temi.

Đorđe: Penso che l’anno prossimo sarà importante garantire la riconoscibilità. Magari potremmo organizzare anche degli incontri pubblici nei luoghi che attraverseremo. Ma credo che questo non farebbe altro che esporre i partecipanti a una dose ancora maggiore di insulti, e avremmo un’ulteriore conferma di come gran parte dell’opinione pubblica serba percepisce i fatti di Srebrenica. Questo è l’inizio, e non è facile.

 

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