Storia a fumetti di Aleksandar Zograf dedicata alle lettere di Hilda Dajč pubblicata dalla rivista Popoli

Storia a fumetti di Aleksandar Zograf dedicata alle lettere di Hilda Dajč pubblicata dalla rivista Popoli

Nata nel 1922 in una famiglia ebrea aschenazita, Hilda Dajč, trovò la morte nel lager di Zemun, luogo cruciale nella perpetuazione dell’Olocausto nella Serbia occupata. Lì scrisse alcune lettere che sono state conservate e tradotte

27/01/2017 -  Božidar Stanišić

Il lager di Zemun (in tedesco Semlin Judenlager), luogo centrale nella perpetuazione dell’Olocausto nella Serbia occupata, si trovava sulla riva sinistra del fiume Sava, di fronte al ponte Savski Most, nel luogo dove nel 1937 era stata inaugurata la Fiera di Belgrado. Dopo il bombardamento tedesco dell’aprile 1941, la località si trovò inclusa nello Stato Indipendente di Croazia, che su richiesta dei tedeschi permise l’istituzione del lager gestito dalle SS. Il lager fu attivo dall’ottobre 1941 al luglio 1944.

Nella fase iniziale della realizzazione della zona Judenfrei questo campo fu destinato solo agli ebrei serbi, poi anche ai partigiani e ad altri aderenti alla resistenza. Secondo lo storico Christopher Browning (Fateful Months: Essays on the Emergence of the Final Solution, London, 1985) il Semlin Judenlager rappresenta la prima concezione del più vasto piano di sterminio degli ebrei europei. Dei 17.800 ebrei di Serbia ne furono uccisi 14.800 (83,1%). Circa 6.320 (42,5%) persero la vita nel lager di Zemun o subito dopo esserne stati portati via. Si calcola che in totale le persone che vennero uccise nel lager di Zemun, quindi non solo appartenenti alla comunità ebraica, furono circa 32.000.

Veicolo per annientare i pidocchi”

All’inizio del 1942 le autorità naziste di Belgrado trovarono la soluzione per il “problema ebraico”: un camion di marca Saurer, adattato in modo tale da convogliare i gas di scappamento del motore nel cassone del veicolo, ermeticamente chiuso. Un tragitto di un quarto d’ora nella cosiddetta dušegupka (“soffocatore”) era sufficiente per uccidere cento persone alla volta. Nei documenti nazisti il camion è chiamato “veicolo per annientare i pidocchi” (Entlausungswagen).

Dopo il viaggio della morte attraverso Belgrado, i corpi delle vittime venivano sepolti nelle fosse comuni di Jajinci, villaggio alle pendici del monte Avala, a sud della città. Sul posto, dei prigionieri serbi svuotavano il camion e gettavano i cadaveri in fosse scavate in precedenza. Gli autisti del camion erano le SS Goetz e Meyer, che portarono a termine una settantina di viaggi della morte. Lo scrittore David Albahari ha scritto un romanzo su questi autisti della dušegupka (Goetz e Meyer, Einaudi, Torino 2006, trad. Alice Parmeggiani).

Le quattro lettere di un “pidocchio” (1)

Uno dei “pidocchi” si chiamava Hilda Dajč. Nata nel 1922, in una ricca famiglia aschenazita, prima della guerra si era iscritta agli studi di architettura all’Università di Belgrado. Nella Serbia occupata furono chiuse tutte le università, così Hilda fece volontariato come infermiera all’Ospedale ebreo di Belgrado. Durante i primi mesi dell’occupazione il padre di Hilda, Emil Dajč, ricevette l’incarico di vicepresidente del Vertretung der Judischen Germainchaft, il corpo rappresentativo della Comunità ebraica di Belgrado. Questa organizzazione, fondata dai nazisti, si fece carico delle attività delle organizzazioni umanitarie ebraiche e delle altre istituzioni alle quali l’occupatore nel 1941 aveva vietato di lavorare.

Dato che il padre ricopriva un incarico importante, nella fase iniziale dell’occupazione la famiglia di Hilda fu risparmiata dalle numerose e severe disposizioni e leggi antisemite.

Nel dicembre 1941, dopo che la buona parte della popolazione maschile ebraica della Serbia era stata uccisa per rappresaglia della Wehrmacht in risposta alle rivolte e ai sabotaggi, fu ordinato anche alle donne, bambini e agli anziani della comunità ebraica di Belgrado di preparare gli effetti personali e di presentarsi all’ufficio principale del Judenreferat, il reparto della Polizia speciale in via George Washington numero 23. Da lì furono condotti nel Padiglione n° 3 del neo fondato Judenlager Semlin.

Nonostante le famiglie di chi faceva parte dell’amministrazione del Corpo rappresentativo ebraico non fossero costrette ad ubbidire all’ordine, Hilda, al contrario del desiderio della sua famiglia, si presentò volontaria per andare nel campo e, svolgendo il compito di infermiera, restare fra le “persone che necessitano aiuto”.

La data di morte di Hilda Dajč è sconosciuta, ma sicuramente fu uccisa con i camion a gas, insieme a oltre 6000 donne, bambini e vecchi. Dalla fine del marzo 1942 fino al 10 maggio 1942, i prigionieri del lager, in gruppi di 50-100 persone, passarono per l’ultima volta per le strade di Belgrado prima di venire portati fino alle fosse comuni.

Hilda riuscì a far uscire quattro lettere dal campo della morte (2). Ricorderei volentieri queste lettere ai cosiddetti testimoni dell’attuale e vergognoso processo di riabilitazione, davanti all’Alta corte di Belgrado, di Milan Nedić, presidente del Governo collaborazionista filonazista della Serbia durante la Seconda guerra mondiale. Ma, molto volentieri raccomando queste lettere a tutti i giovani in Serbia e in altri paesi della regione, che già da un quarto di secolo sono esposti alle varie pressioni dei sostenitori della revisione della Storia.

Heine nel “formicaio dei miserabili”

Le lettere di Hilda Dajč sono anche un raro documento sulle condizioni nel lager di Zemun, nel periodo fra il dicembre 1941 e il maggio 1942. Il destinatario della prima lettera, scritta il 7 dicembre 1941, era Nada Novak, amica di Hilda al liceo. Nella lettera Hilda nomina il tempo che ha trascorso al liceo e “la compagnia” come “il periodo più piacevole” della sua vita.

La seconda lettera è datata 9 dicembre e contiene le prime impressioni della vita nel lager. È indirizzata a Mirjana Petrović, un’altra amica di scuola, che aveva scritto a Hilda il giorno prima. Le lettere furono contrabbandate dal personale ospedaliero ebraico che visitava regolarmente il lager. Si crede che la terza lettera mandata a Nada, sia stata scritta circa il 13 dicembre. In essa Hilda rivela all’amica che presto la raggiungeranno nel lager i membri della sua famiglia. Tutti gli ebrei erano stati già internati a Zemun, così i nazisti ovviamente non avevano più alcun vantaggio da trarre dal Corpo rappresentativo della comunità ebraica e dai suoi dirigenti.

Nel periodo fra la terza e la quarta lettera, Mirjana si incontrò alcune volte con Hilda, una volta insieme anche all'altra amica,  Nada Novak. Durante il rigido inverno del 1941/1942, il fiume Sava era ghiacciato. Ogni giorno si potevano vedere i piccoli gruppi di prigionieri che attraversavano a piedi il ghiaccio sotto la sorveglianza tedesca, mentre tiravano le barelle con i morti o i malati gravi. Sulla costa, di fronte al lager, li aspettava il personale dell’Ospedale ebraico, che caricava le vittime dentro i camion e le portava all’ospedale o al Cimitero ebraico. In un’occasione Hilda riuscì a fissare l’appuntamento con Mirjana in un bar abbandonato per gli operai del porto, dove ai prigionieri che trasportavano i morti e i malati era permesso un breve riposo. Nella locanda Mirjana e Hilda si abbracciarono e parlarono brevemente. Si incontrarono altre due volte nello stesso posto ma durante l’ultimo incontro la guardia non permise loro di scambiarsi nemmeno una parola. In quell’occasione Hilda apparve a Mirjana più magra di prima, era pallida, depressa e disperata. Questo si evince anche dall’ultima lettera di Hilda dal lager, scritta probabilmente all’inizio del febbraio del 1942.

Tutte le lettere di Hilda sono state tradotte in italiano (3), accompagnate dall’ottimo saggio di Bruna Bianchi. Che questo modesto ricordo di una ragazza che nel “formicaio dei miserabili” leggeva Heine, Goethe, Montaigne… venga concluso con la sua ultima lettera scritta nel lager, “l’incarnazione di tutti i mali”.

La quarta lettera di Hilda Dajč

 

Mia Cara,

non potevo immaginare che il nostro incontro, benché atteso, mi avrebbe lasciato in una tale tempesta di emozioni, e avrebbe aggiunto altra inquietudine alla confusione della mia anima, che non riesce in alcun modo a calmarsi.

È la fine del filosofare davanti al filo spinato, è la realtà in tutta la sua interezza, che voi fuori non potete nemmeno lontanamente immaginare, perché urlereste dal dolore. Questa realtà è insuperabile, la nostra è una miseria immensa; tutte le frasi sulla forza dello spirito cadono davanti alle lacrime per la fame e il freddo, tutte le speranze in una prossima uscita si perdono davanti alla prospettiva ripetitiva di un sopravvivere passivo che non assomiglia in nessun modo alla vita.

Non è ironia della vita, è la sua tragedia più profonda.

Possiamo resistere non perché siamo forti, ma unicamente perché non siamo consapevoli in ogni momento della nostra immensa miseria in tutti gli aspetti della nostra vita. Siamo qui ormai da nove settimane, nove settimane e sono ancora in grado, anche se poco, di scrivere e di pensare. Ogni sera, senza eccezione, leggo le tue lettere e quelle di Nada, e questo è l’unico momento in cui sono un’altra, non sono solo un’internata. La prigionia è una condizione dorata in confronto alla situazione in cui mi trovo, noi non conosciamo né il motivo né la durata della nostra condanna.

Ogni cosa nel mondo, anche la più miserabile esistenza fuori del  lager è stupenda; esso è l’incarnazione di tutti i mali. Noi tutti diventiamo cattivi perché siamo affamati, diventiamo cinici e ci contiamo i bocconi l’un l’altro, tutti sono disperati, e tuttavia nessuno si uccide perché tutti quanti siamo una massa di bestie che disprezzo.

Provo odio per tutti noi perché siamo tutti ugualmente dei vinti. Siamo così vicini all’umanità, ma così distanti da tutti. Non abbiamo alcun legame con nessuno, la vita di ogni singolo individuo fuori prosegue come se a mezzo chilometro non esistesse il mattatoio di seimila innocenti. Tutti siamo uguali nella codardia, sia noi che voi. Basta.

Eppure io non sono un’antieroina come tu potresti considerarmi leggendo tutto ciò. Sopporto quello che mi accade abbastanza facilmente, senza dolore. Però questo ambiente..., questo è quello che mi innervosisce. Le persone mi urtano i nervi. Neppure la fame che ti fa piangere, neppure il freddo che ti ghiaccia l’acqua nel bicchiere e il sangue nelle vene, neppure la puzza delle latrine, neppure il vento gelido di levante, nulla è altrettanto ripugnante del groviglio umano che merita la tua compassione e che non puoi aiutare, ma solo metterti al di sopra di esso e disprezzare. Perché questa gente parla sempre solo di ciò che offende i loro intestini o di quello che resta degli organi di un rispettabile cadavere? A proposito, qualche giorno fa abbiamo sistemato alcuni cadaveri nel padiglione turco, tutti sul davanti; erano 27. Nulla ora mi fa ribrezzo, neppure il mio sporco lavoro.

Si potrebbe fare qualsiasi cosa se si sapesse quello che non si può venire a sapere, quando si aprirà la porta della clemenza. Che cosa hanno intenzione di fare di noi? Siamo sempre in stato di tensione. Ci fucileranno? Ci faranno saltare in aria? Ci porteranno in Polonia? Ecc.

È tutto secondario! Bisogna solo superare il presente, e non è per niente bello, proprio per niente.

Ora sono le due e mezza, sono di turno in infermeria per tutta la notte – ogni quattro notti – nel padiglione c’è un coro di tossi e si sente il rumore della pioggia sul tetto. Qui in ambulatorio la stufa manda esalazioni micidiali, ma chi non lavora, non mangia. Questo è il mio giorno più emozionante nel lager. Desiderare tanto qualcosa, che qualcosa si avveri, è più che una fortuna.

Forse riusciremo un giorno a uscire vivi da questo posto, in una vita più felice, perché lo desideriamo con tanto ardore, ma già con meno forza. Oh mia buona Mirjana, noi non siamo schiavi, non siamo prigionieri, siamo molto meno di questo, non siamo nemmeno come i lebbrosi, siamo un’orda affamata e disprezzata, e quando, nonostante tutto, si scorge un po’ di vita – e quella sei Tu – si percepiscono talmente tante energie vitali che scorrono. Sì, questo solamente in eterno. Staccarsi da questa vita è così doloroso e amaro che neppure un mare di lacrime versate sarebbe un paragone adeguato. Quanto mi è difficile! Piango e tutti ridono: “Eppure tu, che ti impegni tanto, come un uomo, ti metti a piangere come una ragazzina sentimentale!”.

Ma cosa devo fare, quando è tanto terribile per la mia anima? Questo è il ritornello che ripeto tutta la notte. So che non ci sono prospettive di uscire presto, ci siete tu e Nada, le uniche cose che mi legano a Belgrado, città che per un’inspiegabile contraddizione odio e allo stesso tempo amo terribilmente.

Tu non sai, come non sapevo io, cosa significhi essere qui. Ti auguro di non scoprirlo mai. Già da bambina avevo paura che mi sotterrassero viva. E questa in cui mi trovo è una specie di morte apparente. Dopo ci sarà la resurrezione? Non ho mai pensato a voi due come ora. Vi parlo e desidero vedervi sempre perché voi siete il mio “paradiso perduto”. Siete le uniche persone che esistete per me, quelle che sono qui dentro le disprezzo, quelle che sono fuori le odio. Molte volte, quando penso di non potercela fare, mi ricordo di voi, per voi vale la pena di vivere. Il pensiero di voi e il desiderio di incontrarvi ancora mi mantiene in vita. Non ero consapevole della grandezza della nostra amicizia.

Non preoccupatevi in alcun modo per me, il mio corpo e la mia anima hanno intrapreso un percorso più che giusto, e sono serena e allegra, tranne in alcuni giorni, come oggi, in cui riapro le ferite.

Devo resistere – non lo dico con troppa convinzione – eppure devo.

Vi bacio, la vostra detenuta

 

Note:

1. Questo e il successivo capitolo del testo su Hilda Dajč, è stato scritto secondo i materiali del sito web del progetto di ricerca (www.holokaust.rs) finanziato dall’Accademia britannica (British Academy).

2. Le prime tre lettere di Hilda Dajč sono di proprietà del Museo ebraico storico di Belgrado, mentre la quarta lettera si trova nell’Archivio storico di Belgrado.

3. Lettere dal campo di Sajmište, dicembre 1941- febbraio 1942, a cura di Bruna Bianchi, DEP n.2/ 2005.