Belgrado, la Fortezza di Kalemegdan  (© Samot/Shutterstock)

Belgrado, la Fortezza di Kalemegdan  (© Samot/Shutterstock)

Prosegue il resoconto del viaggio lungo il Danubio organizzato da Confluenze e ViaggieMiraggi. In questa puntata: l'arrivo a Belgrado, la sua storia antica e presente narrata da accademici e scrittori incontrati nell'incantevole città bianca

07/11/2019 -  Giovanni Vale

Raccontare Belgrado. In poche ore, passeggiando tra le vie del centro, spiegare gli anni Novanta e la Nato e, prima ancora, la lunga occupazione ottomana e la nascita dell’identità serba, per poi tornare al presente, al fervore di una città dinamica, alla sua gioventù creativa, alle feste e alla proteste. La sfida, per chiunque si appresti a guidare un gruppo di visitatori nella capitale serba, è grande e tante sono le trappole e la sensibilità necessaria ad evitarle.

Ieri, abbiamo navigato per ore lungo il Danubio, lasciandoci alle spalle l’affascinante storia del confine imperiale, di Novi Sad e delle sue minoranze e delle fortezze costruite sul grande fiume. Accompagnati da una brezza leggera che ci fatto dimenticare il mese di agosto, siamo scivolati dolcemente verso sud, a bordo del nostro Kovin, quel battello quasi centenario, star cinematografica e dal 2005 eletto patrimonio culturale della Serbia. Siamo attraccati proprio a Belgrado, dopo un’ultima visita a Zemun, l’avamposto asburgico più a sud.

Quando ci svegliamo, l’Austria-Ungheria è ormai un lontano ricordo. Le macchine sfrecciano lungo i boulevards della capitale serba, la città inizia la sua giornata e mette in movimento quasi un milione e mezzo di persone. Belgrado è la Capitale della regione, qui si viene a far festa anche da Zagabria o da Lubiana e qui finisce per transitare gran parte della gioventù della Serbia, per studio o per lavoro o, come spesso succede di questi tempi, in cerca di un’ultima opportunità prima di partire all’estero.

«È difficile dire dove e da che parte sia Belgrado, afferrare l'identità proteiforme e la straordinaria vitalità di questa incredibile città che è stata tante volte distrutta e che tante volte è risorta, cancellando le tracce del suo passato», scrive Claudio Magris nel suo Danubio. Provare ad afferrare l’identità della città bianca sarà il nostro compito nelle prossime ore. Partiremo da Kalemegdan, la fortezza che sovrasta la confluenza tra la Sava e il Danubio, ma anche il parco più grande della città, dove tra torri e mura, passeggiano gli innamorati.

Belgrado ottomana

La storia ottomana della Serbia inizia molto presto. Il 15 giugno 1389, il giorno di San Vito, i regni di Serbia e Bosnia affrontano le truppe del sultano Murad I. È la celebre battaglia di Kosovo Polje, o della Piana dei Merli. Il principe Lazar perde e per la Serbia l’evento segna l’inizio della fine della propria indipendenza. Il regno balcanico diventa prima uno stato vassallo dell’Impero ottomano poi, nel 1439, cade la città di Smederevo e nel 1521 è la volta di Belgrado. Inizia un dominio di oltre tre secoli che diventa un elemento fondamentale dell’identità serba.

Un’identità che si è costruita soprattutto in contrapposizione a quell’occupazione. Mentre passeggiamo per Belgrado, notiamo infatti che le tracce fisiche del periodo ottomano sono state quasi tutte cancellate con la liberazione, nella seconda metà dell’Ottocento. Kalemegdan, la fortezza ottomana per eccellenza, è abbandonata dai militari nella primavera del 1867 e anche gran parte della popolazione musulmana lascia la città. Sono distrutte le moschee (ce n’erano quasi 300) e oggi ne rimane una sola, risalente al XVI secolo e situata nel quartiere di Dorćol.

Resta tuttavia - inevitabilmente - il lascito culturale di quel periodo, impossibile da cancellare. Le tantissime parole turche che si sono fatte strada nella lingua serba ne sono la prova più tangibile della lunga parentesi ottomana della Serbia. Ma ci sono anche eredità più sottili e che ci riguardano da vicino. Perché le chiese suonano le campane a mezzogiorno? Senza svelarvi tutto, vi basti sapere che la risposta va cercata nell’assedio di Belgrado del 1456, quando le truppe ottomane furono respinte sotto le mura cittadine…

La memoria divisa degli anni Novanta

I palazzi del potere di Belgrado raccontano una storia che va oltre i confini della Serbia. Sono infatti gli edifici della prima Jugoslavia e delle Federazione socialista che ci guidano attraverso il Novecento. Nel gruppo, c’è chi mette piede a Belgrado per la prima volta e allora le domande - legittime - interrogano i tentativi di convivenza falliti. «Ma come, serbi e croati parlano la stessa lingua?», «Ma allora perché tante guerre?» Il senso del viaggio è proprio questo, provare a dare delle risposte, mentre si continua la scoperta.

Milovan Pisarri, storico italiano da anni residente a Belgrado, si fa carico di tutti questi quesiti e traccia un ritratto fedele della Serbia contemporanea. Pisarri ha un’associazione che ha proprio questo scopo, fare «storia pubblica» e sopperire alle mancanze dello Stato. «Purtroppo, gli anni Novanta in Serbia sono raccontati in chiave nazionalista: i serbi sono presentati unicamente come delle vittime. È inculcato il nazionalismo, l’anti-jugoslavismo, l’anti-comunismo… si racconta una storia della Jugoslavia che spesso cozza con l’esperienza dei genitori», spiega Pisarri.

Parliamo della Serbia parlamentare sorta dopo la caduta di Milošević, delle privatizzazioni che l’hanno accompagnata e arriviamo al presente, alla mancanza di cambiamento negli apparati di governo, alla nascita di un «partito-Stato» che controlla tutto e alla persistente questione del Kosovo. «Perché tante guerre?», è una domanda che ritorna e la cui risposta non può che essere complicata. «Nei Balcani, i nazionalismi arrivano nel XIX secolo, in una regione dove il principio nazionale fa a botte con la geografia, l’eterogeneità», prosegue lo storico.

«Ma come si possono superare oggi questi nazionalismi?», chiede allora qualcuno. C’è voglia di andare avanti, quasi di risolvere i problemi qui e ora. Si parla allora di educazione alla storia, di memoria condivisa. Pisarri cita l’esempio del campo di Jasenovac in Croazia e del suo “gemello” oltre la Sava, nella Republika Srpska, dove la retorica è ancora lontana dalla verità storica. È anche l’occasione per parlare di occupazione italiana dei Balcani, del “nostro” rimosso collettivo. L’impegno civico, personale, ci traghetta a sera, ad un incontro con un intellettuale che ha vissuto tutte le recenti trasformazioni della Serbia.

«Belgrado non è mai cambiata»

Dušan Veličković si fuma in fretta un’ultima sigaretta prima prima di varcare la porta dell’Istituto italiano di cultura. A 72 anni, questo scritto belgradese - autore in Italia di «Serbia hardcore», «Balkan pin-up» o ancora «Generazione Serbia» - ha molto da raccontare sulla sua città. «Non è mai cambiata, è sempre bella e brutta allo stesso tempo», dice a mo’ di introduzione. «Dopo i bombardamenti, Belgrado non è cambiata in meglio, ma rimane interessante, vivace, con molta creatività in giro», racconta Veličković.

Il suo ultimo «Generazione Serbia», uscito in Italia nel 2018 per Bottega Errante, è l’occasione per parlare delle recente evoluzione della capitale serba. Il libro racconta la storia di una famiglia serba dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri. I destini dei protagonisti e del paese si intrecciano, mentre viene interrogato il ruolo degli intellettuali della Jugoslavia durante l’evoluzione del potere, da quel «totalitarismo morbido» di Tito - per usare le parole di Veličković - alle guerre degli anni Novanta.

Che ne è dunque del ruolo degli intellettuali? Che ne è delle proteste che scuotono oggi la Serbia di Vučić. Dušan Veličković si sistema sulla sedia, poi risponde cauto, come chi ha già creduto in troppi cambiamenti che non si sono avverati. «Queste manifestazioni sono importanti, mostrano che qualcosa è cominciato. Ma per il momento, c’è ancora troppa poca gente in piazza. Vedremo nei prossimi mesi, che succede», afferma Veličković.

Dai suoi lettori italiani, ai quali si rivolge con particolare piacere («abbiamo molto in comune, teniamo in alta considerazione le cose importanti della vita, dalla famiglia al cibo», dice sorridendo), si congeda con un monito, a metà strada tra un invito all’azione e l’ammissione di una paura: «Da persona progressista, ho assistito a molti cambiamenti, ma oggi mi pare non sia più la stessa cosa. C’è un populismo assoluto che sembra dominare il mondo».

Il viaggio

Da Novi Sad alle Porte di ferro su un battello dichiarato patrimonio culturale della Serbia e utilizzato dal regista Emir Kusturica per il film Underground. Un viaggio alla scoperta della straordinaria biodiversità racchiusa nel medio corso danubiano, ma soprattutto una presa di coscienza critica della sovranità alimentare grazie all’incontro con le comunità del cibo di Terra Madre provenienti dalla Serbia intrecciando cibo, tradizioni e identità locali. Caffè letterari e musica accompagnano infine i partecipanti durante le ore di navigazione e nelle soste a terra. 

Il viaggio è organizzato da Confluenze. Nel sud-est Europa con lentezza e ViaggieMiraggi in collaborazione con Slow Food. Per info consultare la pagina di Confluenze .