È un invito a ripensare radicalmente l'eurocentrismo che domina l’arte e la cultura questa recensione di Diario di un reduce di Miloš Crnjanski, uscito recentemente per i tipi di Elliot Edizioni
Immaginiamo che Miloš Crnjanski (1893-1977), autore del breve romanzo lirico Dnevnik o Čarnojeviću [Diario di Čarnojević], fosse stato uno scrittore francese, inglese, tedesco o, ad esempio, russo. In tal caso sarebbe stato incluso in tutte le antologie della letteratura europea del XX secolo di un certo rilievo, come una figura imprescindibile dell’avanguardia letteraria tra le due guerre. Avanzo questa ipotesi surreale lungi da ogni lamento banale per il destino dei grandi scrittori delle letterature periferiche europee e per il posto che occuperebbero in un’immaginaria storia della letteratura europea. Una storia che non dovrebbe essere appesantita dall’idea del dominio delle “grandi” lingue su quelle “piccole”.
Ora però constatiamo la realtà dei fatti: Crnjanski è stato uno scrittore serbo e jugoslavo, uno di quelli che ancora oggi sono poco presenti nelle librerie e nelle biblioteche al di fuori del proprio paese natale; uno di quegli scrittori che aspettano, in una fila che sembra diventata ormai troppo lunga, una revisione radicale dell’idea di eurocentrismo che domina l’arte e la cultura in generale. Se le cose stessero diversamente, Dnevnik o Čarnojeviću sarebbe già stato tradotto in molte lingue, e non solo in polacco, ungherese, tedesco e italiano (l’edizione pubblicata recentemente dalla casa editrice Elliot è la seconda edizione in lingua italiana; la prima è stata pubblicata nel 2014 dall’editore ADV di Lugano, nella traduzione di Milana Babić).
In ogni caso, dubito che dopo la pubblicazione delle traduzioni italiane del romanzo in due volumi Seobe [Migrazioni], del poema Lament nad Beogradom [Lamento per Belgrado] e di Roman o Londonu [Romanzo di Londra], in Italia Crnjanski possa essere considerato solo uno fra i tanti scrittori slavi del sud, anziché un autore appartenente alla pleiade dei grandi letterati come Ivo Andrić, Miroslav Krleža, Ivan Cankar, Meša Selimović, Borislav Pekić, Danilo Kiš, Aleksandar Tišma…
Luca Vaglio1, traduttore del Diario, ha scritto una interessante e dettagliata introduzione all’edizione italiana di questo romanzo, originariamente pubblicato in serbo-croato nel 1921, arricchendo la versione italiana del testo con numerose note a piè di pagina che chiariscono vari dettagli di carattere geografico, storico e letterario, che altrimenti sarebbero risultati poco chiari al lettore italiano.
Un destino già noto, il cuore della madre, una nuova narrativa
Crnjanski era uno dei tanti giovani artisti e poeti europei che, nell’estate del 1914, col precipitare degli eventi politici, vennero mobilitati in quanto sudditi dell’Impero austro-ungarico. Non giunse mai al fronte serbo, a causa del colera che colpì l’intero convoglio militare con cui viaggiava, rimasto bloccato nel fango della pianura pannonica. Si salvò grazie all’aiuto della madre di un ragazzo di Šid. “Mi aveva preso in casa, mentre ero disteso davanti alla sua porta”. Un gesto che Crnjanski non dimenticherà mai. Poi venne mandato nell’ospedale di Fiume dove, invece di essere sottoposto alle cure, finì in una lunga quarantena, a causa di un’epidemia di tifo petecchiale. Nell’estate del 1915 fu rispedito al suo reggimento, a Bečkerek (l’odierna Zrenjanin), per poi essere mandato in Galizia, nell’inferno del fronte russo. Mentì alla madre dicendole di aver ottenuto l’incarico di addetto all’ufficio amministrazione del suo battaglione (nei momenti più difficili, quasi tutti mentiamo alle nostre madri, perché Crnjanski avrebbe dovuto essere un’eccezione?).
“In Galizia il mio compito era quello di piazzarmi, correndo, davanti alle 11 persone, di urlare ordini, con il fucile in mano. Di essere una sorta di Napoleone sul ponte nei pressi del villaggio di Arcole […] Un fante austriaco, nelle trincee, poteva ricevere pacchi postali, ma di peso non superiore ai 350 grammi. Il numero di questi pacchi era illimitato. Mia madre mi inviava questi pacchi regolarmente, con una pazienza spaventosa di cui solo le madri sono capaci. Cinque, sei al giorno. Di cui due, tre arrivavano, e così mi alimentavo. In essi c’era una scatoletta di sardine, e un peperone, rosso, come il cuore della madre…”, scriverà Crnjanski molti anni dopo la guerra, nei suoi Komentari [Commenti alla raccolta di poesie “Itaca”].
Questi sono solo alcuni tasselli del complesso mosaico della vita di Miloš Crnjanski durante la Grande guerra, in cui combatté sia sul fronte russo che su quello italiano, assistette alla decadenza e alla caduta della monarchia, avvertì l’impotenza dell’individuo ridotto ad un mero numero ma, nonostante tutto, intuì l’emergere di una nuova sensibilità nella letteratura e nell’arte in generale.
Il caso volle che a Udine, in una libreria militare, Crnjanski trovasse il breve romanzo di Flaubert Novembre, nella traduzione tedesca. Questo libro, che Crnjanski lesse nel cimitero del villaggio di Nespoledo, in Friuli, ebbe un’enorme influenza sulla sua produzione letteraria.
Continuò a scrivere poesie, a dispetto della guerra e dell’assurdità di quell’immane macello europeo. In una poesia intitolata Prolog [Prologo], che apre la sua raccolta di poesie Lirika Itake [Lirica di Itaca] del 1919, sembra che l’io lirico non coincida solo con l’autore. In questa poesia, e soprattutto nel verso: “Il mio destino è già noto…”, Crnjanski in realtà parla di poeti e artisti di tutte le epoche contrassegnate dal vortice della Storia e dall’esistenza di un’unica forma di resistenza, quella dell’atto creativo.
A quel punto Crnjanski abbandonò la metrica classica, come un vecchio abito troppo stretto, e scelse il verso libero per dare forma al sentimento che lo invadeva, uno dei sentimenti più profondi provati da tutti gli scrittori sopravvissuti alla guerra. Il poeta, uno tra i milioni di soldati travolti dall’assurdità della guerra, cercava una consolazione e, nonostante tutti i fili del Senso e del Bene si fossero spezzati, sognava un’isola lontana il cui nome sussurrerà una volta tornato dal macello della Grande guerra. Così nacque Sumatra, una delle più grandi poesie della letteratura europea. E con essa il sumatrismo, un vero e proprio manifesto artistico di Crnjanski, un annuncio poetico di una nuova sensibilità dominata dalla ricerca di consolazione, che troverà la sua piena espressione nel primo romanzo di Crnjanski.
L’anno 1921, in cui uscì il suo Diario di Čarnojević, è uno degli anni più interessanti nella vita e nella produzione letteraria di Crnjanski. In quell’anno si recò a Parigi, dove rimase incantato dall’antica poesia cinese e giapponese; lesse le opere di Casanova; scoprì il poeta inglese John Donne; compì un viaggio in Italia, durante il quale nacque l’idea di un libro di viaggio intitolato Ljubav u Toskani [Amore in Toscana]. Da Ancona partì, a bordo di una nave, per la Dalmazia. Poi si recò a Belgrado, e infine a Mostar, dove partecipò ad un addestramento militare. In quell’occasione conobbe il vecchio poeta Aleksa Šantić.
Diario di un reduce
Nella letteratura mondiale del Novecento non c’è nessun romanzo sulla Grande guerra, e sulla guerra in generale, paragonabile al Diario di Čarnojević. Crnjanski scrisse questo libro ricorrendo a un metodo poetico basato sul rifiuto della factografia, quindi senza alcuna pretesa di realizzare un romanzo documentale. È proprio questo metodo che, nonostante una certa reciproca prossimità semantica, contraddistingue Crnjanski dei suoi contemporanei come Barbusse, Remarque, Dos Passos, e di tutti gli autori che in quel periodo scrivevano sulla guerra, per non parlare di quelli che anche dopo quella assurda esperienza bellica continuarono a elogiare la guerra come una prova di “virilità” e come unico mezzo per cambiare il mondo.
Diario di un reduce (titolo dell’edizione italiana del romanzo Dnevnik o Čarnojeviću) funge anche da testimonianza di una crisi spirituale iniziata molto prima della Grande guerra, durante la quale fu solo confermata.
Questo libro è un vero proprio collage lirico in prosa, incentrato sulla figura di Petar Rajić e il suo alter ego, Čarnojević, un personaggio con cui Crnjanski allude al patriarca Arsenije che 330 anni fa guidò la grande migrazione dei serbi dal Kosovo verso l’Impero ausburgico. (Diario contiene anche il seme di Migrazioni, il grande progetto romanzesco di Crnjanski).
Diario può essere letto cominciando da qualsiasi punto di quello che è un viaggio lirico nel passato e presente dell’autore tra Pannonia, Galizia, Italia, Vienna, Dalmazia. In questo libro Crnjanski ha trasformato il tempo e lo spazio in nozioni relative, in un susseguirsi di partenze e ritorni, di stagioni e, soprattutto, di ansie che lo tormentavano nella sua ricerca di una consolazione.
Tuttavia, per il disordine creativo che caratterizza Diario dobbiamo innanzitutto ringraziare il curatore della prima edizione del libro, il poeta Stanislav Vinaver, che – stando alle parole dello stesso Crnjanski – in quel lontano 1921, mentre preparava il manoscritto per la stampa, aveva cambiato l’ordine dei fogli. Ciononostante, Crnjanski non aveva mai preso le distanze da quella edizione. C’è da aggiungere inoltre che Vinaver, una volta letto il manoscritto del Diario, rinunciò all’intenzione di pubblicare, come primo volume della nuova collana Albatros [Albatros] dell’editore belgradese Stefanović, una sua raccolta di brevi racconti intitolata Gromobran svemira [Parafulmine del cosmo]. Credo che Vinaver nel Diario di Čarnojević avesse avvertito la presenza dell’albatros di una nuova sensibilità.
In un’epoca, come quella attuale, dominata dall’editorismo – un neologismo coniato dal sottoscritto per indicare una “corrente” letteraria, l’unica attualmente esistente, in cui conta solo il numero di copie vendute – e dall’egoismo degli scrittori, ciechi di fronte ai valori di altri autori, quel gesto di Vinaver sembra uscito da una favola. Ma quella non era una favola. Un autore aveva lasciato posto all’altro. Suppongo (ed è facile supporlo oggi, a distanza di un secolo, quando tutti siamo, a quanto pare, troppo intelligenti) che il poeta Vinaver avesse sentito la straordinaria energia stilistica e semantica del Diario. Dopo aver messo a confronto il libro di Crnjanski e il suo Gromobran svemira – in cui, nel primo capitolo intitolato Manifest ekspresionizma [Manifesto dell’espressionismo], Vinaver afferma: “L’artista si è servito dei dettagli della realtà, per propri scopi, non avendo potuto ottenere materiale da nessun altro” – Vinaver rinunciò coscientemente al ruolo di apripista di una collana senza la quale è impensabile la storia della letteratura moderna serba e slavomeridionale.
Diario, oggi
Crnjanski è nostro contemporaneo, di tutti noi europei, anche a un secolo di distanza dalle incertezze dell’uomo sopravvissuto alla Grande guerra. Cosa potrebbe ricordarci questo libro, a noi che abbiamo vissuto nella seconda metà del XX secolo e con il lascito di quell’epoca siamo entrati nel XXI secolo? Credo che possa innanzitutto ricordarci che la nostra belle epoque – caratterizzata da un’assurda fiducia in un modello di sviluppo considerato l’unico possibile e, di conseguenza, dalla tendenza a relativizzare tutti i valori morali – può facilmente sfociare in una crisi di dimensioni globali.
Dove sono la letteratura e l’arte in generale in questo – per dirla con Kiš – “caos del mondo”? Nel suo Diario Crnjanski ha affrontato anche questo argomento, scomodo e sconvolgente.
La migliore illustrazione di ogni analisi di un testo narrativo è il testo stesso. Perciò, per concludere, vi propongo alcuni frammenti tratti dal Diario, un’opera ancora attuale sulla scena del teatro del XXI secolo.
(….)Dopo di nuovo ci si sollevava e ci si inoltrava in quei folti boschi. Io dormivo ovunque, ma le aurore mi destavano. Le aurore, le aurore sono meravigliose. I boschi dorati, giovani, i miei buoni boschi galiziani. Lentamente, attraverso i boschi, ci avvicinavamo a Podkamie. Nelle trincee russe c’era un sacco di mollettiere e camicie insanguinate, di fucili infranti, di morti – un orribile guazzabuglio. I miei uomini, che fino a due-tre giorni prima cantavano, giacevano dinanzi a quelle trincee con la fronte fracassata. Uomini pidocchiosi, sudici, gracili, gialli, fetidi; alcuni ancora vivi con uno sguardo ottuso, agonizzanti. Uno di noi scorse il fratello che giaceva tra loro, si accasciò e urlò. Il battaglione marciava e incespicava sempre più lontano attraverso i boschi
(….)Pac, pac – si sentono i proiettili sugli alberi. Infilammo le baionette. Era prima di mezzogiorno. Nessuno aveva idea: dove fossero i russi e dove andassimo. Gli arbusti e la boscaglia ci graffiarono tutti. Uscimmo dal bosco; ci incamminammo lungo certi secciai verso un colle. Alcuni di noi avanzavano dinanzi agli altri. Quando uscimmo, esplose la valle dinanzi di noi. A un tratto tremò alla nostra destra e alla nostra sinistra. Mi ricoprì la terra e io mi rovesciai in certi campi di patate. Ficcai il volto nella terra e respiravo, respiravo. Dietro di noi strideva orribilmente il bosco e tremava sotto un diluvio di shrapnel. Accanto a me gemeva qualcuno e si mise a cantare. Sollevai il capo. Dietro l’orecchio aveva il capo tutto nel sangue, masticava sangue e soffocava. Si raddrizzò e si sedette, si mise a cantare e menzionava la moglie e i figli, mi chiamava per nome e mi guardava, guardava solo me. Ficcai il capo nella terra e tacevo. Il sole scottava. Intorno a me correvano e urlavano. Mi addormentai.
Sempre mi attaccava quel sonno, appena mi coricavo.
Quando mi destai, la nebbia, la nebbia serale calava di nuovo su di noi. Dietro il bosco passarono di corsa due automobili. In silenzio ci sollevavamo. Scendevamo, uno a uno, indietro, nel bosco. E quando calò la notte, cominciammo ad andare di nuovo attraverso i campi. Si fumava e si rideva. Il mio plotone canticchiava sottovoce. Ero abituato anche a questo. Di nuovo camminavamo, camminavamo. Accanto alle batterie, che si sistemavano accanto alle selve bagnate, terribili, oscure.
(….)La mia vita è compiuta così, senza che io noti dove si è fermata, e ciò, che chiamo vita, neanche c’è, neanche c’è. Il cielo ama le persone, e l’acqua ci gorgoglia sotto la finestra tutta la notte. Noi ci fissiamo l’un l’altro. Ella mi sussurra, mi prega di portarla, di condurla via da qui, e io mi burlo di lei dicendo che in terra straniera si sta meglio. Fuori strillano i bambini con l’edizione straordinaria del giornale. Tutto questo passerà. Chissà, forse verranno rappresentate allegre operette su ciò che stanno facendo adesso. Non so più cosa è bene, e cosa è male, ma mi pare che non lo sappiano neanche gli altri.
(….)Egli disse: che non siamo padroni dei nostri pensieri, nemmeno delle nostre azioni, che egli aveva un obbligo nei confronti di una donna anziana, sepolta da qualche parte, su un’isola dalmata, e che non amava nessun altro al mondo. La sua risata era malvagia e rauca, e i suoi occhi brillavano come la brace. Io sentivo solo che rideva, e quella risata mi trafiggeva il sonno. Disse al console americano che tutto ciò che fa l’America è inutile, che il futuro di un popolo non dipende da enormi turbine, neanche dal lavoro, bensì da un colore azzurro delle coste, di un’isola lontana. Attaccò furiosamente i trust e disse qualcosa di ridicolo contro l’umanità, disse che la sua risata, così attraverso i mari, è più in grado di aiutare i poveri di New York che non cinque milioni, e tutti gli ospedali che quella dama, la quale d’altronde ha delle caviglie grasse, e ciò a lui non piace, edifica, con il suo denaro rubato. Vi fu uno scandalo enorme. Lo misero in ospedale, ma lo dimisero presto.
Le sue risposte beate e i suoi occhi strani convinsero i medici che non era pazzo, ma che era malato. Sentì che il suo incrociatore era a Singapore e partì per raggiungerlo.
(….)Allora, con un sorriso amaro, riconosceva di essere infelice. Disprezzava tutto ciò che aveva intorno; tutto ciò era inutile e ridicolo, mentre destava in lui una gioia disperata ciò che era lontano. Ed era tranquillo e beato. Sul suo cannone, in coperta, nelle notti stellate, su un mare ceruleo, quando non vedeva nulla da nessuna parte eccetto il cielo e l’acqua, egli era il padrone del mondo. Di tutto si occupava. In Messico vi era un’insurrezione; in Russia avevano scoperto un attentato contro lo Zar; a Chicago gli operai innalzavano barricate. Di tutto ciò si occupava, e attraverso l’etere, fissando il cielo, irradiava il suo sorriso. E tutto si avverava secondo i desideri del suo cuore. Sembrava che tutto al mondo dipendesse dal sorriso suo, così com’era anch’egli legato, sapendolo prima, alle rubiconde piante oltremarine. In un porto, vide una casa, come la desiderava già da lungo tempo.
1 Luca Vaglio (Roma 1976) è docente di lingue e letterature slave meridionali all’Università La Sapienza di Roma. Si occupa prevalentemente di romanzi, autobiografie e sonetti della letteratura serba, croata, bosniaca e montenegrina nel contesto europeo, di rapporti linguistici e letterari tra l’Italia e i paesi slavi del Sud, nonché di teoria e storia della traduzione. È autore di vari studi su questi argomenti. Ha tradotto e curato diverse opere di narrativa (Ivo Andrić, Miloš Crnjanski, Rastko Petrović, Vladan Desnica, Filip David).
Quest'articolo è uscito in anteprima per gli abbonati di Obct il 9 giugno 2020