Operaio della Zastava - foto di Gughi Fassino

Scioperi e proteste a catena si susseguono in Serbia nelle ultime settimane. Secondo i sindacati sono circa 32.000 i lavoratori in sciopero in 50 fabbriche e 180.000 quelli che non ricevono da mesi lo stipendio. Sotto accusa l'Agenzia per le privatizzazioni

19/08/2009 -  Lucia Manzotti Belgrado

"Non si erano mai visti scioperi così massicci per motivi sociali - ammette la giornalista economica del settimanale "Nin" Ruža Ćirković - in Serbia i grandi movimenti sono sempre avvenuti per motivi politici: per il Kosovo per la cattura di Karadžić, per buttare giù Milošević, ma mai per la difesa del posto di lavoro".

Invece in pieno agosto i lavoratori hanno deciso di farsi sentire e con i primi risultati. È di lunedì 17 agosto la notizia che, dopo un colloquio con il ministro dell'Economia Dinkić, i lavoratori della Zastava Elektro hanno ottenuto l'avvio un'indagine governativa sulla privatizzazione dell'azienda.

L'11 agosto scorso erano arrivati a Belgrado in 300 dal paesino di Rača, vicino Kragujevac. Da mesi protestano perché la fabbrica è bloccata, gli operai sono senza stipendio, la struttura ipotecata. Con loro anche gli amministratori del comune ("Mi troverò metà della popolazione del paese sulle liste per i sussidi" dice il sindaco), portano coperte e viveri, si sistemano di fronte alla porta dell'Agenzia per la privatizzazione e affermano: non ce ne andiamo fino a quando non avremo risposte.

La Zastava Elektro infatti è una delle tante aziende a capitale sociale privatizzate dopo il 2001: nel 2003 è stata rilevata da un consorzio guidato da Ranko Dejanović che per l'appunto è marito della presidente del Parlamento Slavica Dukić-Dejanović (SPS) ed ex rappresentante a Rača dello JUL, il partito di Mira Marković moglie di Milošević.

Al nuovo padrone viene imputata la grave situazione attuale: non ha investito come avrebbe dovuto ed ha portato alla rottura dell'accordo che effettivamente faceva lavorare l'impresa con la multinazionale polacca Delfi.

"Chiediamo che venga rescisso il contratto con Dejanović - dice dal presidio il rappresentante sindacale Slobodan Gaijć - siamo in grado di provare che la documentazione fornita dal management non è valida".

"La Zastava Elektro è stata privatizzata 3 anni fa, abbiamo fatto tutti i controlli dovuti nei primi due anni", risponde Vladisav Cvektović direttore dell'Agenzia per la privatizzazione. Ma il fatto che l'attuale capo del CdA presentato da Dejanović sia l'ex direttore regionale dell'Agenzia, quella che doveva fare i controlli, non le sembra un po' strano? Chiede l'emittente B92 a Cvetković. La risposta è molto vaga: "Non c'è niente di sconveniente, e comunque controlleremo".

Dopo due giorni di presidio arrivano le rassicurazioni di un'indagine sul caso promossa dall'Agenzia e successivamente il colloquio con il ministro dell'Economia.

Il 12 agosto invece si presentano di fronte alla sede del governo circa 200 malinari, produttori di lamponi, di cui la Serbia è il maggior esportatore mondiale. Vengono raggiunti poco dopo dai produttori di grano della Vojvodina che stavano arrivando nella capitale a bordo dei loro trattori: la polizia li ha poi fermati per farli proseguire in autobus.

Il problema è con i prezzi all'ingrosso: da quando il governo non se ne occupa più, secondo i produttori, i prezzi di acquisto si sono abbassati talmente tanto che non vale la pena di vendere la merce. In particolare i produttori di lamponi sono tenuti in scacco dagli hladnjačari, gli intermediari con le celle frigorifere, senza l'accordo con loro i malinari sono costretti a buttare via tonnellate di lamponi. Il ministro dell'Agricoltura, Saša Dragin, esprimendo all'emittente B92 la propria comprensione, aveva aggiunto che i prezzi li fa il mercato.

Ma anche in questo caso è stata decisiva la determinazione dei malinari: dopo due giorni di presidio e di blocco delle arterie cittadine, gli agricoltori hanno ottenuto di avere questa settimana un incontro con il governo e i grossisti.

Questo a Belgrado, ma le situazioni di lotta si moltiplicano in tutta la Serbia: la Petrolhemia a Pančevo (prima parte della Nafta Industrija Srbije, ora della Gazprom) rischia il fallimento, i lavoratori hanno presidiato la fabbrica per avere un incontro con il vice premier Dinkić. Da Niš arrivano le notizie della Niteks tessili e la Građevinar costruzioni, i cui dipendenti bloccano le strade chiedendo gli stipendi non pagati. La fabbrica di dolciumi di Čuprija "Ravanica" e i lavoratori della "1. Maj" (primo maggio) di Lapov chiedono invece il blocco della privatizzazione delle loro aziende.

Secondo il Sindacato Autonomo (Samostalni Sindikat) di Ljubisav Orbović - che sta inseguendo con un po' di ritardo la protesta di questi giorni - sono 32.000 gli operai in sciopero in circa 50 fabbriche e addirittura 180.000 i lavoratori che non vengono pagati.

A questo punto è lo stesso processo di privatizzazione ad essere messo in discussione, poiché generalmente sono le imprese privatizzate che non rispettano i contratti di acquisto, che portano l'azienda al fallimento o che semplicemente non pagano gli stipendi. "Non è intelligente in questo momento portare avanti la privatizzazione delle altre 300 imprese a capitale sociale", dice Orbović.

"A partire dal 2001 - spiega Ivan Zlatić di Freedom Fight, piccola ong che ha seguito alcune delle lotte contro la privatizzazione - è iniziata in Serbia la privatizzazione neoliberale. Come è successo anche in altri paesi della regione sono arrivati prima i colossi e hanno creato dei monopoli in alcuni settori strategici: la Philip Morris e al British American Tabacco per l'industria del tabacco, la US Steel ha acquisito l'acciaieria di Smeredevo, la francese Lafarge per il Cemento, l'italiana SFIR e la Ellenic sugar per la produzione di zucchero, la tedesca Henkel nel mercato dei detergenti con l'acquisizione della Merima, e naturalmente la Gazprom che compra la N.I.S. e la Lukoil (del russo Abramović) che compra la Beopetrol con la sua rete di pompe di benzina". Diverso è il discorso della Fiat che, pur avendo la maggioranza del pacchetto azionario, è in joint venture con il governo serbo.

"Dopo le acquisizioni più importanti sono arrivati i piccoli tycoons locali, imprenditori che hanno fatto i soldi negli anni Novanta grazie all'appoggio del regime e che generalmente comprano aziende o per riciclare denaro sporco o per speculazioni edilizie sul terreno della fabbrica", continua Zlatić. "Il problema è che non è facile ridurre la produzione perché i contratti collettivi sono abbastanza rigidi in Serbia, quindi l'unica soluzione è mandare in bancarotta l'impresa. In genere gli imprenditori fanno in modo di far contrarre debiti all'azienda che vogliono liquidare con altre società sempre di loro proprietà. Così una volta dichiarata la bancarotta, la fabbrica vuota resterà comunque a loro".

Dal 2002 l'Agenzia per la privatizzazione ha concluso 2054 contratti in materia di privatizzazione, di questi 424 (per una valore di 472 milioni di euro) sono stati interrotti. Ma nonostante questo e nonostante le polemiche sulla mancata trasparenza delle operazioni che esegue, l'Agenzia resta un luogo di potere strategico e un ottimo luogo per la carriera politica, come dimostra il fatto che lo stesso premier serbo attuale, Mirko Cvetković, fu direttore dell'Agenzia tra il 2003 e il 2004.