Nessuna sorpresa alla tornata elettorale per le presidenziali di domenica 2 aprile. Aleksandar Vučić è stato eletto presidente della Serbia con il 55% dei voti
Da primo ministro a presidente: Aleksandar Vučić ha vinto ieri la sua scommessa e potrà rimanere al potere in Serbia fino al 2022. Col 91% delle schede scrutinate, l’attuale capo di governo e leader del Partito progressista serbo (Sns) ha ottenuto un confortevole 55,13% dei voti, superando la soglia della maggioranza assoluta e rendendo quindi inutile il ballottaggio. Si tratta dunque di una vittoria al primo turno, il cui ultimo caso, nella storia recente della Serbia, risale al 1992, quando l’exploit riuscì a Slobodan Milošević. Questa volta, Vučić prenderà il posto del suo collega di partito (e presidente uscente) Tomislav Nikolić, che lo stesso premier considerava troppo debole per una rielezione. In generale, malgrado una campagna martellante, gli undici candidati non sono riusciti a motivare l’elettorato: appena il 54,55% degli elettori si è infatti recato alle urne, lasciando che un quarto della popolazione decidesse il nome del futuro capo di Stato.
Frammentata e divisa davanti al potente primo ministro, l’opposizione esce dalle urne con le ossa rotte. In seconda posizione, si piazza l’ex Ombudsman Saša Janković con circa il 16,26% delle preferenze, nonostante il sostegno di più di cento intellettuali ed artisti che lo avevano convinto a candidarsi e l’appoggio di diverse formazioni politiche tra cui il Partito democratico (Ds). Lo segue a ruota Luka Maksimović, meglio noto come Ljubiša Preletačević "Beli”, un candidato burla che nei suoi video elettorali proponeva una parodia della politica serba. Col dignitoso 9,43% ottenuto, "Beli", in groppa al suo cavallo bianco, dimostra quanto grande sia la disaffezione alla politica degli elettori serbi. I restanti pretendenti superano di poco o non superano affatto la soglia del 5%. E’ il caso dell’ex ministro degli Esteri Vuk Jeremić (5.64%) o ancora dell’ultra-nazionalista Vojislav Šešelj (4.47%), il leader del Partito radicale serbo (di cui Vučić fu un membro di spicco fino al 2008).
Nel suo discorso di ieri sera, il premier diventato presidente ha dunque annunciato una vittoria “limpida come l’acqua”, potendo affermare di avere “il 12% in più di tutti gli altri candidati messi assieme”. “Con un risultato del genere, non c’è spazio per l’instabilità”, ha aggiunto il neoeletto presidente, che ha fatto della stabilità in Serbia e nella regione il suo cavallo di battaglia in patria e all’estero. Ma a quest’immagine di uomo del dialogo e di interlocutore indispensabile che Vučić stesso promuove presso le cancellerie europee, fa da contraltare un lato ben più oscuro all’interno del paese. Uno dei punti più critici e che anche i diplomatici europei di stanza a Belgrado sono disposti ad ammettere riguarda l’erosione della libertà d’espressione, con i mezzi d’informazione ormai soggetti ad un’autocensura cronica che ne condiziona il lavoro.
Un’altra questione rilevante riguarda il dirigismo e la mancanza di trasparenza con cui vengono gestiti gli investimenti stranieri, in primis il progetto di “Belgrado sull’acqua”, che, tra leggi speciali, demolizioni illegali e manifestazioni di protesta con decine di migliaia di persone, si appresta a trasformare il volto della capitale serba a un prezzo di circa tre miliardi di euro. Sempre riguardo alla politica interna, l’opposizione pro-europea denuncia la confusione che viene portata avanti tra le istituzioni pubbliche e quelle del potente SNS, il partito guidato da Vučić. “Un tratto comune ai paesi dei Balcani”, minimizza un diplomatico a Belgrado, ma per i detrattori del premier-presidente, l’iscrizione al SNS è ormai diventata necessaria per parti importanti della popolazione per ottenere un lavoro. Proprio questo nesso perverso giustifica la paura che, sempre secondo gli oppositori di Vučić, paralizza la società serba.
Ombre non mancano neanche nella politica estera portata avanti da colui che fu ministro dell’Informazione ai tempi di Slobodan Milošević. Il dialogo con il Kosovo, che viene spesso citato dai rappresentanti europei come un esempio delle concessioni fatte da Vučić in nome della pace nei Balcani, ha vissuto ad inizio anno una drastica involuzione. L’episodio del treno che Belgrado ha inviato nell’ex provincia ribelle con tanto di decorazioni riportanti la scritta “il Kosovo è serbo” è rimasto senza spiegazioni. Vučić, che ha assicurato di essere stato all’oscuro dell’iniziativa, ha in seguito ordinato al treno di fermarsi a pochi chilometri dal confine, scongiurando lo scontro con le forze speciali kosovare già schierate. Alla retorica conciliante che il premier utilizza in occasione dei suoi spostamenti nei Balcani, fa inoltre seguito una propaganda serrata che i tabloid vicini al governo di Belgrado ripetono costantemente in senso anti-albanese, anti-croato e anti-bosniaco.
Insomma, l’uomo che è appena riuscito a prolungare il suo mandato di altri cinque anni, saltando da una poltrona all’altra, potrebbe non essere il “moderato filo-europeo” con cui i paesi europei vogliono convincersi di avere a che fare. Dal suo arrivo al potere nel 2012 (come vice-premier e alleato di maggioranza) e nel 2014 (come premier), Vučić ha in effetti inanellato dei comportamenti democraticamente discutibili. Basti citare la richiesta di elezioni parlamentari anticipate concessa nel 2016 dal capo di Stato Nikolić in nome della stabilità, o ancora la decisione di sospendere l’attività del parlamento a un mese dalle elezioni presidenziali di questa domenica, mentre lo stesso premier proseguiva la sua campagna elettorale senza dare le dimissioni.