Il caso di Aleksandar Obradović, il whistleblower che ha denunciato il caso di corruzione e affari illeciti nella vendita di armi in Serbia, spiegato nei dettagli dal giornalista investigativo del settimanale NIN Vuk Cvijić
(Originariamente pubblicato dal portale Cenzolovka , il 1° novembre 2019)
Vuk Cvijić, giornalista del settimanale NIN e vincitore del premio “Dušan Bogavac” 2019 per il giornalismo etico e coraggioso, ha recentemente scritto un articolo sull’arresto del whistleblower Aleksandar Obradović, impiegato nella fabbrica di armi e munizioni Krušik a Valjevo, un arresto che ha scatenato numerose proteste e una bufera politica che vede coinvolti i vertici dello stato. Obradović ha fatto trapelare alcuni documenti sul traffico di armi, da cui emerge che alcune aziende private, tra cui anche un’azienda legata a Branko Stefanović, padre del ministro dell’Interno Nebojša Stefanović, hanno tratto profitto dalla vendita di armi ai danni dell’azienda statale Krušik. Molti hanno paragonato il caso di Obradović a quello di Snowden e di Assange.
Vuk Cvijić continua la sua inchiesta sul traffico di armi. In un articolo pubblicato sul settimanale NIN del 31 ottobre scorso Cvijić ha rivelato che l’azienda Krušik vendeva armi a prezzi di favore non solo all’azienda GIM legata a Branko Stefanović, ma anche ad altre aziende legate al Partito progressista serbo (SNS), comprese alcune aziende che in passato hanno finanziato l’SNS.
Dal momento che né la polizia né la procura hanno reso nota la notizia dell’arresto di Obradović, l’intera vicenda probabilmente sarebbe stata insabbiata se Vuk Cvijić – che ormai da tempo si occupa di criminalità organizzata e corruzione – non avesse saputo da fonti informali che una persona era stata arrestata in relazione al caso della Krušik.
“All’inizio non sapevo né chi fosse stato arrestato né presso quale tribunale fosse stato avviato il procedimento. Quando l’ho scoperto, ho telefonato all’Alta corte e alla procura [di Belgrado], e mi hanno confermato che Aleksandar Obradović è stato arrestato con l’accusa di aver rivelato segreti commerciali. La corte ha confermato che il collegio del riesame ha accolto il ricorso della procura [contro la concessione degli arresti domiciliari ad Aleksandar Obradović] e che Obradović è stato trasferito in carcere”, spiega Vuk Cvijić.
Come si è sentito quando ha scoperto che il whistleblower è stato arrestato? Preoccupato o piuttosto arrabbiato perché lo stato, invece di verificare la fondatezza delle segnalazioni riguardanti un caso di sospetta corruzione, ha arrestato l’uomo che aveva denunciato attività illecite?
Ero sia preoccupato che arrabbiato. Mi chiedevo come fosse possibile che stesse accadendo una cosa del genere, ossia che la polizia, invece di indagare su un caso di sospetta corruzione, avesse arrestato l’uomo che aveva segnalato condotte corruttive. Anche se in passato avevo già assistito a situazioni simili, come ad esempio quando i due agenti di polizia avevano denunciato il cosiddetto caso “Potočari”. I due agenti sostengono che, in occasione della cerimonia di commemorazione del genocidio di Srebrenica nel 2015, alla quale aveva partecipato anche l’attuale presidente serbo, fossero stati inviati a Potočari nell’ambito di un’operazione illegale. Avevano subito denunciato l’accaduto, sporgendo denuncia contro i loro superiori, ma alla fine si sono trovati sul banco degli imputati. Speravo che nel caso di Aleksandar Obradović non si sarebbe ripetuto lo stesso scenario.
Perché ritiene che questa storia sia importante? Anche gli altri media serbi si sono resi conto dell’importanza di questo caso?
NIN ha pubblicato la notizia dell’arresto di Obradović appena ne siamo venuti a conoscenza, cioè dopo un paio di giorni. NIN esce il giovedì, io ho saputo della vicenda la domenica e ho dovuto consegnare l’articolo entro martedì, che è il giorno in cui il giornale va in stampa. Cenzolovka e altri media indipendenti hanno ripreso la notizia, ed è stata una cosa positiva perché così la notizia ha raggiunto un pubblico più vasto, che ha reagito in modo adeguato, schierandosi dalla parte di Aleksandar Obradović.
Poi un gruppo di cittadini ha organizzato una manifestazione di protesta davanti al carcere di Belgrado [dove Obradović è stato rinchiuso], e in un solo giorno due organi giudiziari si sono espressi sul caso: la Corte d’appello, che ha aspettato due settimane per pronunciarsi, [ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dall’Alta corte di Belgrado nei confronti di Obradović, con rinvio alla stessa corte per nuovo esame] e l’Alta corte, che ha revocato la sua precedente decisione [concedendo gli arresti domiciliari a Obradović].
Queste decisioni frettolose degli organi giudiziari dimostrano che questi ultimi non prendono le proprie decisioni in base alla leggi, perché se lo facessero Obradović non sarebbe finito in carcere né agli arresti domiciliari, e la procura avrebbe avviato un’inchiesta per indagare sulla corruzione. Al contempo, il fatto che due organi giudiziari si siano pronunciati su questo caso in un solo giorno dimostra che la magistratura è sottoposta a forti pressioni da parte del potere esecutivo.
Prima ha menzionato che alcuni media hanno ripreso la notizia dell’arresto di Obradović, contribuendo in tal modo a diffonderla. Dall’altra parte, il servizio pubblico, che dovrebbe servire l’interesse di tutti i cittadini, ha taciuto sulla vicenda . Da cittadino che vuole essere informato su quello che sta accadendo nel suo paese, prima ancora che da giornalista professionista che è in grado di riconoscere quali temi meritano attenzione, ritiene sconfortante che la Radiotelevisione della Serbia (RTS) abbia taciuto sul caso di Aleksandar Obradović?
Tutte le emittenti a copertura nazionale hanno taciuto la notizia, e sappiamo che queste emittenti dovrebbero servire l’interesse pubblico. Ma a prescindere dal raggio di copertura, un media che pretende di avere un ruolo informativo, sia che si tratti di un media cartaceo o elettronico, deve fornire informazioni ai cittadini, è un suo dovere.
In Serbia, invece, molti media che pretendono di occuparsi di giornalismo informativo – e ce ne sono tanti – si comportano secondo i dettami imposti dal potere, come se fossero i mezzi di propaganda, invece di fornire informazioni rilevanti ai cittadini. Qui, purtroppo, devo fare un paragone. Aleksandar Obradović mi ha detto che mentre era in carcere non sapeva come si stesse evolvendo la situazione riguardo al caso della Krušik, e in un primo momento non sapeva nemmeno che i cittadini si fossero radunati davanti al carcere per protestare contro il suo arresto. Al carcere di Belgrado si possono vedere solo le emittenti a copertura nazionale e la tv Studio B. Solo la sera di quel giorno in cui i cittadini si erano radunati davanti al carcere, Obradović ha visto una trasmissione su tv Pink, nel corso della quale si è assistito al tentativo di screditare Obradović attaccando sua madre. Si continua ancora con questa strategia volta a screditare Obradović, nonostante lui agisca nell’interesse pubblico, perché sta denunciando condotte corruttive all’interno di un’azienda statale che, in quanto tale, appartiene a tutti i cittadini della Serbia. Di certo non lo fa per soddisfare un interesse privato, anche se, come impiegato di quell’azienda, ha tutto il diritto di difendere i propri interessi, ma qui questo non è il caso.
Allo stesso modo in cui i detenuti delle carceri serbe possono guardare solo le emittenti a copertura nazionale, così anche la maggior dei cittadini serbi, pur vivendo in libertà, è rinchiusa in una sorta di prigione mediatica.
Ha affermato prima che Aleksandar Obradović è un whistleblower perché agisce nell’interesse pubblico. Si è mai chiesto quali siano i motivi che hanno spinto Obradović a denunciare fatti illeciti e a mettere a rischio la propria incolumità?
Sì, me lo sono chiesto, e ne ho parlato anche con Obradović. Capisco perfettamente i suoi motivi. Obradović, come molti altri, amava la fabbrica Krušik; lavora in questa fabbrica ormai da molto tempo e si è dedicato ad essa, come tante altre persone di Valjevo e dei dintorni. Queste persone svolgevano il loro lavoro con dedizione e poi si sono accorte che qualcosa non andava bene. Obradović è stato il più coraggioso e si è rifiutato di starsene in disparte a guardare. Non poteva – come ha affermato lui stesso – fingere che tutto fosse normale, perché era evidente che stava accadendo qualcosa di insolito, pertanto ha reagito, cercando di proteggere un bene comune che appartiene a tutti i cittadini della Serbia.
Cosa possono fare i giornalisti in situazioni come questa per proteggere le loro fonti e le persone di cui scrivono e parlano? Quali principi ha seguito mentre lavorava a questa storia?
All’inizio ero molto cauto, per cui nel primo articolo non ho citato il nome e il cognome di Obradović, anche se ne ero a conoscenza, ma abbiamo indicato solo le sue iniziali, proprio per proteggerlo. Ad essere sincero, non sapevo nemmeno quali fossero le condizioni di Obradović in carcere. Sapevo solo che era sottoposto a un trattamento severo, ma non sapevo quali pressioni stessero subendo i membri della sua famiglia, e volevo proteggere anche loro.
Purtroppo, mi sono reso conto che nel caso di Aleksandar Obradović, così come in molti altri casi simili avvenuti in Serbia, l’appoggio dell’opinione pubblica resta l’unica arma di difesa. Se la Serbia fosse un paese normale e civile, la situazione sarebbe diversa. Le istituzioni competenti proteggerebbero i diritti dei whistleblower e di tutti i cittadini, soprattutto quelli coraggiosi che si sono impegnati per proteggere i beni comuni, e Aleksandar Obradović è l’unico tra i 3200 dipendenti della fabbrica Krušik che ha osato parlare.
Quando questa vicenda ha cominciato ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, era preoccupato che potesse essere sfruttata a fini politici, sia da parte del partito di governo – i cui funzionari cercano di screditare Obradović, bollandolo come un “uomo di Đilas”, sia da parte dell’opposizione, che potrebbe cercare di sfruttare il caso della Krušik per dimostrare che l’élite al potere è corrotta?
Penso che la leadership al potere non sia in grado di affrontare i fatti, e in un primo momento non ha reagito in alcun modo. Nei primi giorni dopo l’arresto di Obradović non si è fatto sentire nessuno, e le prime reazioni sono arrivate solo dopo la protesta dei cittadini davanti al carcere. Ma fino ad oggi nessuno ha risposto alle rivelazioni di Obradović sul caso di sospetta corruzione. Il presidente Aleksandar Vučić ha replicato alle affermazioni di Obradović chiedendo polemicamente: “Vendiamo le armi, e allora?” Ma qui la questione non è se sia opportuno o meno vendere armi, ma come si svolga il traffico di armi e se implichi prassi corruttive.
La coalizione al governo non ha fornito alcuna risposta alle questioni sollevate da Obradović. I rappresentanti del potere non entrano mai nel merito delle questioni oggetto di dibattito, non discutono dei fatti, della loro veridicità o meno. In questo caso sono emersi vari documenti, fotografie, tutta una serie di prove, ma gli esponenti del governo li ignorano completamente. Quello che mi preoccupa più della pessima propaganda e degli argomenti fantoccio della leadership al potere è il silenzio delle istituzioni, che evidentemente esistono solo sulla carta.
Il Partito progressista serbo (SNS) ha rilasciato il primo comunicato stampa riguardante questo caso il giorno dopo la scarcerazione di Obradović e il suo trasferimento agli arresti domiciliari, affermando che i fatti denunciati da Obradović risalgono al 2014. Solo il giorno dopo, la procura, che è l’unico organismo competente a indagare i casi di sospetta corruzione, ha emesso un comunicato stampa in cui ha confermato quello che ha scritto l’SNS nel suo comunicato.
A quel punto il legale di Obradović, Vladimir Gajić, ha sollevato una domanda del tutto logica: com’è possibile che i membri di un partito politico, poco importa che si tratti del partito di governo, sappiano certi dettagli riguardanti i documenti fatti trapelare da Obradović prima della conclusione della perizia della documentazione. A me preoccupa questo tipo di abuso di potere, oltre al silenzio delle istituzioni.
Aleksandar Obradović è finito nel mirino del potere per aver rivelato certi dettagli riguardanti il traffico di armi. Anche il portale Arms Watch, che si è occupato di questa vicenda, è stato oggetto di attacchi di hacker provenienti dalla Serbia. Pensa che oggi in Serbia sia rischioso occuparsi di questi temi?
Penso che sarebbe ancora peggio se non ci occupassimo di questi temi e se non ci fossero persone come Aleksandar Obradović. Questo scenario sarebbe molto più pericoloso per tutti. Quindi, l’unico modo per combattere questi fenomeni è parlarne, non rimanere in silenzio. Non vedo altro modo, visto che le istituzioni non fanno il loro lavoro.
Secondo lei, come potrebbe evolvere la situazione riguardante il caso Krušik? Si aspetta che le persone accusate di essere coinvolte in atti corruttivi subiscano le conseguenze delle proprie azioni, oppure pensa che tutto cadrà sulle spalle di Aleksandar Obradović?
Quello che vedo, e i fatti lo dimostrano, è che l’opinione pubblica e i cittadini hanno contribuito a migliorare la posizione di Obradović. Tuttavia, penso che l’esito della vicenda non dipenderà, purtroppo, dalle istituzioni, bensì proprio dai cittadini e dalla loro tenacia nel battersi per Aleksandar Obradović, perché battendosi per i diritti dei whistleblower i cittadini si battono anche per se stessi e per i propri diritti.
Lei si occupa di criminalità organizzata e di corruzione ormai da molto tempo. Probabilmente le è capitato molte volte di ricevere informazioni dagli agenti di polizia. Qual è la sua esperienza al riguardo? Gli agenti di polizia sono una valida fonte di informazioni che può aiutare i giornalisti nella loro ricerca delle prove?
Fare il poliziotto è un lavoro come un altro. I poliziotti non sono tutti uguali. Di alcuni ci si può fidare, di altri no. Ovviamente, un giornalista professionista non collabora con gli agenti di polizia di cui non si può fidare, né chiede loro di fornirgli informazioni. Ci sono i poliziotti che svolgono il loro lavoro onestamente, e questo vale anche per il caso di Obradović.
Le è mai capitato che qualcuno cercasse di manipolarla fornendole informazioni false?
Un paio di volte alcune persone ci hanno fornito informazioni false, aspettandosi che le pubblicassimo senza verificarne prima la veridicità. Anche nel caso dell’omicidio di Slavko Ćuruvija ci sono stati tentativi di depistare le indagini fornendo informazioni false. Abbiamo scoperto che presso i servizi segreti esisteva un dipartimento, creato all’epoca di Slobodan Milošević, che aveva il compito di sorvegliare l’operato dei mezzi di informazione. Il coordinatore di questo dipartimento era Stevan Basta, che era legato in qualche modo anche al processo per l’omicidio di Slavko Ćuruvija, ma purtroppo non si è mai indagato fino in fondo sul suo coinvolgimento nel caso Ćuruvija.
In Serbia non è mai stato avviato il processo di lustrazione, che avrebbe dovuto coinvolgere i servizi segreti, ma anche i giornalisti. Durante il processo per l’omicidio Ćuruvija sono ricomparsi in pubblico alcuni ex membri dei servizi segreti, ma anche coloro che si presentavano come i nostri colleghi, come giornalisti, e proprio alla vigilia della sentenza hanno ricominciato a scrivere testi deplorevoli, esattamente come facevano in passato, quando scrissero alcuni testi che fecero da preludio all’omicidio di Ćuruvija.
Sono dovuti passare vent’anni affinché venisse emessa una sentenza per l’omicidio di Slavko Ćuruvija. Perché ci è voluto tanto tempo per arrivare a una sentenza? Perché il procedimento penale non è stato avviato subito dopo il 5 ottobre, cioè dopo la caduta del regime di Milošević?
Da quello che ho sentito, ma anche a giudicare da quanto detto in aula durante il processo, c’è stata una forte resistenza ai tentativi di avviare il procedimento penale. In Serbia esiste ancora il cosiddetto stato profondo e questa sentenza di condanna di primo grado recentemente emessa non mi rende molto fiducioso. Non sarò tranquillo finché non si giungerà a una sentenza definitiva. All’inizio del processo alcuni agenti che avevano partecipato alle indagini per l’omicidio di Ćuruvija e che volevano che il caso si risolvesse il più presto possibile, hanno affermato che c’è stato un forte ostruzionismo, soprattutto da parte dei servizi segreti. Lo hanno confermato alcuni ex membri dei servizi segreti, ma anche gli agenti incaricati delle indagini.
Oltre all’ostruzionismo, i servizi segreti avevano preso in considerazione persino l’idea di uccidere Dragan Kecman, che era a capo delle indagini per l’omicidio di Ćuruvija. Con l’approssimarsi della conclusione del processo gli ex agenti dei servizi segreti si sono messi nuovamente in contatto e sono diventati molto attivi, così come alcuni dei cosiddetti giornalisti. Hanno lanciato una campagna denigratoria simile a quelle che conducevano negli anni Novanta. Del resto, Branko Crni, che all’epoca dell’omicidio di Ćuruvija era vice capo dei servizi segreti (all’epoca guidati da Radomir Marković), responsabile di tutte le attività operative, attualmente è un alto funzionario del Partito progressista serbo. Crni ha testimoniato nel processo per l’omicidio Ćuruvija, cercando praticamente di fornire un alibi agli imputati, e dopo la sua testimonianza alcuni testimoni provenienti dalle fila dei servizi segreti hanno improvvisamente cominciato a soffrire di amnesia e dimenticanza.
Questi eventi di cui ha parlato sono accaduti recentemente, alcuni qualche mese fa, altri qualche anno fa. Pensa che gli ex membri dei servizi segreti esercitino ancora una grande influenza sulle istituzioni?
Vediamo che sono ben piazzati: dal partito di governo e vari ministeri fino alle aziende pubbliche. Queste persone sono ancora attive. Il legame tra politica e criminalità organizzata non è mai stato spezzato. Si è riusciti a portare alla luce, fino ad un certo punto e grazie ad alcune sentenze definitive, il ruolo svolto dai servizi segreti civili negli anni Novanta, compreso il loro ruolo nell’omicidio del premier serbo Zoran Đinđić. Ma per quanto riguarda il ruolo svolto dai servizi segreti militari, a tutt’oggi, purtroppo, non si è ancora giunti ad alcun epilogo.