Lunghe file ai confini. E non si tratta delle tradizionali festività in cui gli emigrati fanno rientro a trovare parenti e amici. Chi è in fila si sta recando in Serbia per farsi vaccinare. Un quadro della situazione
L’ultimo fine settimana di marzo, quasi 10mila cittadini provenienti dall’ex Jugoslavia hanno fatto rotta verso Belgrado per farsi vaccinare contro il coronavirus. Il governo serbo ha infatti messo a disposizione dei vicini migliaia di dosi che altrimenti sarebbero scadute ad inizio aprile. Le immagini delle code ai confini con la Serbia hanno fatto il giro della stampa locale ed internazionale, mentre i messaggi di ringraziamento fioccavano sui social networks. "Se possiamo aiutare, lo facciamo volentieri", ha spiegato il presidente serbo Aleksandar Vučić, secondo cui la lotta al COVID-19 "non è questione di geopolitica ma di salvare vite umane".
La realtà della campagna vaccinale in Serbia, tuttavia, è più complessa e meno rosea di quanto il governo di Belgrado vorrebbe far credere. E la geopolitica – neanche a dirlo – gioca un ruolo di primo piano. "Basta grattare un po’ e si scopre che dietro alle belle immagini c’è una situazione tutt’altro che bella", riassume Aleksandra Tomanić, direttrice del Fondo europeo per i Balcani. Da un lato, infatti, è vero che la Serbia figura tra i paesi con la percentuale più alta di persone vaccinate (più di 2 milioni di cittadini, circa il 30% della popolazione), ma dall’altro le condizioni di questo successo e soprattutto le prospettive per i prossimi mesi sono meno incoraggianti.
La geopolitica del vaccino
Il segreto principale dell’esecutivo serbo, in quanto alla campagna di vaccinazione svolta finora, è l’aver accettato tutti i vaccini, da quelli approvati dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA) – Pfizer-BioNTech, Moderna, AstraZeneca e Janssen Pharmaceutica NV (Johnson & Johnson) – a quelli prodotti in Russia (Sputnik V) e in Cina (Sinopharm). Belgrado non ha reso noti i prezzi di acquisto dei vaccini, ma si è mossa subito e con intraprendenza: la Serbia è stata il primo paese europeo a comprare il vaccino cinese e a breve inizierà anche a produrlo sul proprio territorio.
Da Pechino, sono finora arrivate circa 1,5 milioni di dosi e, questa settimana, lo stesso Aleksandar Vučić si è fatto somministrare il vaccino cinese. Un gesto simbolico e in linea con la comunicazione governativa degli ultimi mesi: nel marzo scorso, ad inizio pandemia, il presidente serbo aveva baciato la bandiera cinese all’aeroporto di Belgrado accogliendo un carico di mascherine e materiale sanitario arrivato dalla Cina; successivamente, dei cartelli erano comparsi nella capitale serba ringraziando «il fratello Xi», meglio noto come il presidente cinese Xi Jinping.
La «diplomazia delle mascherine» o la «geopolitica del vaccino», come sono state spesso definite dalla stampa, non fanno che evidenziare, in Serbia, una relazione che si è andata consolidando negli ultimi anni. L’acquisto del Sinopharm è infatti il punto di arrivo di un rapporto politico ed economico sempre più stretto tra Serbia e Cina, fatto di prestiti, di investimenti diretti e di dichiarazioni politiche di fratellanza.
"La Cina ha comprato l’acciaieria di Smederevo e l’acciaieria funziona. La Cina ha costruito un ponte sul Danubio e il ponte non è crollato. Insomma, è come se la Cina stesse creando un suo portfolio e questa logica vale anche per i vaccini: è più facile per i paesi europei vedere che i vaccini cinesi non sono pericolosi ma che anzi funzionano se vengono impiegati in Serbia piuttosto che in un paese lontano", spiega Miloš Damnjanović, analista politico a BIRN Consultancy.
Il prezzo dell’amicizia cinese
Se per Belgrado l’acquisto del vaccino cinese ha permesso di reagire con prontezza alla pandemia, per Pechino la collaborazione con la Serbia permette di estendere la propria influenza sul continente europeo. E la strategia funziona. A metà marzo 2021, l’Ungheria è diventata il secondo paese europeo ad acquistare il Sinopharm. A differenza del governo Vučić-Brnabić, l’esecutivo di Viktor Orban ha reso noto il prezzo di acquisto: 30€ a dose, contro i 15,50€ pagati dall’Ue per il vaccino Pfizer-BioNTech o i circa 2€ spesi per l’AstraZeneca.
In altre parole, l’intervento del «fratello Xi» non è privo di costo, anche se la propaganda governativa serba vorrebbe far credere il contrario. "Se mettete i dati nero su bianco, vi accorgerete che la Serbia ha ricevuto miliardi di aiuti dall’Unione europea e dai singoli paesi membri, mentre Russia e Cina non hanno donato niente o quasi. Ma il pubblico serbo percepisce il contrario, perché questo è un risultato che il governo crea appositamente attraverso i suoi media", s’indigna Aleksandra Tomanić, direttrice del Fondo europeo per i Balcani.
Tomanić assicura che tra i diplomatici europei di stanza a Belgrado c’è «molta frustrazione» per il comportamento dell’esecutivo serbo, che presenta in modo diverso le collaborazioni con la Cina rispetto a quelle con l’Ue. "Basta pensare che nella dichiarazione di Zagabria del maggio 2020 si fa esplicita menzione della necessità di una chiara comunicazione pubblica da parte dei governi della regione", precisa Tomanić. Il risultato è che "i media serbi stanno creando una nazione di amanti della Cina", scrive Stefan Vladisavljev su Balkan Insight, mentre Miloš Damnjanović ammette che nel suo paese "si fa molta confusione tra gli investimenti diretti cinesi e quelli che sono invece dei prestiti delle banche cinesi per la costruzione di nuove infrastrutture".
Molti vaccini, pochi interessati
Ma il costo – economico e geopolitico – della campagna vaccinale serba non è l’unico punto critico. Se a fine marzo il governo di Belgrado ha potuto offrire migliaia di dosi ai residenti dei paesi vicini è perché i suoi stessi cittadini non sono interessati a riceverli. Diversi sondaggi recenti hanno indicato che appena il 40% dei serbi ha fiducia nel vaccino e questo spiegherebbe perché la campagna vaccinale è andata avanti molto bene nelle prime settimane prima di arrivare ad una fase di stallo. "I dottori serbi temono che il picco sia stato raggiunto", scrive l’AFP.
L’agenzia francese nota che "nelle ultime due settimane di marzo il numero di persone che ha ricevuto la prima dose è crollato a circa 12.000 al giorno, circa la metà rispetto allo stesso periodo a febbraio". "È chiaro che non c’è un numero sufficiente di persone desiderose di farsi vaccinare", ha detto all’AFP il presidente del sindacato dei medici Rade Panić. Poco importa che lo stesso presidente si sia fatto vaccinare in diretta televisiva o che abbia dichiarato "vi sto pregando, fatevi vaccinare". La sfiducia da parte della popolazione rimane molto alta.
Secondo Aleksandra Tomanić, il governo ha una grande responsabilità in questo, non avendo costruito una comunicazione lineare e consistente dall’inizio della pandemia. Al contrario, le dichiarazioni dei responsabili politici serbi hanno oscillato dalla negazione della pericolosità del virus (“andate a fare shopping in Italia, è un ottimo momento", si erano sentiti dire i cittadini serbi nel febbraio 2020) all’annuncio della vittoria della Serbia contro la pandemia, passando per l’introduzione di misure severissime con lunghi periodi di coprifuoco.
Il risultato è non solo che la campagna di vaccinazione potrebbe aver già raggiunto tutti i cittadini interessati (con dunque il rischio di fermarsi ben al di sotto della soglia del 60-70% necessaria per l'immunità di gregge), ma che il numero dei contagi e delle vittime rimane alto, con una media di 40 morti al giorno nelle ultime settimane e una percentuale di tamponi positivi che viaggia tra il 20% e il 30%. Dall’inizio della pandemia, questo paese di circa 7 milioni di abitanti ha registrato più di 5.500 morti per coronavirus e quasi 630.000 casi confermati. Attualmente quasi 8.000 persone sono in ospedale e 267 attaccate ad un respiratore.