E' una delle tragedie dimenticate del XXmo secolo. Nel decennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale centinaia di migliaia di tedeschi vennero espulsi da Jugoslavia, Ungheria e Romania. Un reportage
(Pubblicato originariamente da Courrier des Balkans e Mediapart il 28 agosto 2017)
Il villaggio di Gakovo si trova nella ricca piana agricola della Voivodina, nel nord della Serbia, ad una decina di chilometri con la frontiera con la Croazia e l'Ungheria. In questo inizio estate siamo in piena mietitura, qualche ragazzo dalla corporatura imponente sta facendo una pausa al bar, parlando di mais e frumento. Alcuni adolescenti allenano la loro pigrizia nel caldo torrido. Gli attuali abitanti di Gakovo sono originari del Montenegro e delle aree aride e montagnose della Kraijna croata e vi si sono trasferiti dopo la Seconda guerra mondiale. In passato però il villaggio era quasi interamente popolato da tedeschi del Danubio, i cosiddetti Donauschwäben.
Di loro non rimangono che le grandi case allineate lungo la strada principale e le tombe assediate dalle erbacce nel cimitero all'ingresso del paese. Le steli, in pietra, in alcuni casi danneggiate, hanno una croce cattolica e riportano nomi tedeschi ormai dimenticati da tutti.
Tra il 1945 e il 1948 Gakovo, come molti altri villaggi della Voivodina, venne trasformato in campo di concentramento. L'intera popolazione tedesca venne obbligata ai lavori forzati, i più deboli morirono di spossamento e di malattie.
Hans Supritz, attualmente direttore del Consiglio nazionale dei tedeschi del Danubio, con sede a Ulm, è nato nel 1939 a Bačka Palanka, una cittadina nel sud della provincia autonoma. Si ricorda ancora dell'”autunno sanguinoso” del 1944, quando i partigiani di Tito, appoggiati da alcuni distaccamenti dell'Armata rossa, hanno sfondato il fronte del Danubio nella battaglia di Batajnica, sulla riva croata del fiume, hanno liberato la Voivodina ed hanno intrapreso una caccia sistematica ai collaborazionisti, reali o supposti, del nazismo. “Ho visto persone ammazzate per strada, spesso erano intellettuali, notabili, quadri della comunità. Poi, un mattino, sono venuti a casa nostra. Abbiamo dovuto raccogliere i nostri bagagli in mezz'ora e ci hanno portati al campo di Bački Jarak”.
La “Ballata del campo di Sombor” (Somborer Lagerlied) ha mantenuto il ricordo di questa tragedia: “Vicino a Sombor/ Nella periferia della città/ Vi sono delle baracche/ Qualcuno le ha viste?/ Andateci facendo silenzio/ O meglio, girateci attorno/ In modo che Rajko non vi veda/ Il mattino all'alba/ Ci cacciano dal letto/ Di tavolato di legno/ Le pulci si divertono/ E anche le cimici ed i pidocchi/ Non c'è niente di nuovo/ Da quando siamo in questo campo...”
Mesi e anni che sembrarono non finire mai sino a quando, i sopravvissuti, vennero autorizzati ad andarsene in esilio. Se ne andarono in Germania, Austria e, più lontano ancora, negli Stati uniti.
540mila tedeschi vivevano in Jugoslavia alla vigilia della guerra, principalmente in Voivodina, ma anche nella vicina Slavonia croata: dopo la conquista da parte delle forze dell'Asse nel 1941 queste regioni vennero suddivise tra lo stato fantoccio croato e le zone d'occupazione tedesca e ungherese della Serbia. Quasi la metà dei Donauschwäben sono stati evacuati verso l'Austria e Germania proprio mentre si disponevano sul campo il regime ustascia in Croazia e le forze occupanti in Serbia. 200mila di loro si trovavano ancora nelle zone liberate dai partigiani a partire dall'ottobre 1944.
Secondo le stime più alte, fornite dall'Istituto per la cultura dei tedeschi del Danubio (Donauschwäbische Kulturstiftung) sarebbero state 45mila le persone ad aver trovato la morte nei campi di internamento tra il 1944 ed il 1948 e nel paese non restavano che qualche migliaia di tedeschi negli anni '50. La sorte dei loro vicini del Banato di Timisoara non fu migliore. Data la debolezza della resistenza comunista in Romania furono i soldati sovietici ad effettuare “l'epurazione” della regione: la popolazione tedesca venne deportata massicciamente verso le regioni industriali del Donbass, in Ucraina e anche in Siberia.
“Mio padre faceva parte del consiglio comunale di Bačka Palanka, sotto l'occupazione ungherese, durante la guerra, ma era anche bottaio, ed è questa sua competenza che gli ha permesso di farci uscire dai campi: i russi avevano bisogno dei suoi servizi”, continua Hans Supritz che riuscì ad andare a scuola, con lezioni tenute in lingua ungherese, prima a Bačka Palanka e poi a Novi Sad, capoluogo della Voivodina. “Ci ha spesso detto che degli amici serbi, membri dei partigiani, ci avevano protetti”. Del resto, ripeteva con insistenza che “non sono stati commessi crimini da parte di tutti i partigiani, ma piuttosto dai combattenti della venticinquesima ora, dai profittatori che si vedono apparire, sempre, solo alla fine delle guerre”. La sua famiglia ha intrapreso la strada dell'esilio solo nel 1954, prima in Austria e poi in Germania, ad Ulm, dove si sono ritrovati molti Donauschwäben.
Ancor oggi, interi quartieri di questa città del Baden-Württemberg sono abitati da tedeschi del Danubio, spesso raggruppati a seconda della zona di provenienza. I nuovi arrivati, giunti in pieno “miracolo tedesco” del dopoguerra, non hanno avuto difficoltà ad integrarsi ma hanno mantenuto un forte un legame con le proprie origini: nei canti, nelle danze ed in una cucina dai sapori orientali.
“Mia moglie ha imparato in fretta a fare il goulash. Prima che arrivassimo la gente di qui mangiava solo patate”, scherza Hans Supritz. “Per noi era essenziale stabilirci in riva al Danubio. Tutti i miei antenati si sono guadagnati da vivere come pescatori. C'è un po' del nostro sangue che scorre con il fiume”. Hans Supritz è trilingue e mastica bene, oltre al tedesco, anche l'ungherese e il serbo. Ha mantenuto stretti legami con la Jugoslavia tanto da frequentare i Club di amicizia jugoslava, che riunivano i lavoratori immigrati in Germania negli anni '60 e '70.
Una regione multiculturale
Dal 2000, la città di Ulm ospita un ampio museo dei tedeschi del Danubio, ospitato nel centro storico della città. E' proprio da qui che partirono i primi coloni. Il trattato di Karlowitz (1699) ha segnato una pausa nell'interminabile guerra tra l'Austria e l'Impero ottomano, con gli Asburgo che avevano la necessità di ripopolare le regioni danubiane che erano state loro assegnate, ormai rimaste quasi deserte dopo essere state devastate dal passaggio dei vari eserciti.
“Emissari austriaci hanno visitato la regione di Baden ma anche la Baviera, l'Alsazia, la Lorena, invitando la gente a partire, promettendo che sarebbero state assegnate loro delle terre, che non avrebbero più pagato le tasse e non sarebbero stati richiamati per delle guerre”, spiega Christian Glass, direttore del museo. I coloni si raggrupparono a Ulm, con i loro pochi beni e con qualche capo di bestiame e ridiscesero il fiume su delle zattere. Alcuni si fermarono in Ungheria, presso Kecskemet o nel Banato, presso Timișoara, altri arrivarono in Slavonia e nella Bačka.
“Al loro arrivo – continua lo storico – si assegnarono loro parti di terra in città da costruire, segnate solo sulla carta. Dovevano costruire le loro case secondo un piano strettamente stabilito. La colonizzazione era ben organizzata: si faceva in modo che ciascuna città avesse il suo fabbro, il suo panettiere e, ovvio, un prete, perché erano tutti cattolici”. I primi coloni vennero presto raggiunti da altri, per tutto il corso del XVIIImo secolo e provenienti da tutti i confini della “Monarchia imperiale e reale”: ungheresi, cechi, slovacchi, ruteni, che andarono a formare pian piano quel puzzle etnico che caratterizza, ancor oggi, la Voivodina.
“I tedeschi del Danubio hanno portato nuove tecniche agricole e nell'allevamento, come ad esempio l'arte di salare ed affumicare la carne e il pesce per poterla conservare. Hanno anche scavato il grande canale della Bačka, che ha permesso di irrigare le terre e far diminuire la malaria. Si è detto che per la prima generazione di coloni non vi fu altro che un appuntamento con la morte, per la seconda, con il duro lavoro e per la terza, con il pane”, racconta Anton Beck, che presiede l'associazione umanitaria Sankt Gerhard e il Consiglio nazionale dei tedeschi di Serbia, organo ufficiale di rappresentanza della minoranza.
L'associazione Sankt Gerhard è finanziata dallo stato del Baden-Württemberg ed ha a disposizione un'ampia sede a Sombor, nel nord della Voivodina. Come obiettivo ha quello di preservare le tradizioni culturali della comunità, fornire corsi di lingua, organizzare mostre e distribuisce ogni anno a Natale un migliaio di pacchi alimentari agli anziani di origine tedesca che vivono ancora nella regione.
Se la Voivodina e la vicina Slavonia sono rimaste sotto l'Austria-Ungheria sino al 1918, prima di essere aggregate alla prima Jugoslavia, questi territori sono stati presto sconvolti dai venti dei nazionalismi: serbo e croato ma anche ungherese e tedesco. “Ciononostante la nostra regione è rimasta profondamente multiculturale”, assicura Anton Beck. “A Sombor parliamo tutti almeno tre lingue, il tedesco, l'ungherese e il serbo. Se qualcuno vi rivolge la parola in una delle tre lingue, è gentilezza rispondere in quella lingua”.
Tra la Prima e la Seconda guerra mondiale la Kulturbund, associazione culturale tedesca, promuoveva associazioni e gruppi sportivi anche nei villaggi più piccoli. Avendo poca fiducia nei confronti del nuovo potere monarchico e ostile alla tendenza centralizzatrice di Belgrado la comunità tedesca di Jugoslavia fu molto sensibile alla propaganda hitleriana. Salutarono spesso con gioia l'arrivo delle truppe naziste anche se nella maggior parte dei casi le regioni in cui vivevano vennero accorpate nella zona d'occupazione ungherese.
Vi è stata anche, tra le fila dei tedeschi del Danubio, una resistenza anti-nazista, che resta però poco conosciuta. Ad Apatin, sulla riva serba del Danubio, il prete cattolico Adam Berenc ha stampato, dal 1936, un settimanale dal titolo “Il Danubio” (Die Donau) sulle cui pagine ci si opponeva chiaramente alla linea del Kulturbund diretto da Sepp Janko, vicino ai nazisti. “Era un settimanale con grande influenza e di cui si stampavano sino a seimila copie” spiega lo storico locale Boris Mašić. “I tedeschi della Bačka erano in realtà molto divisi sul nazismo”. Padre Berenc venne arrestato nel 1944 ed internato assieme agli ebrei nel campo di Bačka Topola. Ebbe salva la vita grazie alla protezione del clero ungherese. Venne assegnato alla parrocchia della cittadina di Kalocsa, Ungheria, dove morì nel 1968, senza mai aver potuto rimettere piede in Jugoslavia. Dopo la guerra tentò, senza gran successo, di smuovere l'opinione pubblica internazionale sui campi d'internamento nei quali si trovavano i tedeschi, denunciando l'idea che si potesse procedere in base ad una presunta colpa collettiva nella collaborazione con il nazismo.
Un approccio che non poteva essere tollerato nella Jugoslavia di Tito, intento ad imporre la sua legittimità a seguito della resistenza vittoriosa contro l'occupante e deciso a regolare, una volta per tutte, la “questione tedesca”.
Le case dei Donauschwäben vennero presto assegnate a nuovi coloni serbi provenienti dalle regioni povere della Bosnia Erzegovina, della Croazia o del Montenegro. Mane è cresciuto in una di queste comunità. 21 anni, lavora presso l'associazione Sankt Gerhard. Parla perfettamente il tedesco anche se è nato in una famiglia serba originaria della Kraijna croata. “Ho imparato il tedesco guardando la televisione. I miei genitori mi avevano raccontato che in passato una comunità tedesca viveva qui, ma che era passato molto tempo. La mia generazione è stata segnata di più dai conflitti degli anni '90. Sono cresciuto con cugini che erano rifugiati, serbi cacciati dalla Croazia che hanno trovato accoglienza in Voivodina”.
Anton Beck è nato a Sombor nel 1950, padre tedesco, madre ungherese. La sua famiglia non è emigrata ma ha nascosto a lungo la sua identità. “Sono andato alla scuola ungherese, perché gli ungheresi erano percepiti un po' meglio dei tedeschi nella nuova Jugoslavia. I miei genitori, tra loro, parlavano tedesco, ma smettevano quando noi figli eravamo vicini. Ho a lungo creduto di essere ungherese e sono stato più consapevole delle mie origini solo da adolescente”.
Nonostante la Provincia autonoma di Voivodina, durante il socialismo, veniva glorificata per la sua multiculturalità – con le sue sei lingue ufficiali utilizzate e le 30 comunità ufficialmente registrate – le poche migliaia di tedeschi rimasti erano sempre tenuti sotto osservazione. Anton Beck ha dovuto attendere il 1999 per registrare ufficialmente l'associazione Sankt Gerhard. “I miei genitori non hanno mai capito perché lo facessi. Per mia madre, ancora in vita, era meglio continuare a tacere le nostre origini tedesche”.
Da qualche anno, nel cimitero di Gakovo, si innalza un monumento molto sobrio, con una croce. Ricorda i civili internati e poi morti nel villaggio. In maggio un nuovo monumento è stato eretto nel luogo dove si trovava il campo di Bački Jarak. E' stato inaugurato alla presenza della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente serbo Aleksandar Vučić.
Hans Supritz si è molto battuto affinché la memoria di questi luoghi venisse rispettata ma vorrebbe andare anche oltre: “Appartengo all'ultima generazione che ha conosciuto i campi. Siamo i soli a poter guardare negli occhi i serbi e perdonarli, e dire loro che non devono portare più il peso di una responsabilità collettiva”.
Supritz, ormai anziano, si reca più volte all'anno in Voivodina e spesso fa lobbying per la provincia presso le aziende tedesche o le istituzioni europee. “E' il nostro paese, appartengo per sangue e per anima a questa terra. Noi, i tedeschi del Danubio, potremmo essere un ponte, un collegamento tra i Balcani ed il resto d'Europa”.
Anton Beck è meno ottimista. A suo avviso la comunità è “biologicamente” destinata a scomparire dalla Serbia nei prossimi anni. L'associazione Sankt Gerhard, ciononostante, è estremamente attiva ma è frequentata soprattutto da serbi di Sombor, di tutte le età, che partecipano alle sue attività per imparare il tedesco e partire, a loro volta, verso l'Austria o la Germania, alla ricerca di migliori condizioni di vita.