Ivan Čolović

Ivan Čolović

Identità, politica, nazionalismo in Serbia: a colloquio con Ivan Čolović, antropologo di fama internazionale e autore di numerose pubblicazioni tra cui il recente “Smrt na Kosovu Polju” (Morte a Kosovo Polje)

13/07/2017 -  Bojan Munjin

(Originariamente pubblicato dal portale Novosti )

Una delle sue nozioni chiave, relative al concetto di cultura politica, è “terrore dell’identità”. Come si manifesta questo terrore al giorno d’oggi, quando assistiamo ad un’ascesa del populismo non solo nei Balcani, ma in tutto il mondo?

Per quello che vedo, siamo ancora bersaglio di questo terrore, ovvero di un’imposizione violenta dell’identità nazionale e religiosa come divinità che tutti devono venerare incondizionatamente. Nel nome di questa divinità da noi, così come in molti altri paesi, ancora oggi si governano le persone, quello che pensano e in cui credono, e persino quello che possiedono. Anche il populismo viene usato, almeno da noi, come una strategia per convincere il popolo che esso dipende vitalmente dall’identità, che deve essere felice perché non lo si nutre di pane, ma di identità. In altre parole, l’odierno populismo postcomunista non è altro che un nazionalismo di massa, un nazionalismo popolare.

Non bisogna dimenticare che il nazionalismo è un’ideologia elitaria e che nella sua forma originaria è lontano dal popolo. Ora anche il popolo ascolta quotidianamente una favola sull’identità ad esso adattata, scoprendo di essere il suo creatore e che quella favola appartiene alla letteratura popolare. Del resto, questo vale anche per altre ideologie, compreso il comunismo. Ma noi oggi non abbiamo un comunismo di stampo populista, vi è solo qualche traccia di un comunismo d’élite, come quello professato, ad esempio, da piccoli gruppi studenteschi.

D’altra parte, è opinione diffusa che viviamo in un’epoca post-ideologica in cui i confini tra culture, popoli e stati stanno scomparendo. Come allora distinguere i veri valori dai prodotti futili di una cultura di massa globale?

Non so se da qualche parte sia giunta un’era post-ideologica, non riesco a immaginare una politica priva di presupposti ideologici. Può darsi che tali presupposti stiano cambiando, che oggi siano meno visibili ed espliciti, ma in ogni caso noi da questa parte del mondo non viviamo ancora in un’epoca post-ideologica. Per quanto riguarda la cultura globale, non sono un sostenitore della tesi che essa sia estranea ai veri valori. Piuttosto, ho l’impressione che nello spazio culturale globale o transnazionale stiano nascendo opere di straordinaria qualità.

In che misura è possibile – in un tempo come quello attuale, in cui prevalgono forme meno costose e più immediate di comunicazione e divertimento di massa – accedere “effettivamente” al sapere, alla cultura e all’arte?

I valori della cultura classica e moderna non devono necessariamente essere minacciati dallo sviluppo tecnologico, al contrario, possono essere riconfermati, conquistando un nuovo pubblico e un nuovo posto nel mondo. Recentemente leggevo un libro di Murakami, “Kafka sulla spiaggia”, in cui vengono menzionate alcune opere di Beethoven e Haydn. Quando ho provato a cercarle su Youtube, mi sono imbattuto nei commenti di persone che hanno fatto la stessa cosa, molte delle quali spinte dal libro di Murakami. Quindi, il desiderio di ascoltare un’opera di musica classica può essere suscitato da uno scrittore giapponese di fama mondiale, e il modo più facile e veloce per soddisfarlo è tramite Internet.

Oggi la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica è messa in discussione a vari livelli: la mobilitazione sociale e politica è guidata da dirigenti aziendali, datori di lavoro e politici che non fanno altro che maneggiare i rapporti tra affari pubblici e capitale. Come trovare una via d’uscita da quella che Boris Buden chiama un’apatia sociale?

Sì, è opinione diffusa che la politica non è per buona gente, che l’individuo, soprattutto se onesto, non può cambiare nulla. Tuttavia, non sottovaluterei l’impegno della società civile, il quale, a giudicare da quanto avviene in Serbia e Croazia, non è sottovalutato neanche dalla leadership al potere. Ciò si evince anche dal fatto che i governi di questi due paesi incoraggiano la creazione di false organizzazioni non governative, con l’intento di dimostrare che la società civile è spaccata, ma innanzitutto per poter affidare il compito di sabotare le azioni della società civile e varie manifestazioni di resistenza civica a queste false organizzazioni, piuttosto che alla polizia e all’esercito. Quanto all’apatia sociale, essa non è un fenomeno nuovo. La sua domanda mi ha fatto venire in mente una satira di André Gide, “Paludi”, il cui tema principale, come suggerisce lo stesso titolo, è proprio questo tipo di apatia. Pubblicato sul finire dell’Ottocento, il libro offre una rappresentazione ironica di una società apatica e apolitica come quella francese dell’epoca.

Le probabilità del rinnovarsi di una sinistra umanista, civica e tollerante sembrano più scarse che mai. Riesce a immaginare che una rigenerazione di tali valori avvenga in un prossimo futuro, ad esempio tra vent’anni?

Sono d’accordo, neanch’io scommetterei che assisteremo presto a un tale rinnovo. Ma posso immaginare che una cosa simile avvenga tra due decenni, e desidero che avvenga, anche se probabilmente non avrò la possibilità di festeggiarlo con voi più giovani.

Come spiega il fatto che Aleksandar Vučić e il suo partito da anni godono di un forte sostegno da parte dell’elettorato? Dove si colloca la Serbia nel quadro dell’attuale realtà sociale e politica?

Grazie alle sue apparizioni quotidiane sui media, Vučić è riuscito a convincere un gran numero di cittadini di essere l’uomo politico più potente del paese, dimostrando di avere tutto il potere nelle proprie mani. Non vi è nessuno in vista che potrebbe essere così forte: i suoi principali avversari non si sognano nemmeno di presentarsi come soggetti capaci di prendere il potere, di governare il paese come un autorevole maestro di classe. Offrono divisione dei poteri, democrazia, departizzazione e cose simili, e l’opinione pubblica lo interpreta come un segno di debolezza. Non vorrei giudicare gli elettori serbi, perché qui non abbiamo ancora percepito i vantaggi di una vera democrazia, siamo ancora diffidenti nei suoi confronti e continuiamo a fidarci degli uomini forti, come lo erano Pašić, Tito, Milošević...

Come spiega, dal punto di vista culturologico, il collasso delle forze democratiche che furono al potere dal 5 ottobre 2000 fino alle elezioni del 2012, quando il SNS di Aleksandar Vučić si è imposto alla guida del paese?

L’arco di tempo che va dal 5 ottobre 2000 all’arrivo del SNS al potere lo dividerei in due periodi. Il primo vide l’avvio della costruzione di una Serbia democratica e civica, e si concluse con l’omicidio di Zoran Đinđić, mentre nel secondo i suoi successori cominciarono ad avvicinarsi a quelli di Milošević, cercando di convincerci che anche a questi ultimi spettava un posto nella scena politica della Serbia democratica. Ma i successori di Milošević non si accontentarono di un posto qualsiasi , tornando invece ben presto a occupare quello che avevano in precedenza. Come è noto, non esitarono a riprendere dai successori di Đinđić la cosiddetta agenda europea, rendendosi conto che essa non impediva loro di continuare a perseguire la politica di Milošević nei confronti del Kosovo né di avvicinarsi ancora di più alla Russia, paese dove trovarono rifugio alcuni dei principali esponenti del regime di Milošević, compresa sua moglie, fondatrice del famigerato partito JUL.

Il suo ultimo libro “Smrt na Kosovu Polju” (Morte a Kosovo Polje) esamina, come lei stesso afferma nella prefazione, le funzioni ideologiche e politiche della memoria della Battaglia di Kosovo Polje. Come si configura l’interpretazione ideologico-politica di questa battaglia nella Serbia odierna?

Si sono verificati alcuni cambiamenti rispetto al periodo in cui Milošević, così come i politici serbi di Bosnia, Croazia e Montenegro, sfruttavano la memoria della Battaglia di Kosovo Polje, ovvero il mito politico costruito su questa memoria, ai fini della propria propaganda politica e bellica. Dopo la sconfitta della Serbia nella guerra del Kosovo nel 1999, vi è stato un abbassamento del valore del mito del Kosovo sul mercato politico. Alcuni politici hanno tentato di porre rimedio a tale stato di cose e di mantenere vivo questo mito. Una delle mosse compiute in tal senso è stata la decisione dei vertici politici della Serbia e della Republika Srpska di organizzare, il 28 giugno 2014, la celebrazione di Vidovdan [il giorno di San Vito] a Višegrad, ovvero nel complesso memoriale costruito da Emir Kusturica e denominato Andrićgrad. Così, come ho scritto anche nel libro, Gazimestan si è trasferito in Bosnia.

Ad essere spesso menzionata, come uno dei simboli del mito del Kosovo, è anche la “Serbia celeste”...

Il cambiamento principale avvenuto negli ultimi anni consiste nel fatto che alcuni politici, tra i più prominenti, prendono dichiaratamente le distanze dal mito del Kosovo e dalla “Serbia celeste”. Così nel 2013 Ivica Dačić diceva che il governo da lui guidato aveva ricevuto il mandato di occuparsi della Serbia terrestre, e non di quella celeste. Recentemente lo ha ripetuto anche Aleksandar Vučić, dicendo di voler liberarsi dall’approccio mitico al Kosovo e avviare su di esso un dialogo privo di pregiudizi. Tuttavia, che non lo si debba prendere sul serio, lo dice il fatto che ha subito aggiunto che tale dialogo demitologizzato deve rimanere entro i limiti costituzionali, e la costituzione contiene il ben noto preambolo nel quale si afferma che il Kosovo è parte integrante della Serbia. Un’affermazione che si fonda esclusivamente sul mito. Inoltre, il testo del giuramento prestato da Vučić come neopresidente della Repubblica prescrive che il suo primo compito è quello di mantenere il Kosovo entro i confini della Serbia. Come questo sarà possibile senza un approccio mitico, resta da vedere.

Spesso nei suoi libri sottopone ad analisi critica il nazionalismo, la meschinità e la coscienza primitiva. Esiste qualcosa che potrebbe essere chiamato un mito positivo?

Di questo si discute da tempo tra gli studiosi dei miti politici. Gli uni, solitamente chiamati funzionalisti, pensano che i miti siano inseparabili dalla politica, che non vi sia politica senza miti e che essi possano essere messi al servizio anche di una politica democratica e liberale. Gli altri, alla cui posizione mi sento più vicino, ritengono che l’appoggiarsi ai miti escluda la coscienza critica e la libertà di scelta, che l’accettazione dei miti non sia questione di libera volontà, bensì di imposizione sotto minaccia di sanzioni.

Quale potrebbe essere un’alternativa all’insistenza sull’identità nazionale, che in Serbia continua ad essere usata come una potente leva per mobilitare emozioni e azioni di ampi strati della popolazione? In altre parole, come rendere possibile una rigenerazione positiva del capitale umano e della società nella sua interezza?

Mi sento vicino all’idea secondo cui l’alternativa ad una società pensata come una comunità identitaria, ovvero come una sorta di collettivo etnico, che sia organico o spirituale, è rappresentata da una comunità politica che viene mantenuta in vita dalla reciproca solidarietà tra i cittadini e dal rispetto delle leggi, ovvero da quello che i padri fondatori di tali comunità chiamavano patto sociale. Per una Serbia avviata su tale strada in passato si sono battuti molti intellettuali e politici, ma fino ad oggi essa è rimasta solo un’alternativa, un potenziale e un’opportunità non sfruttati.

La sua casa editrice "Biblioteca XX secolo" persiste tenacemente, malgrado le molte tentazioni e difficoltà, passate e attuali. Volendo riassumere questa esperienza editoriale lunga 46 anni, quali ritiene siano i suoi principali meriti?

Per me la cosa più importante è che anche dopo la scomparsa della Jugoslavia la biblioteca è riuscita a mantenere il suo carattere transnazionale, ovvero i suoi autori e lettori provenienti da tutta la regione. Essa è tutt’oggi una sorta di fucina postjugoslava per la produzione del sapere nel campo delle scienze umanistiche e sociali. Lo conferma il nostro catalogo nonché gli inviti a presentare alcune pubblicazioni o l’intera biblioteca ricevuti da diversi centri culturali della regione. Recentemente abbiamo tenuto una presentazione a Brčko, su invito del Forum democratico di Brčko, e un’altra a Zagabria, nell’ambito della quarta edizione del festival della storia "Kliofest".