"Penso che da noi non ci sia alcuna consapevolezza rispetto alle grandi responsabilità che comporta la professione giornalistica". In quest'intervista Tamara Skrozza ci fornisce uno sguardo lucido e drammatico sul giornalismo in Serbia
(Originariamente pubblicato sul quotidiano Danas , il 27 dicembre 2022)
Recentemente hai vinto il premio regionale “Srđan Aleksić” per il coraggio e l’eccellenza nel giornalismo. È solo l’ultimo di una lunga lista di riconoscimenti che hai ricevuto grazie al tuo tenace e coerente impegno giornalistico e civile. Cosa avresti fatto se fossi stata al posto di Srđan Aleksić che nel gennaio del 1993 nel centro di Trebinje fu picchiato a morte dai membri dell’Esercito della Republika Srpska solo perché aveva cercato di difendere un suo concittadino e amico, Alen Glavović, di nazionalità bosgnacca?
Vorrei poter affermare, senza pensarci un attimo, che al posto di Srđan Aleksić avrei fatto lo stesso, che avrei dato la propria vita per gli altri, ma davvero non so come mi sarei comportata in tali circostanze, perché credo che parliamo di una di quelle situazioni limite in cui l’individuo reagisce in modo del tutto inaspettato, lasciando prorompere qualcosa che nemmeno sapeva esistesse dentro di lui, giungendo così a conoscere effettivamente se stesso. Ripeto, vorrei poter dire che avrei agito come Srđan. Ad ogni modo, non mi sarei comportata in modo ignobile e vigliacco, ne sono certa.
Ti consideri una persona coraggiosa in questi tempi assurdi?
Se per coraggio si intendono le gesta come quelle di “Marija na Prkosima” [il riferimento è a Marija Bursać, partigiana, la prima donna ad essere proclamata eroina nazionale della Jugoslavia; morì nel 1943 per le ferite riportate durante un attacco alla base tedesca nei pressi del villaggio di Prkosi, nel nord est della Bosnia] o il lancio di coperte contro i carri armati – cose che abbiamo studiato alle elementari - allora non credo di essere coraggiosa. Dai tempi in cui ci venivano raccontate queste storie partigiane ho ripensato il concetto di coraggio. Penso che oggi il coraggio non possa essere equiparato all’assenza di paura, perché non avere paura sarebbe una follia. Il coraggio è quando, pur provando una paura razionale, vai avanti. In questo senso mi considero una persona coraggiosa, così come considero coraggiosi i colleghi con cui lavoro, che stimo e amo.
Come vivono oggi i giornalisti in Serbia? Mi riferisco ai giornalisti che hanno a cuore la loro professione, di certo non a quelli che creano le prime pagine in spregio di tutte le regole deontologiche, né tanto meno a quelli che scrivono pezzi che dovrebbero essere oggetto di indagini della procura. Per non parlare di quelli che ricorrono a titoli clickbait…
Nel corso della mia carriera ho sentito parlare solo di due giornalisti [serbi] che sono riusciti a guadagnare cospicue somme di denaro facendo il loro lavoro. Quasi tutti i giornalisti che conosco conducono una vita modesta e semplice, lavorano molto e guadagnano poco, e di solito fanno più lavori contemporaneamente.
Quindi, a differenza dei giornalisti in alcune altre parti del mondo, che sono apprezzati dalla società e guadagnano bene, in Serbia i giornalisti godono di scarsa stima e vengono denigrati pubblicamente. Non ci si fida di noi per colpa di quelle persone che hai menzionato prima, persone che pubblicano i titoli clickbait e violano le regole deontologiche. Siamo in un certo senso discriminati nello spazio pubblico a causa di una minoranza – continuo a credere che si tratti di una minoranza – che sta compromettendo la reputazione della nostra professione.
Spero che la situazione cambierà e che anche noi vivremo come i nostri colleghi in alcune parti più civilizzate del mondo, più civilizzate ovviamente dal punto di vista della libertà di espressione e del rispetto nella società. Penso che il nostro mestiere richieda enormi sacrifici e che questi sacrifici – per quanto l’espressione possa sembrare inopportuna – debbano in qualche modo essere ricompensati.
Perché se non puoi avere una vita privata, se non hai nemmeno un giorno libero né alcuna sicurezza e certezza, se sei continuamente sottoposto al giudizio del pubblico, agli attacchi e insulti, e poi alla fine della giornata guadagni due spicci, giusto per poter sopravvivere, è una situazione davvero difficile da sopportare, semplicemente lascia un segno in chi la subisce.
Nella professione giornalistica esistono sostanziali differenze tra uomo e donna?
La vita delle giornaliste è diversa da quella dei giornalisti, su questo non vi è alcun dubbio! Le giornaliste sacrificano la loro vita privata in misura maggiore rispetto agli uomini. Cito un esempio che forse può sembrare irrilevante, ma illustra bene la situazione.
Una donna che decide di avere un figlio deve mettere in stand by la propria carriera per uno o due anni, poi deve sempre in qualche modo frenarla perché, secondo la divisione dei ruoli imposta dalla società patriarcale in cui viviamo, è alle donne che spetta prendersi cura dei figli. I giornalisti invece non sono costretti a fare tali sacrifici. Ci sono molti giornalisti che hanno più figli, mentre sono pochissime le giornaliste con due figli. In realtà, la maggior parte delle giornaliste non ha figli.
Ovviamente, non sono tra quelli che ritengono che una donna debba per forza avere figli. Però se una giornalista sceglie di avere figli non solo non gode degli stessi diritti degli uomini, ma si ritrova in una posizione di maggiore svantaggio rispetto alla maggior parte delle donne che esercitano altre professioni. Inoltre, le giornaliste sono maggiormente esposte a insulti, intimidazioni e atti diffamatori rispetto ai loro colleghi maschi.
In parole povere, le donne vengono trattate, e insultate, in modo diverso. Le giornaliste sono discriminate anche nelle redazioni ad esempio quando rimangono incinte – torniamo nuovamente alla questione della maternità – , quando invecchiano e ingrassano, quando non soddisfano più un immaginario standard ideale. Gli uomini invece non subiscono simili discriminazioni.
Quindi, le giornaliste, oltre a dover sopportare tutto quello che sopportano anche i loro colleghi maschi, devono fare i conti con le difficoltà che incontrano tutte le donne nella società serba. Purtroppo, molte giornaliste, una volta raggiunta una certa età, cambiano professione, per cui oggi in Serbia ci sono poche giornaliste in età matura.
Ad esempio, quando durante un corso di formazione si chiede ai partecipanti di indicare i nomi di cinque giornalisti di età superiore ai 60 anni, fanno a gara nel citare il maggior numero possibile di nomi. Quando invece si chiede loro di citare i nomi delle giornaliste di quella stessa età, fanno fatica a richiamare alla mente anche un solo nome.
Una ventina di anni fa una collega mi fece notare che, mentre un giornalista quando compiva sessant’anni veniva considerato “un bardo del giornalismo”, una giornalista di quella età veniva percepita come “una nonna”. Ho l’impressione che nel frattempo quel limite di età sia stato addirittura abbassato, cosa che personalmente non mi spaventa, ma comunque la considero una disuguaglianza.
Le giornaliste devono fare maggiori sacrifici rispetto ai colleghi maschi, senza però ricevere una ricompensa maggiore. Chiunque si rechi in una redazione può constatare che esiste una disparità tra uomini e donne e che per le donne fare giornalismo è molto più difficile. Sarebbe auspicabile raggiungere la parità di genere nella professione giornalistica, perché il contributo delle donne al giornalismo è di pari importanza a quello degli uomini. Purtroppo in Serbia, come anche nel resto del mondo, non c’è ancora uguaglianza di genere.
Pensi che in Serbia si sia pienamente consapevoli di quanto grande sia la responsabilità del giornalismo, ma anche dei danni prodotti da un’enorme macchina mediatica, perlopiù controllata [dal regime], che manipola fatti, bugie, dati relativi a palesi atti criminali, odio, xenofobia, misoginia, contribuendo così a mantenere in Serbia un’atmosfera pervasa da miasmi della palude e di un interminabile reality show in cui si intrecciano politica e spettacolo?
Penso che da noi non ci sia alcuna consapevolezza rispetto alle grandi responsabilità che comporta la professione giornalistica, ma anche rispetto al potere dei media. Essendo di solito sottopagati e scarsamente tutelati dai datori di lavoro, e in più discriminati nella società, col tempo i giornalisti tendono a perdere di vista la vera portata dell’influenza che esercitano.
Ad esempio, i giornalisti spesso non sono consapevoli del fatto di poter distruggere la vita di una persona. Questo fatto è venuto a galla durante i colloqui con alcuni giornalisti sul campo ed emerge chiaramente anche da alcuni servizi giornalistici.
Quindi, i giornalisti, come anche la società nel suo complesso, non sono pienamente consapevoli di quanto grande sia il potere dei media, ma anche la capacità delle élite politiche di manipolare i media e di servirsi di essi per varie strumentalizzazioni. Manca però anche la consapevolezza del fatto che i media – mi riferisco ovviamente ai media molti grandi e potenti, che in Serbia non esistono – possono a loro volta manipolare la politica e i politici.
In Serbia il livello di educazione ai media è molto basso, e una persona, per poter comprendere il fenomeno del potere mediatico, deve possedere almeno le competenze digitali di base.
Concordo sul fatto che i media serbi mantengano viva l’atmosfera della palude e di un costante reality tra politica e intrattenimento, ma è tutto ciò che fanno – la mantengono viva. Perché è nella società che avvengono le manipolazioni: si manipolano i fatti, le bugie, tutte le possibili forme di discriminazione, come hai accennato prima, e nei media tutto questo viene a galla.
Quindi, i media sono lo specchio della nostra società. Non possono essere molto migliori della società. I media sono sempre e ovunque uno specchio. Certo, possono contenere alcuni elementi all’avanguardia, soprattutto in ambito educativo, ma i giornalisti, nella maggior parte dei casi, rispecchiano fedelmente la società.
In un paese, come la Serbia, senza istituzioni, ufficialmente classificato come “captured state”, dove ogni cosa dipende da un solo uomo, un uomo che decide della sorte dell’intera popolazione e noi, ad ogni tornata elettorale, lo accettiamo; un paese dove la gente si vende per due spicci e pochi benefici, dove l’uomo è lupo per l’uomo – ecco, in un paese come questo i media non possono essere decenti, riverenti e sofisticati. Non puoi lavorare in una palude continuando a indossare un abito bianco, è impossibile.
Allo stesso tempo, anche i cittadini non sono consapevoli del mondo che li circonda e sembrano attraversare la vita come se fossero ipnotizzati. Non sono consapevoli nemmeno del potere di cui dispongono quando si recano alle urne per votare, né tanto meno sanno quali e quante opzioni abbiano a disposizione per esprimere il proprio malcontento, ad esempio quando si ritrovano impossibilitati a soddisfare alcuni bisogni primari.
Il punto è che ogni ambito della nostra società è pervaso dall’ignoranza e dall’inconsapevolezza rispetto al potere di cui si dispone, e questo vale anche per i media.
Molte persone che lavorano nei media, dai cronisti ai redattori, passando per i portamicrofoni, accettano, evidentemente per motivi molto pragmatici, di essere coinvolte nelle campagne di propaganda e di marketing piegate all’agenda politica del momento. Dov’è il confine tra l’accettazione dell’autocensura e di vari diktat e il rispetto dei principi fondamentali e delle regole deontologiche della professione giornalistica?
Il confine è la nostra dignità! Ormai da tempo non ritengo valido alcun altro confine. Le giustificazioni del tipo: “Ho dei figli, ho un mutuo da pagare, una casa, diversi impegni, i genitori che hanno bisogno di aiuto, vari problemi economici”, non mi convincono più.
Anche noi altri abbiamo dei figli, mutui, debiti, diversi problemi, eppure non calpestiamo i principi professionali per un tornaconto personale. Il problema è che il giornalista che compromette la propria reputazione, compromette anche la reputazione della professione. È per colpa di queste persone che i cittadini non ripongono più fiducia nel giornalismo. Secondo tutti i sondaggi d’opinione, il giornalismo è tra le professioni di cui ci si fida di meno.
Il giornalismo è in crisi in tutto il mondo per via delle persone che si vendono per condiscendere a vari interessi, sia che si tratti di diverse industrie, farmaco-mafia, politica… gli interessi cambiano da una regione all’altra, da un paese all’altro. Credo però che l’unico confine sia quello della dignità.
Certo, ognuno può sbagliare, fare un errore, capita anche ai migliori. Ma se calpesti sistematicamente i principi della professione, danneggi continuamente la società, contribuisci a distruggere certi individui o gruppi sulla base delle loro convinzioni politiche, appartenenza etnica, religione, e così via, tale atteggiamento è assolutamente imperdonabile, ingiustificabile.
A mio avviso, è un atteggiamento equiparabile ad un omicidio, ai peggiori peccati, perché comporta delle conseguenze incommensurabili, conseguenze che vanno osservate proprio nel contesto della mancanza di consapevolezza rispetto al potere dei media. Parliamo di persone, di giornalisti che vendono la propria dignità, impegnandosi attivamente nel distruggere anche gli ultimi rimasugli della nostra società. Sono complici, diretti o indiretti, di tale distruzione.
Immagina che ti venga affidata la formazione di dieci talentuosi ragazzi e ragazze che stanno per intraprendere una carriera giornalistica. Cosa consiglieresti a questi giovani? Daresti qualche consiglio particolare alle future giornaliste?
Ai giovani che si affacciano ad una carriera giornalistica consiglio di riflettere bene, cercando di capire se e quanto amano il giornalismo, se lo amano in misura tale da poter sacrificare per esso quasi tutto, quindi una vita normale, le vacanze d’estate, i momenti di riposo, le amicizie, le relazioni familiari.
Non dico che si debba necessariamente sacrificare tutto questo, non è una regola generale. Ma la domanda da porre è: sei disposto a sacrificare molte cose per questo lavoro? In altre parole, sei disposto ad amare la professione giornalistica così tanto da poter vedere in essa una ricompensa per le esperienze che non riuscirai a vivere? La ami talmente tanto da poter accettare il fatto di dover lavorare ogni giorno, di non poter mai stare tranquillo nemmeno durante le vacanze, di non poter spesso rilassarti veramente a causa dello stress? La ami così tanto? Se la risposta è affermativa, allora il giornalismo è la professione giusta per te.
Se invece non ami particolarmente il giornalismo, bensì vuoi intraprendere questa carriera per arricchirti, per raggiungere la fama o qualche altro obiettivo pragmatico, allora è meglio che tu scelga un altro mestiere, ed è una decisione del tutto legittima, perché non tutti lavori sono adatti a chiunque. Sono profondamente convinta che per poter svolgere il lavoro giornalistico, lo si debba amare ardentemente.
Ovviamente, un giornalista può anche ritrovarsi a lavorare in un contesto che non richiede alcun sacrificio, ma deve essere preparato, sin dall’inizio, alla possibilità di dover fare certi sacrifici. Deve sapere quali interessi persegue e perché svolge questo mestiere, così come deve essere consapevole delle conseguenze che esso comporta. Quindi, ai giovani colleghi e colleghe consiglio di cercare di capire se questo è “l’amore giusto” per loro.
Alle giornaliste in particolare suggerisco di pianificare la propria vita, almeno a breve termine, e di cercare di diventare più forti prima di avventurarsi nella vita pubblica, perché saranno costrette ad affrontare un percorso più spinoso rispetto a quello dei loro colleghi maschi.
Quale lavoro faresti se non fossi una giornalista?
Dopo venticinque anni trascorsi nel mondo del giornalismo, non riesco nemmeno a immaginare di fare un altro lavoro. Davvero non so cosa potrei fare. Ricordo però che, prima di dedicarmi al giornalismo, amavo molto la fotografia e volevo iscrivermi all’Accademia di Praga, un obiettivo purtroppo diventato irraggiungibile a causa delle guerre in ex Jugoslavia. Mi piacevano le fotografie notturne, i contrasti, le immagini in bianco e nero… Quindi, se dovessi fare un altro mestiere, sceglierei la fotografia, o comunque un’attività in cui l’arte si intreccia con i media.
Siamo ancora nel pieno delle feste, quindi non parliamo di Vučić, ma possiamo parlare del presidente. Come ti immagini un presidente “normale” della Serbia? Oppure, perché no, una presidente?
A dire il vero, non mi importa affatto se sia un presidente o una presidente. Per me, come cittadina, è importante che sia una persona che rispetti la costituzione, le leggi, le istituzioni e, innanzitutto, le cittadine e i cittadini di questo paese.
Purtroppo, abbiamo a che fare con una persona [l’attuale presidente] che prima di tutto non rispetta le cittadine e i cittadini, poi non rispetta nemmeno la costituzione e le leggi. Non ho grandi aspettative al riguardo, credo però che il rispetto dei cittadini e delle leggi sia il requisito minimo che un presidente, o una presidente della Serbia, come di qualsiasi altro paese, debba soddisfare.
Quali sono gli scandali che, secondo te, hanno segnato il 2022?
Ogni giorno scoppia un nuovo scandalo, ogni giorno siamo travolti da un nuovo shock, sia che si tratti di informazioni emerse durante i processi penali contro vari gruppi mafiosi o di quelle riguardanti il ruolo ricoperto dai più alti funzionari dello stato all’interno dei clan criminali… ogni giorno scopriamo nuove informazioni… chi siede in vari consigli di amministrazione, chi gestisce diverse attività, chi trattiene rapporti con determinate persone…
È scandaloso anche il fatto che, nel bel mezzo della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, a New York i più alti funzionari serbi si incontrino con il ministro degli Esteri russo, sottoscrivendo vari accordi. Ed è ancora più scandaloso che noi tacciamo, che lo stato serbo taccia di fronte alla guerra in Ucraina.
Quali sono invece i momenti più belli che hai vissuto nel 2022 e che ti rimarranno impressi nella memoria?
Purtroppo, o per fortuna, da anni ormai gli unici momenti belli che vivo sono legati alla mia vita privata, momenti impregnati di bellezza e pace che a volte riesco a conquistare in mezzo a tutta questa follia in cui viviamo. Sono gli unici momenti che contano. Dall’altra parte, tutto ciò che accade nella sfera pubblica non suscita in me alcuna emozione positiva.
In Serbia in un modo o nell’altro si riesce a distruggere tutto, anche le cose positive. Ad esempio, io mi ero sinceramente rallegrata per il successo di Konstrakta, non conoscevo questa artista ed è stata una vera scoperta. Ho guardato con grande piacere i videoclip che aveva registrato prima, ma anche dopo l’Eurosong.
Alcune persone però hanno cercato di relativizzare e screditare il successo di Konstrakta, soprattutto dal punto di vista mediatico, cosa che mi ha infastidito molto. Mi dà fastidio questa tendenza a infangare in continuazione tutto ciò che ci circonda. Ad ogni modo, per me il successo di Konstrakta è una delle cose positive accadute nel 2022 e continuo a tifare per lei.
Come giornalista, a quali domande, ad oggi rimaste aperte, vorresti avere una risposta? Me ne dici almeno tre.
Chi è il mandante politico dell’omicidio di Zoran Đinđić? Chi, come e per quale motivo ha esplicitamente ordinato l’omicidio di Slavko Ćuruvija? Chi è il vero capo della mafia serba?
So che, dopo i fiumi di parole spese discutendo di questi argomenti, le domande di cui sopra possono apparire come “luoghi comuni”. Molti credono di conoscere le risposte alle domande in questione, io però vorrei che queste risposte venissero articolate in modo chiaro e inequivocabile, corroborandole da prove.
Credo che senza ottenere risposte chiare a questi tre interrogativi semplicemente non possiamo diventare una società normale. Oltre a queste questioni, mi interessano molti altri argomenti riguardanti le guerre in ex Jugoslavia, in primis quelli relativi al ruolo di comando di Slobodan Milošević. Penso che ancora oggi sappiamo poco sul suo vero ruolo e, di conseguenza, sul ruolo della Serbia nelle guerre e nei crimini commessi in ex Jugoslavia.
Ritengo che la nostra società debba fare i conti con quanto accaduto in quegli anni, un confronto che, nonostante centinaia di articoli e reportage dedicati a questi temi, continua a mancare.