Religione, politica, nazionalismo. Tre elementi, in questi anni, non esenti da drammatici cortocircuiti. Riceviamo e pubblichiamo un commento su una lettera del Patriarca Pavle letta durante l'omelia del Natale ortodosso
Di Riccardo Masnata
Più che un'omelia natalizia, un manifesto programmatico.
I fedeli che hanno celebrato il Natale ortodosso (7 gennaio) in una chiesa serba hanno ascoltato un messaggio di auguri davvero particolare. E' quello firmato dal patriarca Pavle e rivolto a tutti i cristiani che si riconoscono nella chiesa ortodossa serba, da lui guidata.
Il 2006 sarà un anno fondamentale per la traballante unione serbomontenegrina, perché con ogni probabilità si deciderà sia sull'eventuale indipendenza del Montenegro che sul futuro status del Kosovo. Il rischio avvertito a Belgrado, e che molti analisti ritengono probabile, è di "perdere" sia l'uno che l'altro.
In questo momento delicatissimo e anche drammatico la Chiesa ortodossa serba ha deciso di farsi sentire.
Una doverosa premessa: dopo i decenni di regime comunista più o meno morbido, in cui era rimasta ai margini della vita politica e sociale, immediatamente dopo lo sfaldamento della Jugoslavia, la Chiesa ortodossa ha conquistato un posto da protagonista in Serbia.
I serbi, anche giovani e giovanissimi, hanno (ri)iniziato a frequentare i luoghi di culto: è un fenomeno molto interessante, che - attenzione - appare qualcosa di più concreto di un "trend" passeggero dovuto alla carenza di istituzioni solide in cui credere e al momentaneo vuoto di valori e riferimenti tipico degli incerti periodi post-bellici. Chiaro, quindi, come ogni presa di posizione della chiesa abbia notevole influenza sul turbolento scenario politico balcanico.
Ebbene, lo scorso 7 gennaio in tutte le chiese serbe al momento dell'omelia è stato letto un documento molto importante. Oltre ai tradizionali messaggi di auguri, infatti, il patriarca Pavle ha voluto esprimere il punto di vista della Chiesa ortodossa serba che "non può chiudere gli occhi" di fronte alla situazione attuale.
Si parte naturalmente dal Kosovo e Metohija, definito "dolorosa questione" e "sfida più importante" per la fede cristiana. Il testo va dritto al punto: "Nessuno ha il diritto di cambiare unilateralmente lo status della nostra regione meridionale senza il consenso di tutte le genti che vivono in Serbia e anche, quindi, della gente serba". Cosa si può dire, chiede la chiesa, di un "processo di negoziazione" accompagnato dalla forza?
Gli elementi e gli standard da tenere presente per una decisione giusta, si prosegue, sono la vita, la pace, la libertà, diritti e opportunità uguali per tutti ma anche la conservazione dei santuari ortodossi, il ritorno dei profughi e dei rifugiati e soprattutto la Carta delle Nazioni Unite che, si dice con un sarcasmo insolito in un documento del genere, "per quello che ne sappiamo, nessuno ha ancora dichiarato invalida". Si tratta probabilmente un riferimento indiretto alla risoluzione 1244 dell'Onu che "salva" l'integrità territoriale della repubblica serbomontenegrina, includendovi il Kosovo, e a cui si richiamano sempre anche tutti gli uomini politici serbi.
Il passaggio si chiude invece con un ammonimento molto severo: "status finale" non esiste sulla terra, per niente e per nessuno, e paragonare l'asserita nascita di una nazionalità di Kosovo e Metohija alla nascita di Cristo "non è una frase al servizio del feticismo nazionale albanese ma una vera e propria blasfemia". Parole forti ma sicuramente meditate e che vanno a un indirizzo preciso.
Si passa poi alla Macedonia, altra spina nel fianco per i vertici ortodossi serbi, che devono vedersela con le aspirazioni scismatiche di chi a Skopje vorrebbe istituire una chiesa autonoma da Belgrado. Pavle invita i fedeli a pregare per il rilascio dell'arcivescovo di Ohrid, Jovan, rinchiuso nel carcere di Bitola dal luglio 2005 dopo una condanna a diciotto mesi di detenzione per "istigazione all'odio razziale, nazionale e religioso".
E' questa una vicenda molto torbida, che ha movimentato diverse organizzazioni di diritti umani, impegnate per il rilascio del religioso (per saperne di più http://www.freearchbishop.com) e che ovviamente non fa che acuire la tensione tra la chiesa di Belgrado e le autorità politiche di Skopje, epicentro, secondo Pavle, "dell'ultima persecuzione religiosa in Europa".
Un veloce invito all'unità e alla riconciliazione per chi vive nella Republika Srpska e in Bosnia Erzegovina, i cui fedeli sono esposti ad "amare tentazioni" e poi un esplicito invito alle autorità statali della Croazia. In nome delle proprie prospettive europee Zagabria deve assicurare il ritorno dei serbi espulsi e dei rifugiati e soprattutto assicurare "protezione legale" al clero, ai fedeli e ai luoghi di culto della chiesa ortodossa serba che da tempo sono nuovamente sottoposti a violenze ed attacchi, "specialmente in Dalmazia". Si chiede una legge apposita, insomma, per frenare una situazione che sta facendosi sempre più preoccupante.
Chiusura col Montenegro. L'invito all'unità fraterna porta a una considerazione molto più terrena, ancora una volta molto diretta: "la salvezza non si trova in separazioni nazionali o di stato e nemmeno in ideologie di parte, ma nello spirito di comunione e in un'autentica civilizzazione globale d'amore".
Il documento, visibile sul sito ufficiale della chiesa ortodossa serba www.spc.org.yu, è firmato oltre che dal patriarca Pavle dai quattro metropoliti di Zagabria e Lubiana, Montenegro, America Centro occidentale e Dabro Bosnia e da una quarantina fra vescovi e vescovi vicari sparsi in tutto il mondo, dal Canada all'Australia.
Per scrivere all'autore: lechners@libero.it