I possibili effetti dell'uscita di scena di Milosevic sull'azione del Tribunale Penale Internazionale dell'Aja. La beffa per le vittime della guerra dei dieci anni. La morte di Milosevic lascia molti fantasmi sul presente e il futuro dei Balcani, mentre l'Europa cammina a ritroso. Nostro commento

12/03/2006 -  Michele Nardelli

La scomparsa di Slobodan Milosevic appare inquietante quanto la sua vita. Non intendiamo con questo avvalorare le tesi di assassinio, che pure in queste ore sono circolate dopo le preoccupazioni espresse nei giorni precedenti alla sua morte dallo stesso ex uomo forte di Belgrado. E' inquietante perché con la fine di Milosevic, e con il suicidio del 5 marzo scorso di Milan Babic, già presidente della autoproclamata Repubblica serba di Krajna, sembra esaurirsi il ruolo - pure controverso - dello stesso Tribunale Penale Internazionale de L'Aja (TPI). Non che non ci siano altri personaggi responsabili di crimini contro l'umanità da sottoporre a giudizio ed altre pagine della tragedia degli anni '90 sulle quali cercare di aprire squarci di verità, ma con l'uscita di scena di Milosevic si smonta il palco, ed anche l'eventuale cattura di suoi luogotenenti serbo-bosniaci Karadzic e Mladic assumerebbe un valore quasi beffardo, potendo scaricare sul fantasma di Slobo ogni responsabilità.

Ed è inquietante anche per un'altra ragione: perché la vita di quest'uomo, con il suo carico di responsabilità, era un bene prezioso da salvaguardare, anche se - a differenza di Babic - Milosevic non aveva mai riconosciuto le proprie colpe così come l'autorevolezza dello stesso TPI. Tuttavia era attorno all'ultima figura chiave (scomparsi Tudjman ed Izetbegovic) della disintegrazione jugoslava che ruotava gran parte della ricerca delle responsabilità politiche (e di natura criminale) sugli avvenimenti degli anni '90. Risulta così davvero inammissibile che le sue condizioni di salute, manifestatamene precarie, non fossero monitorate in tempo reale.

Con l'effetto che ora la morte di Milosevic - oltre ad azzerare quattro anni di lavoro del TPI - appare come una grande beffa per tutte le vittime della "guerra dei dieci anni", ancora in attesa di giustizia. Non abbiamo mai creduto alla ricostruzione della storia attraverso le aule dei tribunali, altre sono le piste di lavoro attraverso le quali affermare verità e riconciliazione, prima fra tutte quell'elaborazione del conflitto tanto difficile quanto rara nei percorsi post bellici. Ma ciò non significa affatto negare la necessità di inchiodare i responsabili attorno alle proprie colpe, accertando gli avvenimenti e la loro natura, i contesti e le complicità, interne ed internazionali.

Sotto questo profilo Milosevic ne aveva da raccontare, perché fra i responsabili principali nell'aver cannibalizzato la vecchia Jugoslavia, un'operazione che dietro la facciata del nazionalismo nascondeva un disegno ben più prosaico e moderno di potere e di criminalità finanziaria. Sostenuto in questo da quanti intravidero nello sgretolarsi di quel paese la possibilità di costruire nuove aree di influenza politica, economica e culturale.

Un disegno rimasto ben sfumato a L'Aja, di fronte ad un Milosevic che ha avuto invece buon gioco nel definirsi uno dei garanti degli accordi di Dayton e nel rivendicare il diritto di intervenire con la forza di fronte al prendere corpo di una secessione armata in un paese sovrano, mistificando così le sue responsabilità dirette nella carneficina bosniaca come nella pulizia etnica in Kossovo o negli eccidi in Krajna e Slavonia.

Vicende sulle quali la verità è per molte pagine ancora da scrivere, perché ben più complessa di quella che una lettura superficiale degli avvenimenti potrebbe indicare, e anche di quella che la comunità internazionale ha teso ad avallare per giustificare l'ipocrisia di una guerra definita umanitaria che ha lasciato dietro di sé un'instabilità profonda, contraddizioni ancor più laceranti ed uranio impoverito. E questo senza nulla togliere al ruolo centrale (e criminale) del leader serbo e della vecchia classe dirigente di quel che rimaneva della Federazione Jugoslava. Che avrebbe dovuto rispondere del proprio operato in primis di fronte al suo paese, per evitare che il fantasma di Milosevic (e di Seselj) portassero il Partito Radicale Serbo a diventare il primo partito in Serbia, per prevenire quel che si profila con la secessione del Montenegro ed infine per affrontare con la necessaria lungimiranza ed intelligenza politica la questione dello status del Kossovo.

Verità che la morte di Milosevic si porterà con sé, lasciando così che i fantasmi che ancora s'aggirano nei Balcani occidentali continuino a pesare sul presente e sul futuro di questa regione, ipotecando la possibilità di un'elaborazione collettiva di ciò che è realmente accaduto durante gli anni '90.

Uscito di scena definitivamente Milosevic, si potrebbe pensare che ora - con l'ormai imminente cattura di Karadzic e Mladic - siano tolti di mezzo i maggiori ostacoli nella risoluzione dei nodi della regione, ma temo che così non sarà. Non lo è per la natura post moderna di quanto è accaduto in questi anni nei Balcani, non lo è perché sono ancora sanguinanti le ferite che dieci anni di conflitti hanno aperto e che dieci anni di stabilizzazione internazionale non sono riusciti a curare. E non lo è perché nel frattempo l'Europa ha camminato a ritroso, lacerandosi sotto la spinta euroatlantica e perdendo di vista la via maestra del suo progetto politico unitario, della progressiva integrazione dell'Europa geografica ed infine della sua capacità di guardare e di divenire ponte verso il Mediterraneo.

Senza dimenticare che quel che accade nell'Europa di mezzo si riverbera - oggi come ieri - anche da quest'altra parte dell'Adriatico, riguardando la nostra Europa più da vicino di quanto non possiamo immaginare, in quello specchio nel quale si riflettono deregolazione e criminalità economica, paure e scontro di civiltà. Anche nei suoi strascichi la guerra dei dieci anni si conferma davvero non l'ultima del Novecento, ma la prima del nuovo secolo.