Otto giorni intensi, lungo il cordone ombelicale d'Europa. Questo diario ci accompagna in un viaggio imperdibile
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La prima tappa della giornata si svolge qui a Kragujevac ed è la visita al museo che ricorda la strage che qui si consumò il 21 ottobre del 1941. L’esecuzione di massa fu decisa come rappresaglia per le perdite tedesche in uno scontro che si era verificato qualche giorno prima contro i partigiani titini e i cetnici, allora ancora alleati. I cetnici, che erano un movimento monarchico fedele al re Pietro in esilio, a stragrande maggioranza serba, nelle fasi successive della guerra si schierarono invece in maniera più o meno aperta dalla parte dei nazisti, privilegiando la forte vocazione anticomunista che li caratterizzava. Il loro vero nemico divennero proprio i partigiani.
In quella battaglia erano morti 10 soldati tedeschi, e 26 erano rimasti feriti. Venne applicato, nel modo più rigido possibile, un ordine emanato pochi giorni prima dal comando nazista e si decise di uccidere 100 persone per ogni morto tedesco e 50 per ogni ferito, per un totale di 2300. La cifra reale, poi, andò anche oltre questo numero. Dopo aver ucciso già alcune centinaia di persone nei villaggi dei dintorni, accusati di dare appoggio e riparo ai “banditi”, il 21 ottobre i nazisti iniziarono la strage sistematica, che portò in 3 giorni 2854 persone davanti al plotone di esecuzione. Nel museo c’è una raccolta delle loro foto e delle loro ultime lettere. Erano quasi tutti uomini, sia ebrei che oppositori politici. L’unica donna fu uccisa perché accusata di collaborare con i partigiani. 300 erano studenti, 23 ragazzi tra i 12 e i 15 anni, prevalentemente rom che facevano i lustrascarpe. Guardiamo le loro foto in silenzio, è un momento che non può che toccare tutti.
Ci trasferiamo poi in pullman da Kragujevac a Smederevo, dove ci imbarcheremo per il tratto di navigazione di oggi. Durante il tragitto, Eugenio ci racconta due storie che riguardano questa zona.
La prima non la conoscevo ed è quella di Josef Schulz, un soldato tedesco che nel luglio del 1941 si rifiutò di partecipare all’esecuzione di un gruppo di 15 partigiani catturati e venne quindi fucilato insieme a loro. Il fatto avvenne a Smederevka Palanka, nei dintorni di Smederevo appunto, ed è stato per molti anni misconosciuto perché il comando tedesco aveva falsamente classificato la morte di Schulz come avvenuta in azione. Solo negli anni ’70 alcune testimonianze permisero di ricostruire la storia e la figura del soldato che disse “Io non sparo” divenne popolare.
La seconda invece la conosco, perché l’ha raccontata Paolo Rumiz nel suo “È Oriente”. È quella dell’acciaieria di Smederevo, per anni cuore dello sviluppo della città. La storia, a metà tra realtà e leggenda, narra che un giorno Tito venne a visitare queste colline e i funzionari locali gli magnificarono le splendide vigne, parlando di gròžde, che in serbo significa “uva”. Ma Tito, che era già sordo come una campana, capì gvòžge, che invece significa “acciaio”, e disse “Splendido! Facciamo al più presto una grande, immensa acciaieria”. Nessuno ebbe l’ardire di smentirlo. Sarebbe equivalso a fargli notare la sua sordità. La macchina del partito si mise in moto, e nel giro di soli due anni sorse dal nulla, sulla riva destra del Danubio, la più grande e inutile acciaieria d’Europa.
Questa mi ricorda un po’ altre leggende che ho sentito, che ruotano intorno al fatto che Tito, secondo alcune testimonianze, pareva non padroneggiare perfettamente la lingua serbocroata e parlava con un accento strano. Da qui le congetture secondo cui sarebbe stato una spia russa del KGB, che aveva preso il posto del vero Tito. C’è chi dice che in questo modo avrebbe sempre lavorato per Mosca, sia pure in forma mascherata, chi che avrebbe fatto il doppio gioco fino a decidere, per sete di potere, di staccarsi definitivamente da Stalin, e che quindi lo strappo del 1948 sarebbe veritiero. Ma probabilmente sono solo leggende, e la pronuncia di Tito era semplicemente dovuta all’inflessione, poco conosciuta, della zona dov’era cresciuto (oggi nordovest della Croazia, ma la madre di Tito era slovena) e alle sue umili origini.
Anche oggi ci aspetta una lunga navigazione, ma per fortuna il sole continua ad accompagnarci, anzi oggi è ancora più forte, e neanche stavolta avremo modo di annoiarci.
Il paesaggio ci propone prima la quattrocentesca fortezza di Smederevo e poi quella di Golubac, costruita nel XIV secolo sulle rovine di una precedente fortezza ottomana, che è la più complessa e meglio conservata fortificazione medioevale serba.
Non lontano da Golubac sorge dal fiume la roccia di Babakay, alta più di 20 metri e menzionata in diverse leggende danubiane. Alcuni legano il nome della roccia alla parola slava “Baba” (donna anziana), mentre altri lo spiegano rimandando al termine turco “Babakay”, che letteralmente significa “pentiti”.
La leggenda più nota narra che un Aga turco, comandante di una guarnigione di confine, tornò un giorno da un lungo viaggio e scoprì che la più bella delle sue mogli era fuggita con un ungherese. Infuriato, chiamò il suo più fedele giannizzero, promettendogli dieci sacchi d’oro se gli avesse riportato la moglie, assieme alla testa del rapitore. Questi si mise subito a caccia dei due fuggiaschi, e seguendo le tracce di villaggio in villaggio scoprì che avevano passato la frontiera e si erano nascosti in una piccola fortezza cristiana. Il giannizzero e i suoi si mascherarono da contadini serbi e bussarono alla porta della fortezza chiedendo aiuto e gridando di essere stati derubati dai turchi, per provocare compassione e avere accesso all’interno. La porta gli fu subito aperta e, appena entrati, attaccarono i soldati e rapirono la donna, che nel frattempo era svenuta. Il giannizzero saltò a cavallo legando accanto a lei, sulla gola dell’animale, anche la testa del suo presunto amante.
Riportata a casa, la donna fu legata dal marito assetato di vendetta sulla cima di una roccia. “Pentiti!” furono le ultime parole che le disse prima di abbandonarla al vento e ai corvi. Tuttavia, come a volte succede, l’amore vince, e così la testa tagliata si rivelò essere non quella dell’amante, ma quella di uno dei soldati della fortezza. L’ungherese, mentre tra le mura infuriava la battaglia, era per caso nelle campagne circostanti e, una volta appresa la notizia, si mise ad inseguire i turchi, arrivando così alla roccia e liberando la sua amata.
Quando il giorno seguente l’Aga mandò un suo boia ad ammazzare la moglie, questi trovò solo la corda con cui era stata legata. Il boia era abbastanza intelligente da non confessare al suo capo la dolorosa verità, così gli disse che la donna si era buttata nel Danubio.
Alcuni mesi dopo, iniziò la battaglia di Carlowitz tra i Turchi e il Regno d’Ungheria. L’Aga, gravemente ferito sul campo, per uno strano scherzo del destino fu imprigionato nella tenda del suo rivale, dove scoprì la vera fine della moglie. Questo fatto accelerò sicuramente la sua morte, sopraggiunta poco dopo la terribile visione.
A non farci annoiare ci sono poi anche gli incontri, sia cultural-musicali che gastronomici.
Per quanto riguarda i primi, più tardi ci sarà Aleksandar Zograf ma per ora a tenerci compagnia c’è il gruppo di danze folkloristiche Lola (eccoli in una delle loro migliori performance).
Per la parte Slow Food, invece, oggi è il pesce a farla da padrone, con un gustoso spezzatino che, ci viene rivelato, è fatto niente di meno che… con il siluro del Danubio! Il pesce da noi tanto bistrattato e criminalizzato come infestante e razziatore dei fiumi qui è apprezzato e spesso cucinato, avremo modo di scoprire. Il sapore è buono, non c’è che dire. Non è male neanche lo strudel di amarene, per non parlare della nostra quotidiana dose di rakija. Oggi Mirjana ci propone un “distillato” di mela cotogna selvatica. Anche la mela cotogna è un frutto ampiamente usato e apprezzato, qui nei Balcani.
Dopo l’ennesimo lauto pasto, siamo pronti per fare la conoscenza di Aleksandar “Saša” Rakezić, più noto con lo pseudonimo di Zograf. Saša è il più importante fumettista serbo. Nato nel 1963 a Pančevo, sobborgo industriale di Belgrado, si è affermato negli anni Novanta con fumetti sulla vita nell’ex-Jugoslavia (Life Under Sanctions) e per le sue cronache disegnate durante i bombardamenti della Nato. Le sue storie sono pubblicate in diversi paesi, tra cui Spagna, Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. In Italia collabora con la testata Osservatorio Balcani e Caucaso (sul cui sito si possono trovare molte sue tavole) ed è una delle firme di punta di Internazionale.
Curiosamente anche lui, come Dušan Veličković, sceglie come sua forma espressiva prediletta una forma molto breve, storie che non durano mai più di due pagine. Ma non per questo sono meno incisive.
A me piace soprattutto per le storie dedicate alle città, ai fatti salienti della loro storia e alle sue impressioni di viaggiatore, come piccoli racconti di viaggio a fumetti; per quelle legate alla storia e all’attualità dei Balcani. Ma anche per il suo interesse per i sogni e le visioni ipnagogiche, allucinazioni che appaiono nella mente al momento del risveglio, o quando stiamo per addormentarci. Molta della sua produzione è basata su queste suggestioni, che hanno sempre incuriosito anche me. Purtroppo io, salvo casi rarissimi, non riesco a ricordare i sogni, né tanto meno a disegnarli…
Durante l’intervista mi diventa ancora più simpatico dichiarandosi fan di Alan Ford, che mi riporta all’infanzia (chi, oltre ai fumetti, si ricorda il cartone animato di “SuperGulp”? Fantastico!) e che scopro con piacere essere una leggenda in Serbia.
Oggi anche la nostra compagna di viaggio Alessandra ha avuto l’onore, anche se solo per pochi minuti, di stare al timone del leggendario Kovin: potrà raccontarlo ai nipotini.
Arriviamo nel tardo pomeriggio a Donji Milanovac, dove ci sistemeremo presso alcune famiglie locali. Io, Maurizio e Luciano siamo dagli Zeković, o meglio dalla suocera degli Zeković, che in questo momento si trova da dei parenti in Dalmazia. La signora Zeković ci accoglie gentilmente, ci fa vedere velocemente la casa, ci mostra il contenuto del frigo (succo d’arancia, birra e vodka) e ci consegna le chiavi. È appena tornata dalla spiaggia (il Danubio, naturalmente, è il loro mare, qui) e deve andare a casa a darsi una rinfrescatina.
La casa, quindi, è tutta per noi. Speravamo forse in qualche contatto in più con la famiglia che ci ospita, ma a volte va così.
Il paese ha tutta l’aria placida e un po’ sonnolenta di una località di villeggiatura per famiglie serbe. Non c’è molta gente in giro, quando usciamo per una breve passeggiatina prima di cena. Non vedo stranieri, a parte noi, e ciò non è detto che sia un male, anzi. Ci godiamo un bel tramonto.
Il Danubio è molto largo, qui. Sull’altra sponda, la Romania. Qui siamo già nel lungo tratto in cui il fiume fa da confine.
Anche la cena di stasera, neanche a dirlo, è a base di pesce. Si parte con una buona zuppa, poi un pesce alla griglia. Si sparge la voce che sia ancora siluro, ma è una voce non confermata. Il servizio non brilla per efficienza e rapidità, il che innervosisce non poco Eugenio, che è un perfezionista. Ma noi ce la prendiamo tranquillamente comoda, tanto qui, dopo cena, oggettivamente non c’è molto da fare. I suoni e le luci della Belgrado underground sono lontani.