Vladimir Arsenijević - screenshot youtube

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Alla Fiera del libro Interliber, tenutasi a Zagabria dal 7 al 12 novembre, lo scrittore Vladimir Arsenijević ha presentato il suo nuovo libro Duhovi [Fantasmi]. In questa intervista Arsenijević traccia un bilancio degli ultimi trent’anni, per capire come si è sviluppata la vita pubblica e privata dello spazio postjugoslavo

19/12/2023 -  Branimira Lazarin

(Originariamente pubblicato sul portale Novosti , il 23 novembre 2023)

Nella sfera politica dei paesi dell’ex Jugoslavia il concetto di spazio postjugoslavo, pur essendo presente, rimane invisibile e disprezzato. Sembra improbabile che i fautori della politica culturale, al di qua o al di là del confine, da un giorno all’altro accettino che la produzione culturale dei paesi ex jugoslavi sia fondata sulle stesse premesse…

Certo che non lo faranno. È un copione già visto. Si tende ad insistere su un’idea fino ad un certo punto, soprattutto se si gode di un ampio sostegno pubblico. Poi però quando si arriva al muro dietro al quale si estende il regno della realpolitik balcanica, si decide di lasciar perdere.

Nel corso di una conferenza regionale intitolata "Jezici i nacionalizmi" [Lingue e nazionalismi, conferenza organizzata per promuovere la Dichiatazione sulla lingua comune], alcune persone si rivolgevano a noi [organizzatori] con toni falsamente benevoli, pronunciando frasi del tipo: “Vabbè, in fin dei conti è una questione accademica, che c’entra?”. Questo atteggiamento mi aveva parecchio infastidito.

Proprio in quel periodo era in corso una protesta dei ragazzi di Jajce. Gli studenti croati e bosgnacchi si erano ribellati contro la segregazione scolastica, ossia contro chi sosteneva che i ragazzi parlassero lingue diverse e che per questo bisognasse separarli: pur frequentando lo stesso istituto scolastico, i piccoli bosgnacchi dovevano andare a scuola la mattina, i piccoli croati il pomeriggio. Ma chi pensavano di poter prendere in giro? Ovviamente, la lingua è solo una leva che permette di portare avanti una manipolazione nazionalista più insidiosa, attuata attraverso il sistema delle cosiddette materie scolastiche nazionali.

La Croazia aveva interiorizzato un’idea di istruzione basata sul nazionalismo già negli anni Novanta. Quindi, questa idea ormai fa parte della nostra quotidianità. Per fortuna, c’è Internet che ci aiuta ad opporci ad un indottrinamento che avviene anche attraverso il curriculum nazionale. Come si è invece insinuato il nazionalismo nel sistema educativo serbo?

Penso che l’esperienza serba e quella croata si differenzino drasticamente tra loro e che questa differenza si rifletta soprattutto nel modo in cui crescono le giovani generazioni. Anche in Croazia la situazione non è rosea, ma nonostante tutti i problemi, per nulla trascurabili, con cui il paese è costretto a fare i conti, l’aria è di gran lunga più respirabile che in Serbia. La Croazia è molto più aperta della Serbia di oggi. Mi sembra anche che la società croata sia meno incline a perpetuare gli atroci inganni del passato.

In Serbia, purtroppo, abbiamo fatto crescere una generazione spaventosa. Naturalmente, ci sono anche giovani straordinari, su questo punto non vi è alcun dubbio. È importante però osservare un quadro più ampio, la violenza che si esprime sulle facciate degli edifici e nelle strade delle città serbe. Migliaia di murales e graffiti con l’immagine di Ratko Mladić e con uno stesso identico messaggio che si autoriproduce: eroe serbo, eroe serbo, eroe serbo…

Come sapete, lo scorso 3 maggio nella scuola elementare “Vladislav Ribnikar” si è consumata una strage compiuta da un ragazzo tredicenne. Vivo nei pressi di questa scuola, ci sono sempre candele accese, sono stati piantati dieci alberi per commemorare i dieci ragazzi uccisi. Però su un muro della scuola, proprio accanto all’ingresso utilizzato da quel ragazzo per entrare nell’edificio, c’è una scritta a caratteri cubitali “Grobari Vračar”. I Grobari sono un gruppo ultras e criminale che ha anche il compito di sbrigare le faccende più losche per conto dello stato. Tutti i murales raffiguranti Ratko Mladić e altri graffiti con messaggi di odio sciovinista sono accompagnati dalla sigla “GV”. Sul lato opposto della strada rispetto all’ingresso della scuola “Vladislav Ribnikar” c’era un murales dedicato a Vladimir Putin, poi una decina di metri più avanti, nel parco di Mitićeva rupa, proprio davanti all’area giochi, c’era un enorme graffito che recitava: “Quando l’esercito torna in Kosovo”. Centro metri più in là c’era quel noto murales raffigurante Ratko Mladić che aveva messo in ombra tutti gli altri graffiti, tanto che quasi nessuno si era accorto che a pochi metri di distanza c’era – ormai non c’è più – un graffito dedicato a Draža Mihailović. Allora cosa ci possiamo aspettare? Cosa passa per la testa dei ragazzi?

Prima ritenevo discutibili le affermazioni del tipo: “Eh sì, la Serbia è cinque, dieci anni indietro rispetto alla Croazia”. La situazione era troppo complessa, non poteva essere spiegata ricorrendo ad un paragone così semplice. Oggi invece! Sono due paesi completamente diversi. Questa considerazione però è da intendersi non tanto come un elogio alla Croazia, quanto come una forte critica nei confronti della Serbia.

Allora cosa ci unisce?

La cultura popolare. A prescindere da cosa si pensi dei vari protagonisti della scena musicale, delle produzioni televisive o di qualsiasi prodotto culturale di cattivo gusto, il trash attecchisce facilmente in tutta la regione [ex jugoslava] e fa quello che i vari idealismi non riescono a fare.

Ecco un esempio, un’esperienza che ho vissuto durante un viaggio nella regione a cui non sapevo come reagire, non sapevo se ridere o piangere. Partendo da Belgrado, abbiamo visto un cartellone con la scritta: “Aca Lukas, Arena di Belgrado, la più grande festa nei Balcani”. Giunti a Sarajevo, ci siamo imbattuti in un cartellone che recitava: “Aca Lukas, sala Skenderija, la più grande festa nei Balcani”. A Zagabria, ecco un altro cartellone con la scritta “Aca Lukas”. Arrivati a Lubiana, c’era scritto “Aca Lukas, sala Tivoli, la più grande festa”. Ma ormai non eravamo più nei Balcani, cosa stava succedendo?

Per quanto questo fenomeno possa infastidirci, vi è anche un aspetto incoraggiante, ossia il fatto che le coproduzioni e collaborazioni garantiscono la distribuzione della cultura su un territorio più ampio. A rendermi perplesso invece è il fatto che chi promuove la cultura del trash lo fa semplicemente perché è un’attività redditizia, i principi eroici non contano più.

Noi abbiamo fatto tutto il possibile per promuovere la comunicazione letteraria e uno spazio letterario comune [che coinvolga tutti i paesi ex jugoslavi]. Eppure, i feudi editoriali nazionali sono ancora vivi e vegeti. Mi riferisco all’editoria serba e quella croata, a cui vanno aggiunte due colonie: la Bosnia Erzegovina, dove c’è ancora qualche editore indipendente, e il Montenegro, ormai quasi assente dal panorama dell’editoria postjugoslava. Ci stiamo rendendo conto che se in questi territori colonizzati vi è ancora la possibilità di scegliere se acquistare un libro in un’elegante edizione croata o in un’edizione serba mediocre, ma più economica, in Croazia e in Serbia il lettore non ha il privilegio di scegliere, ed è una dinamica che non porta benefici a nessuno.

Quello che la nostra generazione considera trash un’altra generazione forse lo percepisce in un’ottica diversa. Come possiamo giudicare la cultura trash delle giovani generazioni se non ci riconosciamo in essa?

Il classico divario generazionale si concretizza sempre in una sorta di paura e incomprensione nei confronti delle nuove generazioni. Pur essendo convinti di comprendere il contesto, permane una sostanziale incomprensione che si materializza nello stupore, nel chiedersi come sia possibile che [i giovani] caschino nel tranello del trash. In Croazia si tratta di una forma di ribellione. I giovani sembrano propensi ad accettare quegli aspetti della produzione culturale balcanica che credono possano sconvolgere i loro genitori. In Serbia invece la maggior parte dei genitori nella cultura trash vede un mezzo per rafforzare il rapporto con i figli. Anche i genitori ascoltavano Ceca [famosa cantante turbo-folk ed ex moglie del criminale di guerra Arkan], quindi la cultura con cui sono cresciuti i genitori è in piena sintonia con la cultura dei giovani di oggi.

Non ho nulla contro questo fenomeno purché l’ideologia cetnica, l’ultranazionalismo e tutto ciò che si cela dietro al dilagare della cultura trash rimangano circoscritti ad un ambiente ben preciso. Ma quando – come mi è successo di recente – vedo una ragazzina di appena tredici anni che indossa una maglietta con l’immagine di Draža Mihailović [capo dei cetnici durante la Seconda guerra mondiale] la mia concezione del mondo va completamente in frantumi. O quando i ragazzi si travestono da Draža per Halloween. Quale spinta ironica potrebbe portare un genitore ad “aiutare” il proprio figlio a travestirsi da Draža? Perché mai un bambino vorrebbe travestirsi da un leader militare? Cose inconcepibili.

Forse si tratta di un conflitto le cui conseguenze dolorose pesano solo sulla più vecchia delle due generazioni coinvolte, forse dipende da come ci si pone nei confronti dell’iconoclastia, forse anche esageriamo nell’analizzare il fenomeno…

Sì, tutto vero. Più di una volta ho vissuto tutto questo sulla mia pelle guardando crescere i miei figli. I genitori tendono ad angosciarsi per qualsiasi cosa, anche perché in Serbia tutto si esprime attraverso l’estremismo politico. Ecco un esempio. Vojislav Šešelj arriva alla Fiera del libro di Belgrado e i giovani imberbi, al massimo quindicenni, aspettano in fila per ottenere un suo autografo. Come sono venuti a conoscenza del libro di quel criminale? Grazie alle potenti forze di destra a cui l’estremità opposta dello spettro politico serbo – ammesso che un’estremità opposta esista al di fuori di Facebook – non è in grado di rispondere. Non vi è alcuna forza capace di fungere da contrappeso alla destra. Viviamo in un clima totalitarizzante in cui anche la più esile voce di dissenso viene repressa.

Come possiamo immaginare il futuro politico della Serbia?

Come ha detto una volta Rambo Amadeus: “Se devo scegliere tra Kurta e Murta, scelgo Murta” [il riferimento è all’espressione idiomatica Sjaši Kurta da uzjaši Murta – Scende Kurta, sale Murta – per indicare un continuo susseguirsi di élite al potere, che però non porta ad alcun cambiamento sostanziale]. È una battuta spiritosa, ma purtroppo non si applica all’attuale situazione in Serbia. Murta non si differenzia in alcun modo da Kurta, non c’è una classica lotta politica tra gli esponenti delle varie ideologie. Ci sono solo forze politiche nazionaliste che combattono tra loro per la conquista del potere.

Allora forse dovremmo chiederci cosa non possiamo aspettarci dopo le elezioni?

Le dico cosa non ci possiamo aspettare. Anche se dovesse verificarsi un cambiamento politico, le premesse fondamentali dell’attuale politica serba con ogni probabilità resteranno invariate. Quindi, un forte sentimento antioccidentale – a cui si aggiunge un forte sentimento filorusso, che però potrebbe essere abbandonato in qualsiasi momento – e, naturalmente, un profondo conservatorismo che permea l’intera società.

Se la tetralogia Cloaca Maxima offre un punto di osservazione privilegiato sull’ambiente e sugli eventi degli ultimi trent’anni, l’ultima parte di quest’opera sembra suggerire un epilogo che ben conosciamo, ossia l’assenza di qualsiasi catarsi…

Il narratore e protagonista del mio libro ha perso tutte le persone con cui ha condiviso la vita. Il passato continua a stargli col fiato sul collo, il futuro non è quello che auspicava. La sua posizione è tutt’altro che rasserenante. Pur non trattandosi di un’autofiction, il mio protagonista e io concordiamo sul fatto che negli ultimi trent’anni nulla si sia risolto. E in un certo senso – per ritornare alla precedente risposta sull’immagine della Serbia di oggi – gli attori politici sono gli stessi di trent’anni fa. Per loro sono tutte rose e fiori, gioiscono del clima di dilettantismo dilagante. Tutti i farabutti del passato sono ancora qui. Mandiamo Šešelj all’Aja e lui torna ancora più grosso e potente. Alla fine del libro, il mio protagonista cammina disperato, come l’ultima tra le anime che hanno attraversato la sua vita. Il senso di solitudine aumenta col persistere delle stesse identiche piaghe di sempre.

Se nel 2000 anche il più incallito dei nazionalisti non poteva negare quanto accaduto a Vukovar, Srebrenica, Goražde, in Kosovo e in altri luoghi dove furono commessi quei crimini agghiaccianti, l’ondata revisionista degli ultimi vent’anni è stata così forte che oggi risulta possibile negare quasi tutto. Come se nulla fosse accaduto. La percentuale dei giovani sui vent’anni che, stando alle statistiche, sanno cos’è accaduto a Vukovar è inferiore all’1%. È un dato terrificante. Le affermazioni semplici e volgarizzate che fanno leva sulle emozioni – come “Milošević ha difeso il popolo serbo” o “Ratko Mladić è un eroe che ha difeso il popolo serbo” – passano per verità. Punto. Oggi la situazione in Serbia è peggiore che negli anni Novanta. Allora almeno c’era una società polarizzata. Potevi vivere in uno spazio ristretto e isolato in cui venivano coltivati i valori in cui ti riconoscevi. Ormai quella realtà è andata in frantumi.

Eppure, la medaglia ha sempre due facce: una che gioca sul binomio globalizzazione-relativizzazione e l’altra privata che però sembra ingabbiata nell’ottica di progresso e catarsi. Come si uscirà da questa situazione?

Credo nelle microcomunità ai vari livelli. La catarsi è un’idea utopica, impossibile da realizzare. Negli anni Novanta e nei primi anni Duemila non ne ero pienamente consapevole. Ora so che abbiamo anche un dovere verso noi stessi, un dovere che tendiamo a dimenticare. La questione dell’agire invano. Valeva la pena dedicare così tanti anni della propria vita a quella che è diventata la realtà della Serbia a cavallo tra XX e XXI secolo? Cosa ci facevo? Cosa sono riuscito a fare, oltre a rafforzare le mie nevrosi? In realtà nulla. Ora so che i doveri personali contano di più, per me sono molto più importanti. Ciò che mi interessa maggiormente è creare un ambiente in cui mio figlio, con tutte le sue sfide esistenziali, possa vivere la sua vita nel migliore dei modi. Non mi sento in dovere verso nessuno, se non verso l’intimità della mia esistenza.