Immagine tratta dalla copertina di Novi Magazin dedicata a Zoran Đinđić

Immagine tratta dalla copertina di Novi Magazin dedicata a Zoran Đinđić

Era un vero leader, che affrontava i problemi prima che questi si facessero avanti, senza più soluzioni. Un leader che credeva nella sua Serbia e nell'intera regione dei Balcani. Il commento di Ivan Vejvoda, a ricordo della sua scomparsa

12/03/2013 -  Ivan Vejvoda Belgrado

(Questo articolo è stato pubblicato originariamente il 6 marzo 2013 dal belgradese Novi Magazin  col titolo Ivan Vejvoda: Žaba i demokratija )

Zoran Đinđić in quei 2002-2003 arrivava nel suo ufficio da premier e alle riunioni ripeteva regolarmente: dobbiamo rispettare l’impegno con il Tribunale dell’Aja e risolvere la questione del Kosovo il prima possibile, perché altrimenti l’intero processo di democratizzazione e modernizzazione della Serbia subirà un grave rallentamento e verrà ostacolato.

In una delle ultime riunioni, circa una settimana prima di quel tragico 12 marzo, ai rappresentanti della Fondazione Friedrich Ebert raccontava e spiegava di come da tempo stesse leggendo in modo intenso libri sulla storia della Serbia negli ultimi due secoli, notando come quando lo stato si era trovato a dover fare un serio e democratico scatto in avanti, qualcuno tirava sempre in ballo la questione del Kosovo e frenava o ostacolava il processo di democratizzazione.

Zoran Đinđić era profondamente preoccupato del tempo che la Serbia aveva perduto negli anni Novanta e non solo in quelli, e quindi della necessità di recuperare quanto perduto il prima possibile. La vittoria pacifica contro il regime di Milošević, ottenuta dai cittadini-elettori e dalle forze democratiche alle elezioni del 24 settembre del 2000 e la sua difesa il successivo 5 ottobre di fronte al Parlamento a Belgrado, aveva aperto la possibilità che la Serbia ritornasse al passo col tempo, con i suoi vicini, con l’Europa e con il mondo intero.

Đinđić aveva fretta: per le cittadine e i cittadini, per il popolo, lo stato e la società. Sapeva che non si poteva arrivare ad un serio avanzamento nella riforma e nel processo di modernizzazione della Serbia finché la maggior parte dell’economia fosse rimasta nelle mani dello stato, sicché era stata data priorità alla privatizzazione delle aziende, sapendo che in questo processo ci sarebbero stati difficoltà ed errori. Aveva direzionato il suo sguardo sui cambiamenti socio-economici, ma ben presto si accorse che doveva prendersi anche la responsabilità di risolvere le questioni politico-istituzionali lasciate in eredità dal deleterio governo Milošević.

Aveva capito quanto fosse di sostanziale importanza la rapidità nel risolvere tutte le questioni aperte per aprire la strada ad una complessiva crescita economica, alla possibilità di attrarre investitori stranieri e creare nuovi posti di lavoro. Perché il paese era stato devastato e trascurato, distrutte le sue istituzioni, e le riserve finanziarie interne erano state irrimediabilmente spese.

La velocità era importante per l’avvio delle riforme politiche democratiche, per avviare un processo di lungo corso nella creazione di una cultura politica democratica. Da lì il suo viaggiare in autobus per la Serbia e i numerosi incontri in piccoli e grandi luoghi di tutta quanta la Serbia, per poter sentire di persona coi suoi collaboratori cosa pensasse la gente e infine portare il messaggio che la gente doveva aprire gli occhi, prendersi in carico in prima persona la sua parte di responsabilità per poter risollevare se stessi e la società intera dalle ceneri.

Perché né il mondo né l’Europa avrebbero aspettato: la velocità dei corsi socio-economici nel mondo globalizzato impone ai paesi piccoli di adattarsi e trovare il proprio posto e il proprio specifico ruolo nella divisone del lavoro globale. Perché solo così i piccoli paesi potranno mantenere la propria dignità, interesse, cultura e identità: solo così possono sopravvivere.

Da soli non possiamo farcela, diceva, e ripeteva spesso che noi contiamo, in economia e nella capacità di attrarre possibili investimenti diretti stranieri, solo in quanto regione (la penisola balcanica) di cinquanta milioni di persone.

Đinđić era un leader moderno e profondamente democratico e considerava la profondità dei problemi e la grandezza delle sfide con cui si doveva confrontare lo stato e la società della Serbia, ma allo stesso tempo aveva una visione limpida sulla strada da intraprendere a prescindere da tutti gli ostacoli esistenti, senza badare al fatto che ciò gli sarebbe potuto costare caro alle successive elezioni. La grandezza e la complessità dei problemi non fermavano di sicuro un vero leader democratico come Zoran Đinđić.

La giustizia, i valori democratici, l’opinione pubblica, il pluralismo, la tolleranza, i diritti umani erano le sue linee guida. Andare al passo coi tempi o addirittura precederli.

Capiva il mondo, era in sintonia col tempo sia come filosofo che nella pratica, e soprattutto come leader, ecco perché era caratterizzato dalla determinazione, l’impegno e dalla perseveranza nella risoluzione dei problemi. Andare incontro ai problemi (inghiottire il famoso rospo) era di fondamentale importanza, e non certo aspettare che il problema si facesse innanzi quando ormai non vi sono più risorse per la sua soluzione.

Era consapevole di quanto fosse gravoso il peso dell’eredità comunista e pre-liberale: il patriarcato, l’autoritarismo, il paternalismo, il clientelismo, lo spirito gretto (palanački duh), l’assenza di un individuo libero come fondamento della società.

Sapeva che almeno i dettati elementari dello stato di diritto devono quanto prima essere coltivati e che le istituzioni della società, e lo stato stesso, devono quanto prima ottenere delle fondamenta solide. Non sottovalutava la tenacia del vecchio regime, si confrontava con esso ad ogni passo e cercava di decostruirlo in continuazione. Alla fine, dieci anni fa, un colpo della lunga coda di quel dinosauro morente del vecchio regime lo ha falciato.

Era nel pieno delle forze, pieno di entusiasmo e pronto a risolvere contemporaneamente una valanga di problemi. Aveva arrestato Slobodan Milošević perché desiderava mostrare che la Serbia è in grado di rispondere ai suoi impegni internazionali e che la giustizia, in questo caso quella delle Nazioni Unite, va rispettata.

Aveva iniziato nel 2003 a risolvere la questione del Kosovo, senza aspettare che lo facesse la comunità internazionale, perché di nuovo sapeva bene che era un compito della Serbia, se voleva prendere sul serio il suo futuro. Diceva che la questione andava risolta in una triangolazione tra Belgrado, Pristina e la comunità internazionale: ecco forse oggi siamo giunti al punto in cui Zoran Đinđić voleva che fossimo dieci anni fa.

Abbiamo proceduto a passi di lumaca per molti anni dopo il suo omicidio. L’impegno con il Tribunale dell’Aja è stato portato a termine nel 2011. Avevamo fretta, ma la transizione, cioè il processo di democratizzazione e di modernizzazione dello stato, dell’economia e della società, è andata lentamente.

Grazie a Zoran Đinđić la Serbia aveva iniziato a cambiare di colpo, con il suo modo di fare e la sua energia così peculiare ci ha dato un forte e contagioso spirito democratico. Non ha fatto in tempo a mostrare di quante altre cose era capace.

Oggi, dieci anni dopo, non è tutto come prima, ma è anche molto lontano da quello che ci aspettavamo, di come immaginiamo una Serbia moderna, democratica ed europea. Non esiste niente di facile né veloce nel processo dei cambiamenti democratici, in particolare in una complessiva crisi economica, in una condizione di caduta dello standard di vita e nell’incertezza della quotidianità.

L’unico modo per rimanere fedeli al coraggio, alla determinazione e alla perseveranza dello spirito democratico di Zoran Đinđić è che ognuno di noi ogni giorno compia almeno un gesto per contribuire al cambiamento e al rafforzamento della giustizia, libertà e democrazia, per far sì che il potere eletto e le istituzioni esistenti, sia dello stato che della società, siano responsabili delle proprie azioni.

 

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