Un bambino di dieci anni, espulso con la famiglia dalla Svizzera nel 1938, si troverà a ripartire in Slovenia, terra natale del padre. La nave di Teseo ripropone in Italia "Il bambino in esilio"
Ci sono gli esuli di ritorno. E lo scrittore sloveno Lojze Kovačič è uno di questi. La sua storia la racconta nella trilogia “I migranti”, della quale La nave di Teseo pubblica, nella traduzione di Martina Clerici, “Il bambino in esilio” (anzi ripubblica perché l’opera già uscì in Italia nel 2013 per i tipi dell’editore Zandonai, che purtroppo ha chiuso i battenti).
Nato a Basilea nel 1928, Lojze Kovačič, figlio di padre sloveno e di madre tedesca, vide nel 1938 la sua famiglia espulsa dalla Svizzera, dove il padre, pellicciaio, si era sistemato, trovandosi costretto a tornare a Lubiana. Il piccolo Lojze, all’epoca, aveva dieci anni e si ritrovò catapultato in un mondo dove si parlava un’altra lingua dal tedesco materno, per lui incomprensibile e di difficile apprendimento, forse per una sorta di iniziale rimozione dovuta al trauma dell’improvviso distacco dalla città di Basilea dov’era nato e cresciuto. Il viaggio in treno, che dà vita alle prime pagine del romanzo, chiaramente autobiografico, rivela la disperante malinconia di questo distacco mentre Lojze, chiamato Bubi in famiglia, con i genitori e le sorelle Gisela e Clairi, s’allontana dalla sua città. “Non facevo che andare dentro e fuori dallo scompartimento… in corridoio avevo un intero finestrino tutto per me... Ciò che man mano andava svanendo dietro di noi, era più avvincente di ciò cui andavamo incontro… Proprio in una giornata ordinaria e insulsa come questa, Dio aveva disposto di spedirmi in treno… lontano lontano, nel paese in cui Vati (il padre, n.d.r) aveva vissuto da bambino finché non si era fatto grandicello”.
È la propria voce di bambino che Lojze assume come timbro con il quale marcare la pagina che si riempie della meraviglia e della sofferenza di un’età che lo vede vittima inconsapevole di quello che succede fuori, nel mondo, in balia, oltre che degli eventi, come i suoi genitori, anche della obbligata sottomissione alla volontà di questi. Sul treno, la madre si oppone all’infermiera che offre il caffè al piccolo Bubi. Glielo dice in tedesco, lingua nella quale troveremo moltissimi dialoghi (con traduzione a pie’ pagina) che compongono il romanzo. Ugualmente l’infermiera lo incoraggia a bere il caffè, pur col diniego della madre. E lui accetta l’offerta. "Sapevo che quando i grandi si mostrano così premurosi coi bambini, non sta bene rifiutare la loro offerta, altrimenti gli salta la mosca al naso". Bubi lo berrà, ma è talmente disgustoso che lo risputa nel caffè stesso "mortificato per non aver potuto usare una gentilezza all’infermiera".
In questa scena, come in altre, inevitabilmente il bambino affronta la vita sulla base della educazione ricevuta, e quindi in una dimensione di rispetto per gli adulti, i quali ovviamente, si comporteranno con lui a seconda della rispettiva sensibilità… Non bisogna dimenticare che la famiglia è attorniata dalle guardie che eseguono l’espulsione. "Le nostre quattro guardie ci avevano indicato lo scompartimento che ci avevano assegnato e si erano piazzati davanti ai portelli su entrambi i lati del vagone, mentre un altro poliziotto piantonava il corridoio…". Il papà sta dietro agli aspetti burocratici, la mamma ha gli occhi gonfi di pianto... "la carrozza su cui salimmo era squallida, gelida, tetra e deserta. Non era divisa in scompartimenti dove avremmo potuto stare insieme come in una casa, ma c’erano solo panche a destra e a sinistra sotto ai poggiabagagli somiglianti a mangiatoie per il becchime degli uccelli… e puzzava vagamente di latrina".
Lojze annota tutto. Un viaggio che accompagna il lettore per diverse pagine, fino all’arrivo a Lubiana dove il viale alberato nel quale s’infila il treno e quanto vedrà di lì a poco (“In mezzo al cielo nero apparve, come un abbaglio, un bianco castello di vetro. Bontà divina!”) gli servirà da consolazione. Ma non sarà a lungo. Una volta scesi le difficoltà si moltiplicheranno, a dispetto delle somiglianze che riscontra tra la città dov’è arrivato e la Basilea che ha lasciato. La pensione in cui alloggiano non è delle migliori e alcune altre delusioni, come scoprire il castello apparsogli la sera prima tutt’altro che magico, gli rendono difficile godere a lungo delle poche meraviglie, spesso figlie dell’immaginazione infantile, che incontra.
Ma non ci sono solo le difficoltà della vita. Ci sono gli incubi del nazismo incombente, quell’Hitler che una volta aveva temuto di veder scendere con i suoi baffetti dal dirigibile apparso sopra la città con la croce uncinata disegnata sulla coda. E poi la seconda parte del viaggio, quella che lo porterà nella Slovenia profonda, allora contadina, affamata, ignorante, così diversa da quella cittadina di Lubiana e che, come prima Basilea, era stata fino a quel momento il riferimento sociale e culturale in cui Lojze era sempre vissuto. Quella della campagna è la Slovenia che hanno raggiunto per trovare ospitalità presso i parenti del padre, ma con i quali non si troverà a suo agio, anzi!, troppo diversi da lui, troppo sprezzanti, per invidia anche, nei loro confronti, di lui e delle sorelle che si sentiranno continuamente minacciati anche in situazioni innocenti. “Sopra un ceppo, nascosti da un fascio di paglia, scovai tre begli ovetti appena deposti. Me ne andava dritta una, alla buon’ora! Stavo appunto per arraffarne due… quando udii un sibilo dietro… Karel con la frusta… Scoppiai a piangere, ma mica per il dolore…”. E poi le invettive, le cacciate da parte dei parenti: “Ladri! Maledetti ladroni!… Fanno repulisti di tutto quel che vedono… Tornatevene in Svizzera! In Svizzera dovete tornare!… Mamma e Clairi, sbiancate in volto, tremavano…”.
Saranno pagine di una brutalità che riveleranno un mondo molto simile a quello che fa da sfondo, ad esempio, ai romanzi del grande scrittore sloveno Ivan Cankar, a cavallo tra Otto e Novecento, in particolare “L’idealista” che racconta l’odissea di un maestro di campagna, Martin Kačur, che invano cerca di combattere contro l’ignoranza, la diffidenza e l’oscurantismo clericale che lo circonda, un romanzo al quale per atmosfere e ambiente questa parte consistente del libro di Lojze Kovačič, a mio avviso, si richiama. Poi, certo, come altri hanno scritto, ricorda anche pagine di Danilo Kiš, ma lì il riferimento va in particolare al mondo infantile, colto nel momento in cui il bambino prende coscienza del mondo, ma che non è ancora coscienza politica, solo una sensazione dentro di sé della forte distonia rappresentata dal mondo che lo circonda.
In Lojze, questa coscienza si farà più acuta quando a un certo momento Lubiana cade sotto l’occupazione fascista italiana e lo scrittore, per raccontarla ricorre, non a categorie politiche, difficili in un bambino di dieci anni, bensì descrittive, ricorrendo a raffigurazioni sarcastiche e al ridicolo. “Gli italiani erano arrivati in una città seria, abitata da persone colte, e vi facevano la figura dei pagliacci… Correvano dietro alle gonnelle. Si profondevano in inchini, si scappellavano ogni due per tre… ‘Che bella biondina!’… ‘Che bella signorina!’... Mandavano baci dai cassoni dei camion, con slancio tale che qualcuno ruzzolò giù oltre le sponde…” Su queste immagini si concluderà questa parte della trilogia, che ci pone in attesa delle altre due parti, così da saldare anche noi, in Italia, il conto con uno scrittore troppo dimenticato per apparire così tardi rispetto al peso che la sua opera ha nella vicina repubblica.