A 60 anni da Hiroshima e Nagasaki ridiventa più attuale che mai la nuova agenda per un mondo denuclearizzato sostenuta con ampia maggioranza dall'Assemblea generale ONU nel 1998. Ma la Slovenia l'abbandonò in extremis su ordine degli USA e della Gran Bretagna diventando così un chiaro monito delle due potenze nucleari a tutti gli altri paesi in transizione
Sono passati 60 anni dalle due prime stragi atomiche in Giappone e 16 dalla caduta del muro di Berlino e dalla presunta fine della guerra fredda. La Slovenia festeggia quest' anno il suo quattordicesimo anno di indipendenza, un periodo contrassegnato non solo dai due grandi successi della sua diplomazia (l'entrata nella Nato e nell'UE) ma anche dal prezzo pagato per entrare nel club transatlantico. In questi giorni di doveroso ricordo e di rinnovata coscienza del pericolo nucleare ancora incombente sull'umanità la diplomazia slovena , nonostante la rimozione e l'omertà imposta dalla realpolitik, deve fare i conti con quanto avvenne sette anni fa alla luce del suo avvicinamento alla Nato.
Nel maggio del 1998 la Slovenia fu invitata dalla Svezia e dall'Irlanda ad aderire, unico tra i paesi dell'Europa ex comunista, all'iniziativa denominata »Per un mondo senza armi nucleari-la necessità di una nuova agenda«. La dichiarazione che sarebbe stata successivamente votata dall'assemblea generale ONU era un nuovo e concreto tentativo di spostarsi dal punto morto in cui si erano venuti a trovare i trattati di non proliferazione nucleare (NPT) e di messa al bando degli esperimenti atomici (CTBT) nonostante i tentativi fatti successivamente a più riprese , soprattutto con la conferenza di revisione degli stessi del 1995.
La dichiarazione faceva leva tra l'altro sulla sentenza del Tribunale internazionale di giustizia dell'Aia in merito alla (il)legalità dell'arsenale nucleare. Il tribunale ricordava agli stati nuclearizzati firmatari dei trattati NPT e CTBT il loro obbligo di portare a termine la trattativa e di iniziare il disarmo nucleare.
La realtà era ben diversa; una vera trattativa di tipo globale non era mai iniziata, mentre l'India e il Pakistan davano il via ad una nuova serie di esperimenti atomici. La Slovenia, pur considerando l'entrata nella NATO come una delle priorità della propria azione politica internazionale, considerò - anche grazie ad una meticolosa e coerente analisi dell'ambasciatore sloveno all'ONU Danito Turk - che non ci sarebbe stata o non avrebbe dovuta esserci alcuna incompatibilità tra entrata nella NATO ed il rispetto del diritto internazionale. La Slovenia aderì perciò all'iniziativa entrando nel gruppo degli otto paesi sponsor insieme alla Svezia, l' Irlanda, la Nuova Zelanda, l' Egitto, il Messico, il Brasile e il Sud Africa di Mandela, paesi questi ultimi due che avevano rispettato alla lettera i trattati internazionali abbandonando irreversibilmente la sperimentazione nucleare a scopi militari in cui precedentemente avevano investito ingenti risorse. La Slovenia figurava nel gruppo della nuova agenda come unico paese europeo ex comunista e candidato alla NATO e all'UE. La scelta svedese non era stata casuale; la Slovenia godeva di un'immagine e di una fama che la differenziavano dal resto del blocco orientale in quanto mai era appartenuta al Patto di Varsavia, aveva una nota vocazione pacifista (almeno nell' area liberale e socialdemocratica che allora governava il paese) e pure un qualche residuo di non allineamento, anche se Lubiana si sforzava di superarlo o cancellarlo per sedurre i nuovi alleati atlantici.
Ma ciò che faceva della Slovenia un paese atipico nell'universo est-europeo era la sua coerenza nel rivendicare il primato del diritto internazionale, quale unica »arma« disponibile ed efficace, specie per i paesi più piccoli, per regolare con relativa giustizia i rapporti internazionali. La Slovenia, con l'ottimo lavoro dell'ambasciatore Turk, era tra l'altro riuscita per i sei mesi del mandato assegnatole come membro non permanente a presiedere con estrema efficacia ed equidistanza il Consiglio di sicurezza dell' ONU.
Secondo Stoccolma aveva le carte in regola per partecipare quale coprotagonista ad un' iniziativa importantissima per rendere possibile un inizio di denuclearizzazione del pianeta.
Dell'importanza che aveva la nuova agenda si accorsero ben presto però anche le superpotenze nucleari soprattutto gli USA, la Gran Bretagna e la Francia. La loro irritazione per un'iniziativa che le indicava, anche se indirettamente, corresponsabili del fallimento del NPT e del CTBT aumentò man mano che la dichiarazione raccoglieva consensi e si avvicinava la data del voto in sede di assemblea generale ONU. Le pressioni sui paesi simpatizzanti dell'iniziativa aumentarono e puntarono soprattutto sull'anello più debole degli 8: il paese più ricattabile in quanto candidato NATO.
Il premier sloveno Janez Drnovšek nel settembre del 98 pronuncio all' ONU un memorabile discorso in cui tra l'altro annunciò che la Slovenia »era fermamente decisa a sostenere la nuova agenda antinucleare e a garantire alle generazioni future un mondo libero dalle armi atomiche«. Era troppo. Le diplomazie delle grandi potenze occidentali si mobilitarono ed iniziarono un' offensiva fatta di ricatti e minacce diplomatiche: o la Slovenia esce immediatamente dal gruppo degli 8 o la NATO se la può scordare con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate. Le superpotenze non potevano ammettere che un piccolo paese in transizione diventasse un esempio che forse altri paesi est-europei avrebbero potuto imitare.
Per nulla incoraggiata dagli altri paesi dell'UE (con eccezione di quelli neutrali: Svezia, Irlanda, Austria e Finlandia), la Slovenia cominciò a temere di rimanere fuori dal club atlantico. Fu allora che emerse da Washington la figura dell'ambasciatore sloveno (oggi nuovamente ministro degli esteri) Dimitrij Rupel. Le sue missive dalla capitale americana erano chiare e riportavano i diktat e gli ultimatum americani. Inoltre al ministero degli esteri di Lubiana giunsero a fine ottobre in visita congiunta gli ambasciatori americano e britannico che ribadirono l'irritazione dei loro governi per la firma antinucleare slovena e le »consigliarono« di uscire immediatamente, senza se e senza ma, dall' iniziativa svedese. La diplomazia slovena dopo un ultimo tentativo di convincere gli »alleati« che nel gruppo operava come un fattore di moderazione (moderating force) abbassò definitivamente le mani e il premier Drnovšek, in visita ufficiale a Washington il 4 e 5 novembre (solo una settimana prima del voto all'ONU) annunciò a Bill Clinton che la Slovenia usciva dall'iniziativa rimangiandosi le sue solenni promesse alle generazioni future.
La stampa slovena defini' il tutto una blamage diplomatica ma non colse l'importanza di quella adesione puntando piuttosto il dito sulla goffaggine e l'errore di aver aderito a qualcosa da cui poi si doveva uscire.
Fino all' ultimo l'ambasciatore Turk avvertì che abbandonare l'iniziativa non avrebbe significato solo un colpo alla dignità nazionale e alla credibilità internazionale del paese bensì avrebbe avuto conseguenze a lungo termine. E così fu. La Slovenia da allora ha rimosso ogni riflessione autonoma sui grandi temi della proliferazione nucleare, si è appiattita sulle posizioni dominanti nella NATO, cui oggi appartiene, ha modificato il proprio codice marittimo che fino al 2002, con l'articolo 8, vietava l'ingresso alle navi e sommergibili nucleari o con testate nucleari nelle sue acque territoriali ed infine, nel 2003, ha aderito alla dichiarazione di Vilnius, il documento scritto dal Pentagono per ottenere l'appoggio politico dei candidati NATO alla guerra in Irak.
Anche la diplomazia slovena ha subito un'azione di pulizia interna ed una svolta marcatamente filoamericana; l'ambasciatore Turk se n'è andato diventando per 5 anni consigliere politico di Kofi Annan mentre Rupel, l'uomo di Washington, è tornato in patria trionfalmente come ministro, passando poi dalla liberaldemocrazia al partito neoconservatore di Janez Janša.
Oggi la Slovenia non ha un' opinione propria nè sul NPT nè sulla presenza di ordigni nucleari a pochi km dalle sue frontiere, ad Aviano. Confida ciecamente nella sicurezza garantita dagli USA e si associa automaticamente a chi punta il dito solo sui presunti pericoli di un Iran e di una Corea del nord nuclearizzati.