Si è svolta dal 3 al 10 ottobre scorsi la 26sima edizione del Festival del cinema di Portorose, vincitore a sorpresa di questa edizione il documentario sperimentale “Don not think it will ever pass” di Tomaž Grom. Degno di nota anche "L'uomo senza colpa" del triestino Ivan Gergolet, vincitore del premio miglior regista
Il Vesna (premio principale) per il miglior film è andato al documentario sperimentale “Don not think it will ever pass” di Tomaž Grom, più noto come musicista, che infatti ha riportato pure il riconoscimento per le migliori musiche originali. Queste sono giocate sulla ripetizione un po’ ossessiva e ipnotica di una nota sola con minime variazioni e rare pause di silenzio, quasi a dividere a capitoli. Un film tutto di movimento, con immagini che escono dagli appartamenti e attraversano luoghi diversi (Berlino, Lubiana, la costa adriatica), con la macchina da presa molto vicina al suolo, spesso accelerate, a volte mandate all’indietro. Non c’è un filo apparente nell’ora e venti circa di sviluppo se non il movimento inesauribile: Grom ha compiuto un gran lavoro di montaggio, con effetti anche suggestivi, ma trovarci dei significati può risultare arduo.
Non è la prima volta che le giurie del festival di Portorose compiono scelte che vorrebbero essere provocatorie, assegnando il premio maggiore a un outsider anziché a uno dei titoli che più hanno riscosso l’attenzione di pubblico e addetti ai lavori. Forse uno stimolo, forse una sfida, fine a sé stessa, a un sistema cinematografico che da dentro può sembrare ristretto e chiuso. Di fatto il cinema sloveno è tra quelli, almeno in Europa, che più sono cresciuti negli ultimi decenni. Magari non lo è ancora a livello di vertici, poiché i lungometraggi faticano a entrare nei concorsi delle principali rassegne internazionali, ma contiene una grande varietà di prodotti, forse medi ma ben fatti, e anche indipendenti con valori produttivi e artistici da non sottovalutare. Negli ultimi 20-25 anni si è registrata una grande apertura della Slovenia, a livello di temi, di numero di cineasti, di pari opportunità, di budget medi e di qualità. Passi magari piccoli ma costanti nella stessa direzione, nonostante la politica non sia stata sempre a sostegno degli artisti e delle loro istanze.
Cinque premi per “Wake Me – Budi me” di Marko Šantić, storia di provincia che era già stata in concorso al Trieste Film Festival in gennaio: miglior film di finzione, migliore sceneggiatura (di Šantić con Goran Vojnović e Sara Hribar), miglior attori protagonista Jure Henigman e non protagonista Jurij Drevenšek e miglior trucco di Lija Ivanič.
Meritato Vesna per l’attrice protagonista Diana Kolenc e riconoscimenti per la miglior scenografia di Špela Jelovčan e Vasja Kokelj e miglior sonoro di Julij Zornik e Igor Popovski per “Observing” di Janez Burger, il maggior deluso dell’edizione. Un film forte e angosciante che affronta una questione attuale come la violenza sui social. Un’aggressione in diretta Facebook riceve 20.000 visualizzazioni senza che nessuno chiami la polizia. L’infermiera Lara fa parte dell’equipaggio dell’ambulanza che interviene sul luogo del pestaggio e trasporta la vittima in ospedale in fin di vita. La giovane, che è assunta con un contratto a tempo e attende l’esito di una domanda per un tempo indeterminato, torna in rianimazione a informarsi del paziente ed è presa da un’ossessione per il caso. Mentre persone legate all’episodio o che hanno visto il video iniziano ad avere degli strani incidenti e morire, Lara indaga da sola per scoprire qualcosa. Mentre in città è in atto uno sciopero della raccolta rifiuti, i topi vagano e sembrano un indizio del suo impazzimento, Lara non si dà per vinta nonostante tutto. E il fatto che sua sorella Ema sia incinta non sembra d’aiuto. “Observing” è tutto girato da distante, usando teleobiettivi, usando tante quinte che spesso stringono l’immagine e la chiudono intorno alla protagonista che di fatto si porta addosso il film. Un lavoro duro che non offre vie d’uscita, né alla storia né formalmente: una volta imboccata quella strada, non poteva risultare che così, può essere il suo limite, ma è anche la sua forza.
Vesna per il miglior regista, oltre all’Iridium Award per il miglior debutto e l'Art Kino Network of Slovenia (AKMS) Award, per “L’uomo senza colpa”, primo film di finzione del triestino Ivan Gergolet, noto per il documentario “Dancing with Maria” del 2014. La cinquantenne Angela, addetta alle pulizie di un ospedale triestino, è vedova di Andrej che lavorava in un cantiere navale a Monfalcone, morto a causa dell’amianto. Anche il marito della sua amica Elena lavorava con lui è sul punto di morire per la stessa causa. Un giorno nel nosocomio è ricoverato dopo un malore Francesco, l’ex padrone del cantiere che era stato assolto al processo. Angela si imbatte nel figlio di lui, Enrico, che non la conosce e le chiede di aiutarlo nel successivo trasporto a casa, non essendo il paziente in grado di muoversi. La donna accetta e finisce con il licenziarsi e fare da badante all’uomo, mentre nella sua testa si fanno spazio sentimenti e comportamenti contrastanti.
“L’uomo senza colpa” non è un canonico dramma sociale di denuncia ma fonde questi elementi con quelli del thriller, mettendo insieme il desiderio di vendetta (e tutti i meccanismi che innesca) con il dolore intimo dei personaggi.
Gergolet riesce a stare in equilibrio tra il livello personale e familiare e la scala collettiva e pubblica: la tragedia dell’amianto (ma il discorso vale per altre sostanze che provocano gravi danni alla salute) riguarda i singoli ma anche la società e il regista, che conosce bene la realtà di cui parla, riesce a esplorare ciò che accade dentro le persone e quanto avviene intorno a loro. Il regista scava tra i rimossi, tra il non sentirsi responsabili da parte dell’imprenditore, tra il trovare giustificazioni e anche il non aver capito per tempo. È anche la storia di una comunità che ancora soffre e non trova modo per sanare le ferite. Il film è giocato sulla vicinanza e sulle vite intrecciate: Francesco non è il capitalista lontano (si pensi al rogo della Thyssen-Krupp) che pensa solo al profitto, è un ex operaio che con il suo lavoro si è messo in proprio. I suoi dipendenti lo percepivano come uno di loro, persino un amico come provano le vecchie foto di gioventù con Andrej, per questo la faccenda è sentita non solo come un danno ma pure come un tradimento profondo. In più c’è il rapporto (e il divario) tra le generazioni: Enrico e Daria (figlia di Angela) non conoscono il passato o vogliono dimenticare e non capiscono il comportamento dei genitori.
“L’uomo senza colpa” è un film rigoroso ed emozionante, che pone dilemmi veri, una delle opere prime italiane di finzione più riuscite e importanti degli ultimi anni, da recuperare, peccato che in Italia abbia circolato poco al di fuori del Friuli Venezia Giulia. Se la scrittura è precisa e tutti i reparti sono all’altezza (a partire dalla fotografia di Debora Vrizzi e dalle musiche di Luca Ciut che utilizzano anche i cori popolari), spiccano le prove degli interpreti, a partire dalla straordinaria Valentina Carnelutti che è un’Angela incredibilmente intensa e mutevole, che rende a livello fisico i turbamenti e le contraddizioni che ha dentro.
C’è poi lo sloveno Branko Završan, noto per “Tir” di Alberto Fasulo, che non ha bisogno di parlare per essere fino in fondo “l’uomo senza colpa”. Funziona bene anche il cast di supporto, da Rossana Mortara a Giusi Merli a Paolo Rossi, lui stesso monfalconese, che dà voce a un ex sindacalista che tiene un discorso funebre commosso e a suo modo sincero.
Migliore attrice non protagonista Vesna Pernarčič e migliori costumi a Katarina Šavs per “Vzornik - Role Model” di Nejc Gazvoda, un film che parla di scuola e pandemia. Dopo l’emergenza che ha chiuso tutti i casa, finisce il confinamento e ricominciano le lezioni. Maja è una psicologa che si è appena trasferita da Lubiana in provincia, con il figlio Jan, in seguito alla separazione dal marito. La donna assiste gli insegnanti, che denunciano l’insorgenza di molti problemi psicologici conseguenti al lockdown, e in particolare segue lo studente Jakub che ha tentato il suicidio. Il timido Jan, che nasconde gli occhiali da vista e va a suonare il violino all’aperto per non farsi sentire dalla madre, deve ambientarsi tra i nuovi compagni, ma sono i bulli a prendersi pesantemente gioco di lui. La comparsa della giovane collega Neja sembra trasformarsi in un’insidia per l’ancora instabile Maja. Intanto il ragazzo conosce il vicino musicista suo omonimo che possiede un sintetizzatore: in un tema scolastico scrive di lui come la sua figura modello, da qui il titolo del film. “Role Model” racconta una relazione tra madre e figlio che si devono adattare a una nuova situazione per diversi aspetti e finiscono in crisi tutti e due, senza riuscire più a capirsi e senza potersi aiutare, ma il ragazzo reagisce di più. Al contrario le altre figure, soprattutto i bulli, sono poco definite, solo funzionali ad aprire le ferite dei protagonisti. È un film discreto che affronta tanti dolori esistenziali, il lockdown, la separazione e il bullismo.
Vesna del pubblico, miglior montaggio e premio Fipresci della stampa internazionale al documentario “Woman of God” di Maja Prettner. Un ritratto della quarantenne pastore evangelico Jana nella zona nord-orientale di Murska subota. All’inizio sembra andare tutto bene. Cresciuta in una famiglia di pastori, sposata con una figlia, è molto attiva su diversi fronti. Presto si scopre che deve animare parrocchie di pochi fedeli, viaggia molto, non vive appieno i suoi incarichi e i luoghi, non è realizzata, si sente “stagnante” nel lavoro e nel matrimonio. Si scopre che tra i sei e i dieci anni d’età aveva subito abusi da amico di famiglia, un trauma che credeva di avere superato e perdonato, anche immaginando sofferenze dell’uomo che in seguito si era ammalato. Quando si accorge che forse il passato non è sano e scopre una malattia, nascono dilemmi e decisioni inattese. La regista compie un lavoro di osservazione e di montaggio (veramente ben assegnato il premio) molto interessante, mentre la protagonista che all’inizio sembra dinamica e decisa, diventa un po’ lamentosa quando crescono i problemi.
Miglior documentario, e non poteva essere diversamente, “Telo – Body” di Petra Seliškar, probabilmente la migliore documentarista slovena. Il corpo è quello di Urška, una pianista ed ex modella, ma non nella maniera in cui ci si potrebbe aspettare. Sulle rive di un lago in Macedonia del Nord la donna si racconta mentre passano vecchie immagini degli anni ‘90. Si entra nelle vicende anche drammatiche della donna e i suoi ritorni alla vita, tra malattie e figlie. La regista riesce a sorprendere nel racconto senza dare scossoni, senza caricare inutilmente una vicenda già piena di pathos e colpi di scena. Seliškar propone tante riflessioni, ma il documentario non è mai verboso, anzi trova alcune delle sequenze migliori nelle parti oniriche e visive, in particolare quella del coma che rende molto l’idea. “Telo” tratta la malattia, il senso della vita, l’accettare i cambiamenti interni ed esterni, l’accettare e superare i limiti, l’ospedalizzazione e il sentirsi ridotta a un corpo, il desiderio di continuare e di riprendersi. Tra i momenti molto belli, resta negli occhi il montaggio alternato di Urška che esce dalle acque del lago in due momenti molto diversi della sua vita.
Il Vesna come miglior cortometraggio a “How I Learned To Hang Laundry” di Barbara Zemljič. Oli arriva con un trolley e cerca Maja in un condominio. Non la trova e incontra Miha. Lo ritrova al bar. Finisce a casa da lui. Lei resta lì “come un gatto, dormi tutto il giorno e quando torno ti do da mangiare” dice lui. Dopo il cinema incontrano per caso Minca e il giorno dopo lui se la porta a casa per andarci a letto.
Un Vesna speciale all’altro corto “Zemljia - Soil” di Alex Cvetkov, una coproduzione sloveno-macedone ambientata in Macedonia del Nord pessimista su presente e futuro dell’area balcanica. Spinto dalla moglie Sofi incinta e dall’amica di lei Elena che è emigrata in Slovenia, il disoccupato Gjore cerca un modo per arrivare “in Europa”.
Gjore si sveglia da un brutto sogno mentre guarda il telegiornale. La moglie Sofi incinta se ne vuole andare dalla Macedonia del Nord, non hanno soldi e prospettive. L’amica Elena dice dalla Slovenia che a lei va tutto bene (ma forse non è vero) e di raggiungerla, che “in Europa” è diverso. Gjore si rivolge a un tizio per avere i passaporti bulgari, ma gli chiede molti soldi o gli propone di fare contrabbando. Caricano sigarette in camion dei pompieri, ma c’è un incendio e arrivano senz’acqua e uno muore nel fuoco. Gjore sconvolto vuole partire subito, partono in auto e Sofi partorirà nella terra di nessuno tra una dogana e l’altra.
Altro premio speciale per il toccante “Pero” di Damian Kozole, omaggio a Peter Musevski, uno degli attori simbolo della scena della Slovenia indipendente. Dopo il prologo con riprese familiari dello stesso attore con il suo cane Pingo, personaggio che torna nel prosieguo, il regista racconta il loro ultimo incontro il 31 dicembre 2019 e il progetto di realizzare il loro nono film insieme basandosi su vicende vissute da Peter. Queste compongono la seconda delle cinque parti in cui è suddiviso l’omaggio, ovvero le scene, in forma di finzione, degli incontri con una regista che prima gli propone un ruolo da omicida seriale protagonista di un lungometraggio e poi il ruolo di Lars von Trier nello stesso film. Il primo capitolo è costituito dal laboratorio teatrale che ha coinvolto gli attori e le attrici che hanno lavorato con lui sui set, in una sorta di elaborazione collettiva del lutto. Nella sezione centrale c’è invece un toccante montaggio delle sue scene nei tanti film interpretati. Segue un racconto degli eventi tra marzo e aprile 2020, dalla sua morte al funerale, nel quale entra anche la pandemia, con l’aggiunta di immagini di Matjaž Ivanišin non montate in “Playing Men”. Chiude una lunga chiacchierata, insieme intima e dolorosa, filmata da Kozole a Krk nell’estate 2019 filmata da Kozole.
Fuori dai premi la commedia corale “Poslednji heroj – Shooting Blanks” di Žiga Virc, che usa il tragicomico per provare a ragionare sull’eredità del passato e sull’oggi in maniera non piatta o scontata. Siamo in un paese nella valle dell’Isonzo e France è un uomo di mezz’età jugonostalgico, che ama giocare alla guerra tra partigiani e nazisti, rievocando con gli amici i vecchi scontri. Intanto la figlia Vida vive nella soffitta con il fidanzato Toni perché non può permettersi altro alloggio. In casa c’è anche il nonno, vecchio partigiano che ha l’ossigeno attaccato e conserva un atteggiamento maschilista. Alla notizia che una catena di supermercati tedeschi vuole aprire in zona, France si oppone agitando vecchi fantasmi e coalizzando un gruppo di contrari. Si organizzano per rapire Christina, rappresentante della multinazionale, ma le cose prendono una piega imprevista. Quello di Virc è il classico film basato su un’idea interessante, per quanto non nuova nel panorama ex jugoslavo, ma riesce a portarlo a termine senza incartarsi, facendo anche buon uso dei segreti familiari, senza risparmiare nessuno.
Per gli 80 anni del grande regista e direttore della fotografia Karpo Godina è stato riproposto “Karpopotnik - Karpotrotter” di Matjaž Ivanišin, un ritratto in assenza, partendo dalle immagini della sua viandanza tra i villaggi della Vojvodina nel 1970, poco dopo il folgorante esordio come direttore della fotografia per “Rani radovi” di Želimir Žilnik, ma senza mostrare il protagonista.