“Il giorno in cui finì l’estate” dello sloveno Sebastijan Pregelj, edito da Bottega Errante è un romanzo storico, scritto però in chiave poetica, con una malinconica ironia, che lascia in bocca al lettore il sapore dell’adolescenza vissuta mentre intorno, con essa, finisce un’epoca, un mondo
C’è la foto del maresciallo Tito in copertina del romanzo “Il giorno in cui finì l’estate” dello sloveno Sebastijan Pregelj, edito da Bottega Errante, una di quelle foto che campeggiavano ovunque nella sua Jugoslavia, nelle scuole, nei negozi, negli uffici, nelle fabbriche. Potrebbe sembrare, per questo, un romanzo politico, invece è un romanzo storico, scritto però in chiave poetica, con una malinconica ironia, che lascia in bocca al lettore il sapore dell’adolescenza vissuta mentre intorno, con essa, finisce un’epoca, un mondo.
Pregelj racconta tutto ciò per mano di Jan, un suo coetaneo, visto che l’autore è nato nel 1970 e Jan trae linfa, immagino, da molti suoi ricordi che sono gli stessi, i propri, e non potrebbe essere altrimenti, a cominciare dalla bicicletta avuta in regalo per il suo decimo compleanno. E, seppur la notizia di Tito malato (morirà il 4 maggio del 1980) ormai corre sulla bocca degli adulti, il piccolo Jan, come tutti i bambini della sua età ha altre priorità: la bicicletta, il pupazzo di Superman, le prime curiosità per l’altro sesso a cominciare da una fotografia di donne nude. E poi c’è la scuola, con i suoi riti, la maestra, le sfide con i teppistelli, soprannominati i Calabroni, ragazzi della quarta classe, che tentano di bullizzare lui e suoi piccoli amici. Dall’altra parte, ha la tranquilla e rassicurante vita di famiglia, con mamma e papà, gli zii Gorazd e Taja, il cugino Martin (“Ha due anni e due mesi più di me. In pratica da lui imparo tutto quello che i ragazzini più giovani imparano da quelli più vecchi”) e gli amici Peter ed Elvis. Quest’ultimo è figlio di Fikret, un macedone di origine turca, con tradizioni musulmane, e un fratello più grande, Ali, che nello svolgimento del romanzo, nell’arco di tempo che Pregelj racconta, vedremo dedicarsi con sempre maggiore devozione all’Islam, non a caso parallelamente alla crisi sociale e politica della Jugoslavia.
Questo rapporto con la famiglia di Elvis è emblematico, perché è iniziato con l’amicizia delle due famiglie, quella slovena di Jan e quella bosniaco-macedone di Fikret con la richiesta di quest’ultimo a Jan di chiamarlo zio, vista la frequentazione. C’è, a riguardo, un grande spaccato d’epoca di vita jugoslava – con film, musica, serie televisive americane, fumetti - che emerge, comunque, sempre sullo sfondo della vita privata di Jan, attraverso la quale vedremo, nel tempo, significativamente sfilacciarsi i rapporti con la famiglia di Elvis.
Lo snodo sono la morte e i funerali di Tito, ai quali tutti assistono, e che Pregelj sa raccontare attraverso i diversi occhi dei grandi e dei bambini, non senza le prime domande da parte dei primi, poste quando Tito era ancora malato (“Pensi che verrà davvero la guerra, quando il vecchio non ci sarà più?”) e come una sorta di epifanìa per i secondi. Così abbiamo la pagina di cronaca, che si nutre del ricordo di Jan quando, entrando in classe, gli alunni trovano scritto sulla lavagna “Il nostro Tito è morto”, e poi continua con la famiglia riunita davanti al televisore a guardare “il treno blu che trasporta il presidente defunto da Lubiana a Belgrado, dove lo sotterreranno”, e Jan che se ne esce con la frase “Tito ci guarda tutti” e il padre, sorpreso, che gli chiede il perché. “Tutte le volte che in mensa io e Peter guardavamo verso la fotografia incorniciata del presidente” gli risponde Jan “ci accorgevamo che Tito stava guardando noi – non importava dove fossimo seduti”. Tanto da sfidarlo, cambiando posto ogni volta, per verificare, sì, di essere sempre sotto il suo sguardo come quello di Dio.
La scommessa dell’autore di raccontare la fine della propria adolescenza - con la sua chiamata al servizio militare - e di accompagnare, attraverso quella, la fine anche della Jugoslavia come se si trattasse di un unicum nella comune e reciproca dissipazione, è pienamente vinta. Così come, anche, la capacità di far emergere, sempre attraverso il proprio vissuto privato e la frattura nei rapporti sia personali che sociali con la famiglia musulmana di Elvis, la decomposizione socio-etnica generale.
In quei dieci anni che separano la morte di Tito e l’inizio della guerra interetnica - in una Slovenia che ormai punta all’indipendenza - ci sono tutti i prodromi di quello che accadrà nel 1991. La guerra, seppur ancora non cominciata, sta già, ad esempio, nell’esser chiamato Ali, dai soliti teppistelli, “zingaro”, e poi picchiato al punto da finire in terapia intensiva, fino a che, non arriva la notizia del suo ferimento da qualche parte della Bosnia.
Questa deriva, leggiamo “Era iniziata molto tempo fa, e non poteva finire diversamente. Alì nel parco si incontrava con ragazzi i cui genitori erano per lo più bosniaci. Alcuni dal Montenegro, altri dal Kosovo, mai albanesi. Si divertivano, bevevano e fumavano. Poi uno ha iniziato a portare alcune fotocopie di testi che si erano messi a leggere, e a discuterne. Avevano iniziato a lasciarsi crescere la barba, smesso di bere alcolici, avevano imparato delle parole in arabo”. Così come era già tutto iniziato quando la sorella di Elvis e Alì, Dafne, ancora molto giovane, sarebbe stata promessa sposa a un bosniaco e trasferita a Sarajevo.
Giustamente, riflette Jan alla fine d tutto, se allora, quando lui ed Elvis s’incontravano da ragazzi e parlavano del loro futuro, quella dissoluzione non era sicuramente neppure prevista. C’erano tra loro solo le figurine dei calciatori, dei cestisti, dei cowboy e degli indiani, degli aerei da guerra e delle auto da corsa, per incollarle sui loro album e i loro sogni.
Nostalgia? In parte, sì. Ma significativa a riguardo l’acuta postfazione di Alioša Harmalov che, fin dalla prima riga sottolinea come la nostalgia sia “una bestia astuta” alla quale “ci arrendiamo facilmente, sentendo al contempo una certa soddisfazione catartica”. E sottolinea, altresì, la capacità di Pregelj di “ammiccare ironicamente”, al culto di Tito come “uno status divino già in vita e ancora di più dopo la sua morte, con cui è simbolicamente morta anche la Jugoslavia” e, al contempo, di proporlo “come una presenza ultraterrena – in un Paese che almeno come facciata aveva rinunciato a ogni forma di religione. I ritratti di Tito testimoniano di una sorta di fede nell’animo buono, che protegge il proprio Paese. Una fede” conclude Harmalov, ed io con lui, “che dopo poco si dimostra non sia stata per nulla giustificata”.