#iorestoacasa, e lo fa anche Fabio Fiori, che rispolvera alcuni appunti su un recente vagare istriano in bicicletta. Continua la nostra esplorazione dell'Adriatico, mare che accomuna
La pedalata narrativa continua. Malgrado sull'Adriatico, come su tutta Italia, imperversi la più grande burrasca dal dopoguerra. Un nemico invisibile, che ha antichissimi e terribili precedenti. Chiuso per obbligo, e per responsabilità, in casa, riprendo in mano fotografie e appunti raccolti solo qualche settimana fa, quando in sella percorrevo liberamente strade e stradine, sentieri e poti istriani, da Capodistria a Pirano. Pedalavo il più vicino possibile al mare, in parte sul vecchio tracciato della Ferrovia Parenzana. Giorni feriali di sole, con poca gente in giro.
Echi epidemici lontani, quasi da un altro mondo, quello cinese.
Ma tutto è cambiato in poche settimane. In questo piovoso sabato di marzo, mi trovo in una inaspettata, cupa, straordinaria atmosfera sospesa di quarantena, nella zona gialla affacciata sull'Adriatico, che di fatto va dal promontorio di Gabicce a Punta Sottile, da Rimini a Trieste. Questa mattina forse non potrei certo attraversare spedito, senza alcun controllo una frontiera quasi invisibile, almeno per noi europei! Dubbi di qualche giorno fa, perché oggi che riprendo a scrivere, è tornato il sole sulle rive dell'Adriatico occidentale, ma siamo di fatto tutti in quarantena, da Otranto a Muggia. “Coronavirus ultime notizie: ... Austria e Slovenia chiudono frontiere con Italia”, leggo in una ultim'ora online de Il Sole 24 Ore. Frontiere chiuse quindi, sull'Adriatico, come non accadeva dagli anni Cinquanta del Novecento. Frontiere che sempre in questi giorni tornano ad essere luoghi di feroci conflitti.
Echi migratori lontani, quasi da un altro mondo, quello turco.
Disconnetto la rete, spengo la radio, riordino gli appunti istriani. “Soddisfatto da un yugo street food, in centro a Capodistria, risalgo in sella per proseguire la pedalata in direzione Isola”, trascrivo dal taccuino. Sono andato però prima a cercare la ex-stazione della ferrovia Parenzana. Non è facile trovarla, se non seguendo le indicazioni della preziosa carto-guida “La Parenzana in bicicletta ”, per i tipi di Ediciclo. E' poco distante dalla moderna stazione di Capodistria; l'ex-stazione è un piccolo edificio in pietra a vista, seminascosto da un magazzino di materiali edili, di fronte al centro commerciale Vinakoper. Motrici, carrozze, binari sono spariti. In una parte della ex-stazione c'è un negozio di fiori, dove entro, saluto, mi guardo intorno, chiudo gli occhi e respiro immaginando le eleganti viaggiatrici della Belle Epoque. Quando riapro gli occhi vedo la commessa che mi guarda perplessa, mentre prepara un mazzo di rose. “Nasvidenje, arrivederci”, gli dico uscendo furtivamente. Lei sorride, scuotendo la testa.
Veloce, per vie traverse ritorno al mare e prendo la ciclabile che corre di fianco all'Istrska Cesta e poi la Pristaniška Ulica. Quattro chilometri meravigliosamente ciclopedonali, realizzati sull'ex-tracciato della ferrovia, a sua volta costruito ai primi del Novecento, strappando qualche metro al mare. Un luogo bellissimo, una traccia costiera che collega direttamente passato, presente e futuro. Un futuro meno congestionato dal traffico automobilistico e più rintrecciato con l'ambiente naturale. A poche centinaia di metri da questa riva si incagliò e poi, l'8 settembre 1944, venne affondato uno dei simboli del novecentesco illimitato progresso: il transatlantico Rex. Lungo 268 metri, largo 30, con motori da 120.000 cavalli e quattro eliche di 5 metri di diametro e 16 tonnellate di peso, era stato varato nel 1932 e aveva vinto l'anno dopo il “Nastro azzurro”, il premio per la più veloce attraversata dell'Atlantico, fatta in poco più di 4 giorni a una velocità media di quasi 30 nodi. Orgoglio della tecnica italiana, lustrino della propaganda fascista, feticcio dell'arte felliniana. Del ladja Rex mi fermo a vedere le gigantografie appese al muro di contenimento della scarpata, sulla sinistra. Poi vado a sedermi sugli scogli per ascoltare dal mio smartphone “Tutti a vedere il Rex”, allegra ballata circense di Nino Rota. “We love Fellini!”, mi urlano due ragazzi che sfrecciano coi roller, tenendosi per mano.
Isola non è più un'isola, ma il suo molo in pietra d'Istria ha già tutto il fascino di quelli delle isole istro-dalmate. Invita al tuffo, alla comunione carnale con le acque cristalline dell'Adriatico orientale. Oggi Isola è una cittadina turistica, ma la ciminiera di mattoni rossi che svetta nella zona sud del paese, ricorda il suo passato di porto peschereccio, di industria conserviera, fiorita alla fine dell'Ottocento. In una cartolina degli anni Trenta del Novecento, si legge “Ampelea Conservificio”, a caratteri cubitali sul muro dello stabilimento, di fronte a cui ormeggiava la numerosa flotta di sardellare, le barche che ancora alzavano le grandi vele al terzo. Un'attività incominciata da un imprenditore francese nel 1879, che cambiò proprietà e nomi nei burrascosi decenni successivi, fino a diventare Delamaris ed essere trasferita qualche anno fa. Alle mie spalle, il campanile della Chiesa di San Mauro, restituisce chiaramente la ancor più antica storia veneziana della città. Realizzato nel Cinquecento in pietra arenaria istriana, è un pinnacolo di trenta metri costruito nel punto più alto del paese. Il rapporto strettissimo con la Serenissima, è riassunto in tre righe dalla vecchia guida del Touring che mi accompagna: “Nel 1280 di dette a Venezia e nel 1797 il popolo uccise il podestà veneto Pizzamano perché non si ribellava alla pace di Campoformio”.
Il tempo stringe e devo rimettermi in strada, alla volta di Pirano, che dista una decina di chilometri. Non seguo la Parenzana: preferisco salire verso Rt Ronek, Punta Ronco, un bel promontorio marnoso che protegge dai venti settentrionali Strugnano, antico centro peschereccio e salinaro. Mi fermo solo qualche minuto, giusto il tempo di ritrovare atmosfere cinquecentesche nel Santuario di Santa Maria della Visione. Scendo verso la piccola laguna e le saline, alla foce del torrente Roja. Geografie e storie che meriterebbero una lunga sosta, un cammino e uno sguardo attento. Ma la bici, come ogni strumento, ha pregi e difetti, è futurista, consente sguardi fuggevoli, emozioni carnali prima che intellettuali. “Sul mio cavallo d’acciaio io volo”, scriveva Carlo Michelstaedter, filosofo, scrittore, artista e ciclista, “Volo e la corsa veloce mi apre i polmoni ed il core, / Volo e la strada fuggente di sotto alla ruota anteriore”. Per me non è una strada ma una passeggiata suggestiva, la “Fiesa”, un viottolo lastricato. Corre stretto tra le acque adriatiche e la bassa falesia che sale fino a lanciarsi in mare, in direzione ovest: quartiere Punta di Pirano. Ho in vista il campanile del Duomo di San Giorgio. Sono nel borgo vecchio, scendo dalla bici e vado a piedi, salendo l'erta fino al verdissimo prato antistante il duomo. Un belvedere straordinario, che si apre su tutto il Golfo di Trieste, da Punta Salvore al campanile di Aquileia, alle ciminiere di Monfalcone, al ciglione carsico e ancor più lontane alle vette innevate alpine.
San Marco e San Giorgio, icone mediterranee d'occidente e d'oriente s'incontrano qui a Pirano, i loro vessilli sono scolpiti sulla bianca pietra istriana, alla base dei due pili, le aste portabandiera, in Piazza Giuseppe Tartini.
Mi fermo qui, chiudo carte, guide, taccuini, foto e file. Vado a passeggiare, da solo, in riva al mare. Per una volta non ascolto l'onda, ma la più famosa sonata per violino di Tartini: “Il trillo del diavolo”. Per lui l'ispirazione fu un'apparizione demoniaca notturna. Per me questa musica è oggi il vento che riempie la mia vela, la mia visione diurna. Lascio questa spiaggia, due bordi, cento miglia, il tramonto al largo e all'alba l'approdo al mandracchio piranese. Ho con me un ex-voto da portare nella Chiesa della Madonna della Salute. Me lo ha dato la notte scorsa in sogno un marinaio. Al centro c'è un trabaccolo che alza grandi vele color ocra. In una c'è scritto: “Mare liberum”.