Sergio Mattarella e Borut Pahor - Foto Quirinale

Sergio Mattarella e Borut Pahor - Foto Quirinale

Il conferimento a Trieste della laurea "honoris causa" ai due presidenti di Slovenia e Italia, Borut Pahor e Sergio Mattarella, ha visto una cerimonia tutta improntata al superamento del passato ed alla cooperazione biltaterale. Sui due lati del confine restano però incomprensioni e sospetti

17/04/2024 -  Stefano Lusa Capodistria

“Alla fine di luglio del 2020 stavo passeggiando per Capodistria, quando mi fermò un ragazzo. Mi diede la mano e mi ringraziò per quello che avevamo fatto con il presidente Mattarella. (…) Aveva 16 anni, era un giovane della comunità italiana in Slovenia e mi raccontò che la sua famiglia aveva assistito alla cerimonia con le lacrime agli occhi. Mi sono commosso profondamente e mi ha colto un forte senso di soddisfazione”.

L’ex presidente sloveno Borut Pahor non fa marcia indietro di un millimetro e riafferma che l’omaggio alla Foiba di Basovizza ed al monumento ai quattro fucilati antifascisti, fatto insieme al campo di Stato italiano nell’occasione della riconsegna del Narodni dom alla minoranza slovena, il 13 luglio 2020, è stata una scelta saggia e necessaria per costruire rapporti di buon vicinato e di amicizia tra sloveni ed italiani.

L’occasione è stata il conferimento della laurea “honoris causa”, la scorsa settimana, ai due capi di stato da parte dell’Università di Trieste, che così ha festeggiato il suo centenario. Una cerimonia tutta improntata al superamento del passato, alla collaborazione reciproca, durante la quale è stato sottolineato che i due Capi di stato “hanno saputo coraggiosamente ripudiare la prospettiva angusta dell’egoismo nazionalistico, per perseguire invece una politica di riconciliazione”.

L’iniziativa ha destato un certo interesse in Slovenia, ma non ha riempito le pagine dei giornali. Gli anni Novanta sono passati. All’epoca i rapporti tra Roma e Lubiana erano tesissimi. Sul piatto c’erano le proprietà degli esuli e i blocchi italiani al cammino europeo della Slovenia. In quel periodo ogni incontro era motivo di mille polemiche e di infuocate riflessioni sulle presunte mire espansionistiche italiane e sull’astuzia della diplomazia romana.

L’onda lunga di quella burrascosa stagione si riverbera ancora nei rapporti bilaterali o almeno nel racconto che ne fanno i giornali. Il Delo, il principale quotidiano nazionale così, titola: “Il riconoscimento della politica di riconciliazione solo davanti alla fotografia della foiba”. Nel corso del conferimento delle lauree ai due presidenti, infatti, è stata proiettata l’immagine dei due capi di Stato mano nella mano davanti alla foiba di Basovizza. Una scelta che non è andata giù a Ksenija Dobrila, presidente della SKGZ, l’organizzazione che riunisce il centrosinistra della minoranza slovena in Italia, che critica l’assenza di altre immagini come quella del Narodni dom, dove tutto era cominciato o quella mano nella mano dei due presidenti al monumento ai fucilati antifascisti sloveni e croati.

Dà voce all’opinione di molti commentatori ed opinionisti sloveni, che da tempo rilevano come la narrativa italiana sulle foibe sia una storia senza contesto. Significativamente l’Associazione slovena per i rapporti internazionali ha recentemente organizzato un dibattito sul nazionalismo italiano ed i suoi pericoli. L’ex diplomatico Bojan Grobovšek, cresciuto a Trieste, è arrivato a teorizzare che la miglior risposta alle “falsità” diffuse dall’Italia ed alle “mistificazioni” della storia potrebbe essere un film che narri come sono andate le cose veramente. Non una pellicola qualsiasi, ma un colossal hollywoodiano come fu, ad esempio, con "La Battaglia della Neretva" o "La quinta offensiva", dove a vestire i panni del maresciallo Tito fu Richard Burton.

Per la scelta di andare alla foiba Pahor venne ampiamente criticato in patria ed ancor oggi è nel mirino soprattutto di quell’ampia fascia di persone che, principalmente a ridosso della frontiera, in nome di un fervente antifascismo fanno alla fine sempre emergere il loro malcelato nazionalismo. Intollerabile che si ammetta che qualcosa di male sia accaduto agli italiani nel dopoguerra e se poi qualcosa è successo non può essere altro che espressione di “comprensibili” vendette per le malefatte del fascismo, per la sua politica di snazionalizzazione e per la durissima occupazione del Regno di Jugoslavia.

Che nelle aree di confine ci siano ancora seri problemi a raffrontarsi con il passato è apparso evidente anche a Capodistria, dove in una mostra dedicata ai 1500 anni della diocesi, gli “esperti” del comune hanno usato il termine “emigrazione” per parlare dell’esodo della popolazione autoctona dopo la Seconda guerra mondiale. Non va meglio nemmeno a Trieste, dove recentemente nell’ambito dei viaggi del ricordo di una serie di scuole romane sono state cancellate all’ultimo momento le visite al Narodni dom e monumento ai quattro antifascisti fucilati, dopo le polemiche scatenate da alcuni esponenti del centrodestra.

Alla fine, il progetto di tutti i nazionalismi è sempre lo stesso e mira ad avere il monopolio sulla “verità”. Per dirla con Jacques Prévert però “quando la verità non è libera, la verità non è vera”.

Al di là degli incidenti di percorso, la strada tracciata da Pahor e Mattarella sembra irreversibile. In Slovenia, in ambito accademico, proseguono gli studi che vanno ad indagare anche il dolore degli altri, le memorie di comunità divise. Studi antropologici, che recentemente stanno coinvolgendo anche storici, come quelli promossi dalla professoressa Katja Hrobat Virloget dell’Università del Litorale. In Italia gli storici dal dopoguerra in qua hanno indagato a fondo e senza sconti sulle malefatte del fascismo, anche nell’area adriatica. Il problema resta però sempre quello dell’uso pubblico della storia e quello di classi politiche che costruiscono le loro fortune più parlando del passato che cercando di costruire il futuro.

Gli unici che ci stanno veramente provando sono i goriziani con la loro Capitale europea della cultura e almeno questa è una buona notizia.