Era partito male il semestre sloveno di Presidenza del Consiglio dell'UE e non è finito proprio bene: qualche punto diplomatico messo a segno ma scarsi risultati sulle decisioni più importanti, compreso l'allargamento UE ai Balcani occidentali
Il premier Janez Janša aveva già gestito con un certo successo quella che era stata la prima presidenza dell’Unione di un paese di nuova adesione. A tredici anni di distanza l’onore è toccato nuovamente proprio a lui. La seconda volta di Lubiana alla testa dell’Unione era stata concepita come un’importante vetrina internazionale per quello che era stato il paese uscito meglio dalla dissoluzione della Jugoslavia. L’intento evidente era quello di aumentare la riconoscibilità internazionale e confermare l’efficacia del proprio apparato diplomatico e organizzativo. Ora Lubiana sta già pensando alla candidatura a un seggio non permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Le cose però sono cominciate ad andar male sin da prima che l’incarico iniziasse. Nel paese è in corso la solita “guerra civile” tra destra e sinistra ed i detrattori del premier avevano cominciato a denunciare un po’ dappertutto che Janša ed i suoi alleati stavano usando la pandemia per dare al paese una svolta autoritaria e per portare la Slovenia nel novero delle democrazie autoritarie, sull'esempio di Ungheria e Polonia.
A livello internazionale, però, ad accendere le polveri è stata la visita del presidente della repubblica Borut Pahor alla Bosnia Erzegovina, che nel corso di un incontro con i rappresentanti della presidenza avrebbe posto la questione della divisione della federazione. L’esponente serbo Milorad Dodik ha subito colto la palla al balzo e raccontato pubblicamente che a livello europeo si starebbe ventilando l’ipotesi di dividere il paese. Come se ciò non bastasse, poco dopo è uscito un ipotetico “non paper” “sloveno” su un riassetto globale dei confini nei Balcani, dietro cui ci sarebbe stato addirittura lo zampino del premier Janez Janša. La polemica che ne è seguita è stata magistralmente sfruttata dall'opposizione di centrosinistra che non ha fatto sconti al governo.
È stato solo il prologo di quello che si sarebbe visto e rivisto anche nei mesi successivi. Janez Janša, con il suo solito comportamento poco istituzionale, non ha mancato di far salire alle stelle i toni del confronto prendendosela anche a livello europeo con giornalisti e politici, puntando anche il dito contro la sinistra e i liberali, colpevoli di ordire una serie di complotti contro di lui, che a suo dire sarebbero pilotati direttamente dalla Slovenia. Il risultato è stato quello di far partire il semestre di presidenza slovena sotto i peggiori auspici.
Così, sin dalla prima visita della commissione Europea in Slovenia, all’inizio del semestre di presidenza, non sono mancate tensioni e censure a causa di quelli che sarebbero i tentativi messi in atto per disciplinare la stampa, per quello che sarebbe una interpretazione allegra del rispetto dello stato di diritto ed anche per la travagliata vicenda della nomina dei magistrati sloveni nella procura europea. Alla fine, Lubiana è stato il primo paese che nel suo periodo di presidenza, si è visto votare dal Parlamento europeo una risoluzione sulla situazione interna in materia di diritti fondamentali e sullo Stato di diritto. Nella stessa sessione gli europarlamentari hanno approvato anche documenti sulla situazione in Russia, a Cuba ed in Nicaragua. Cinicamente i critici hanno constatato che la classe politica slovena è riuscita nell’incredibile impresa di esportare in Europa il riottoso clima politico nazionale, visto che sulle critiche mosse, il Parlamento europeo si è spaccato tra centrodestra e centrosinistra esattamente come avviene in Slovenia.
Alla fine, in tutto questo caos, le decisioni più importanti sono state lasciate al futuro: alcune si concretizzeranno forse già nel semestre di presidenza francese. Da Bruxelles i conoscitori dei meccanismi comunitari, però, sono pronti a dire che dal punto di vista tecnico Lubiana se l’è cavata anche bene. I suoi diplomatici sono riusciti a mediare tra i vari interessi in materia di digitalizzazione e di salario minimo; mentre la Slovenia sarebbe riuscita ad aprire alla Croazia le porte per l’adesione a pieno titolo all’accordo di Schenghen.
Un ruolo non marginale sarebbe stato giocato anche alla conferenza sul clima di Glasgow. L’appuntamento più importante, il vertice informale sui Balcani occidentali, in programma al castello di Brdo, si è chiuso con un capolavoro diplomatico, che è riuscito a sintetizzare in un documento le diverse posizioni all’interno dell’Unione sui Balcani. Al di là dell’esercizio stilistico però non è arrivato il risultato che si sperava: una data concreta per l’allargamento.
Dagli ambienti governativi non mancano di dire che il semestre sloveno è stato un successo e che l’unica pecca è stata la mancata unità della classe politica nazionale. A suffragio delle simili valutazioni non mancano di citare funzionari di vario livello dell’Unione europea, che con il solito “bon-ton” istituzionale hanno ringraziato Lubiana per il lavoro svolto e per quella che sarebbe stata un’ottima collaborazione. Nei mesi scorsi i rimbrotti che arrivavano da Bruxelles per la situazione politica in Slovenia non erano stati accolti con lo stesso entusiasmo e nemmeno presi altrettanto sul serio.