Akçakale, cittadina turca sulla frontiera con la Siria, dallo scorso 3 ottobre, quando colpi di mortaio provenienti dall'altra parte del confine hanno ucciso una madre e le sue figlie, è meta constante di politici e rappresentanti istituzionali di Ankara. La città, nonostante la paura, è divenuta simbolo della Turchia che non cede ed è pronta a reagire alle provocazioni siriane. Nostro reportage
Le porte e le finestre della casa di Maryam sono spalancate. “Siamo stati qualche giorno al villaggio dai genitori di mio marito, ma non possiamo trasferirci lì per sempre, quindi siamo tornati nonostante la paura, dove altro possiamo andare?”, dice la donna mentre fa le pulizie. L’edificio, centrato dal colpo di mortaio che ha ucciso Zeliha Timuçin, le sue tre figlie e una vicina di casa lo scorso tre ottobre è solo qualche metro più in là. Sul muretto che separa il cortile interno dalla strada è ben visibile il cratere aperto dal missile siriano. “Abbiamo sentito una forte esplosione, le schegge del proiettile che ha ucciso Zeliha sono arrivate fino al nostro giardino - racconta Maryam - erano più di venti giorni che eravamo sotto tiro, ma le autorità, i politici e i giornalisti sono arrivati solo ora”.
La calma apparente che ha spinto Maryam a tornare a casa tuttavia è durata poco, quattro giorno dopo la morte di Zeliha e le sue figlie, il 7 ottobre un nuovo colpo di mortaio ha colpito Akçakale, questa volta senza fare vittime. “Devono evacuarci tutti, siamo in pericolo. Basterebbe metterci a disposizione qualche hotel in città e potremmo trasferirci in un luogo più sicuro”, dice Emine, giovane madre, sul minibus che da Urfa porta al paese. Le autorità di Ankara tuttavia non vogliono evacuare i trentamila abitanti di Akçakale, cittadina che per il governo è diventata simbolo, suo malgrado, di una Turchia orgogliosa che difende con forza i suoi confini dagli attacchi esterni.
Così dal 3 ottobre sul piccolo paese di confine si sono accesi i riflettori e le visite ufficiali sono divenute quotidiane. Parlamentari dei maggiori partiti, il prefetto di Urfa, il ministro dell’Educazione Ömer Dinçer e il Capo di stato maggiore dell’esercito Necdet Özel sono arrivati ad Akçakale per porgere le loro condoglianze a Ömer Timuçin. Seduto all’entrata della tenda allestita qualche chilometro a nord del paese per la veglia funebre l’uomo, distrutto, parla a fatica: “Un colpo di mortaio siriano ha distrutto la mia casa e spazzato via la mia famiglia, ho perso mia moglie e le mie figlie, che altro c’è da dire. Pensavamo di essere al sicuro, tra il confine e la nostra casa c’erano altri edifici. Tra più di duecento famiglie il destino ha scelto noi”, racconta. Il dolore è grande, ma i parenti della donna uccisa non chiedono vendetta: “Non vogliamo la guerra, ci devono proteggere certo, ma se il conflitto si facesse più violento rischiamo che si ripetano tragedie come quella di cui siamo stati vittima noi”, dice Naif, zio di Zeliha.
Sulla linea di confine, tensione e carri armati
Il confine tra Siria e Turchia passa a qualche centinaia di metri dal centro del paese, lì i carri armati dell’esercito turco presidiano la frontiera con i cannoni puntati, pronti a colpire obiettivi militari in territorio siriano come avvenuto il 4 ottobre. Oltre i treni merci parcheggiati sui binari vicino alla dogana è facile scorgere le bandiere con le tre stelle rosse della “Siria libera” issate dai ribelli che controllano Tall Abyad. Il paese siriano e Akçakale, separati solo dalla ferrovia, sembrano due quartieri di uno stesso villaggio. Poco più in là un gruppo di rifugiati tra cui donne e bambini, che hanno appena attraversato il confine, vengono interrogati dai soldati prima di essere trasferiti nel campo di Akçakale, che ospita circa diecimila dei quasi centomila cittadini siriani che hanno trovato rifugio in Turchia.
La tensione tra Damasco ed Ankara rimane alta. Dopo sei giorni di fuoco incrociato tra i due paesi tra il 4 e il 10 ottobre, e l’invio di 250 carri armati al confine, mercoledì l’aviazione turca ha imposto l'atterraggio ad Ankara ad un aereo della Syrian airlines decollato da Mosca e diretto in Siria, per perquisirne il carico. Secondo il premier turco Erdoğan il velivolo trasportava “equipaggiamento militare e munizioni”, inviate da un’azienda russa al ministero della Difesa siriano. Un’affermazione smentita tuttavia da Mosca: “A bordo dell’aereo c’era solo materiale elettrico per sistemi radar, imbarcato regolarmente”, ha dichiarato il ministro degli Esteri russo Lavrov. Mentre continuano le indagini sul carico russo, Damasco domenica ha chiuso il suo spazio aereo ai voli civili turchi, una mossa a cui Ankara ha risposto con il divieto di sorvolo per i velivoli siriani.
La Turchia vuole una no-fly-zone
L’obiettivo della Turchia, secondo diverse analisi pubblicate dai quotidiani turchi e riprese dalla stampa internazionale, sarebbe creare una no-fly-zone di undici chilometri in territorio siriano per tenere le truppe di Damasco lontane dal confine, ma anche per dare maggiore libertà di movimento al Libero esercito siriano e monitorare l’azione degli autonomisti curdi del PYD, che controllano vaste aree nel nord-ovest della Siria. Venerdì due F-16 dell’aviazione di Ankara si sono alzati in volo quando i radar turchi hanno intercettato un elicottero siriano che stava bombardando la cittadina di Azmarin, otto chilometri a sud del confine tra i due paesi. Sebbene i jet non abbiamo aperto il fuoco, quanto avvenuto è un segnale che il premier Erdoğan si sta preparando a creare una no-fly-zone de facto nello spazio aereo siriano. "La scorsa settimana fonti ufficiali hanno riferito ai media turchi che la Siria aveva assicurato ad Ankara che avrebbe tenuto le proprie forze armate a dieci chilometri di distanza dal confine con la Turchia. Damasco fino a ora non ha confermato, ma neanche smentito questa indiscrezione”, ha scritto sul Guardian Martin Chulov lo scorso 12 ottobre.
Se da un lato il conflitto tra Ankara e Damasco si fa sempre più teso, il governo turco deve anche fare i conti con un'opinione pubblica che sarebbe, secondo i sondaggi, fortemente contraria a un intervento militare contro la Siria e non sembrerebbe per ora intenzionato ad andare oltre le rappresaglie di questi giorni senza il supporto della comunità internazionale. Secondo Fikret Bila, analista politico del quotidiano Milliyet, la Turchia però è stata lasciata sola: “La guerra civile in Siria non riguarda solo la Turchia ma, a quanto pare, si affronta il problema come se fosse solo turco. Le Nazioni Unite, bloccate dai veti di Russia e Cina, rimangono a guardare, gli Stati Uniti aspettano il risultato delle elezioni presidenziali e l’Unione europea è bloccata dalla crisi economica. Se la comunità internazionale continuerà a fare da spettatore senza intervenire, sarà prima di tutto la Turchia a pagare le conseguenze di questa crisi”.