Ihlara, villaggio in Turchia (© yilmazsavaskandag/Shutterstock)

Ihlara, villaggio in Turchia (© yilmazsavaskandag/Shutterstock)

Agli inizi del '900 la gran parte della popolazione della Turchia viveva in aree rurali. È lì che, dopo la rivoluzione kemalista, nacquero gli "istituti di villaggio", centri di insegnamento e alfabetizzazione. Durarono alcuni decenni e poi vennero chiusi perché "veicoli di idee sovversive"

19/03/2021 -  Francesco BrusaCosimo Pica

Oggi, quasi un quarto degli abitanti della Turchia è concentrato a Istanbul, enorme agglomerato che si estende a cavallo di due continenti diversi. Anche la capitale Ankara supera i cinque milioni di residenti e altri grandi centri come Izmir o Bursa si caratterizzano per ospitare nella propria area urbana un elevato numero di persone. Coloro che, invece, vivono in un contesto rurale rappresentano poco più del 20% della popolazione. Provando a fare un salto indietro di quasi un secolo, le proporzioni risulterebbero praticamente ribaltate. Nei primi anni dell’età repubblicana, infatti, quando la megalopoli sul Bosforo contava 600mila cittadini contro gli attuali 15,4 milioni ufficiali, l’80% della popolazione turca si radicava in villaggi e piccoli centri ed era per la maggior parte analfabeta. L’educazione veniva impartita principalmente nelle madrasa, istituti di stampo religioso, mentre nel 1928 l’alfabeto latino andava a rimpiazzare per decreto quello arabo. "Il vero maestro della Turchia è il contadino", ebbe a dire in quel periodo il fondatore della nazione Mustafa Kemal Atatürk.

Si trattava del momento di “nascita della nazione”, di uno sforzo costante e per certi aspetti violento di modernizzazione pianificata e generale. Eppure, proprio in quegli anni e sulla scorta di un’idea di sviluppo che non poteva che guardare alla natura fortemente rurale della società, nacque una delle esperienze educative più interessanti e più controverse nella storia della penisola anatolica. Dopo una prima fase di sperimentazione, il 17 aprile 1940 con la legge n.3803 vennero ufficialmente aperti i primi Koy Enstitusu, “istituti di villaggio”: centri di insegnamento e alfabetizzazione concepiti apposta per “penetrare” nei contesti extra-urbani che, però, nel giro di circa un decennio vennero definitivamente smantellati con l’accusa di propagandare presso la popolazione “idee sovversive”. Così riassume brevemente la vicenda Erik J. Zürcher nel suo Storia della Turchia: "Gli istituti di paese ebbero un successo notevole finché durarono, ma con l’avvento politico del pluralismo politico dopo la Seconda guerra mondiale divennero un ostacolo per il governo, in quanto l’opposizione li accusò di diffondere il messaggio comunista. Nel 1948, il governo trasformò gli istituti in semplici scuole per la formazione dei docenti. Quando il Partito democratico arrivò al potere nel 1950, li abolì del tutto".

Una memoria contesa

Come è stata controversa all’epoca la creazione e lo sviluppo degli istituti di villaggio, così non esiste un’interpretazione univoca di cosa abbia significato quell’esperienza per la società turca. La memoria di chi vi ha preso parte in qualità di allievo o di docente viene spesso tramandata con accenti fortemente positivi e nostalgici. Halil Özkan, che ha studiato nell’istituto del piccolo centro di Aksu (distretto meridionale dell’Antalya), in un’intervista che ha rilasciato ad alcuni ricercatori accademici nel 2019 elenca tutta una serie di qualità di quel sistema educativo e afferma: "Gli istituti di villaggio erano molto diversi dalle scuole odierne". Gli fa eco un poema scritto da Hüseyn Köken, che ha insegnato sempre presso lo stesso centro di Aksu: "Non volevano portare il fuoco della civilizzazione nei paesi / Non volevano porre fine al fanatismo / Ecco perché hanno deciso di chiudere gli Istituti di Villaggio". Fra il 1974 e il 1978, Özkan è stato tra l’altro sindaco della città di Korkuteli, esperienza per la quale - racconta nell’intervista - la sua formazione presso l’istituto di Aksu si è rivelata "fondamentale".

Similmente, altre personalità e altri gruppi di persone si sono spesi per dare dignità a una vicenda che, per quanto caratterizzante di un certo periodo e di una certa visione del paese, rimane spesso marginale nei resoconti della storia della Turchia. Il giornalista Can Dündar, per esempio, che vive ora in esilio in Germania dopo aver subito un arresto e una condanna da parte del regime erdoganiano per aver rivelato attraverso le sue inchieste lo scandalo delle armi fornite dai servizi segreti turchi ai combattenti jihadisti in Siria, ha pubblicato nel 2000 un intero libro sull’argomento, che si intitola appunto Koy Enstituleri. Oppure l’associazione Yeni Kuşak Köy Enstitülüler Derneği, costituita nel 2001 e che ha provato a riunire e mettere in connessione i parenti di coloro che hanno studiato o insegnato negli istituti di villaggio per tenere viva la memoria di quell’esperimento educativo. Come afferma il professore dell’Università di Kirklareli Arzu Ekoç in una sua ricerca : "Prendere gli istituti di villaggio a modello non significa volerli nuovamente rifondare nella Turchia odierna, bensì arrivare a considerarli come una parte significativa nella nostra eredità sociale. Inutile dire che le condizioni demografiche del paese sono cambiate molto. Tuttavia, i loro principi primari basati su cooperazione, collaborazione, equità, produzione e creatività possono essere applicati in qualsiasi contesto".

Nel 1928, anno in cui in Turchia venne introdotto l’alfabeto latino in vece dell’alfabeto arabo, l’82,5 percento della popolazione maschile e il 95,2 percento di quella femminile era analfabeta. In tutto il paese c’erano 4894 scuole elementari, quasi esclusivamente concentrate nelle città o nei comuni più estesi. In un tale contesto, gli istituti di villaggio si proponevano di cambiare radicalmente le condizioni delle aree rurali, proponendo un modello di insegnamento di carattere vocazionale e pratico: studenti e studentesse erano chiamati non solo a imparare materie teoriche, ma anche a esercitarsi con lavori veri e propri nonché a partecipare nella costruzione degli istituti stessi. In pratica, veniva a costituirsi una sorta di “cellula produttivo-educativa”, che poteva essere replicata di villaggio in villaggio e che, allo stesso tempo, era strutturata in modo da potersi adattare ai differenti contesti comunitari. Un principio di laicità dell’insegnamento veniva introdotto in un panorama rurale dominato dalla mentalità religiosa, mentre attraverso l’alfabetizzazione si provava a cementificare un sentimento di unità nazionale.

Espressione del kemalismo?

In questo senso, è la nascita stessa degli istituti di villaggio a essere controversa, in quanto si inscrive pienamente negli sviluppi dell’ideologia kemalista e del Partito repubblicano che in quel momento guidavano il paese.

Per comprendere meglio la genesi degli istituti di villaggio occorre rivolgere lo sguardo alle idee del pedagogista İsmail Hakkı Tonguç, vero e proprio artefice di tale esperimento. Dopo aver terminato la scuola per insegnanti, Tonguç ha trascorso diverso tempo in Germania dove è venuto in contatto con importanti pedagogisti come Pestalozzi e Dewey che teorizzavano un tipo di educazione che potremmo definire pragmatica, basata sull’idea che le persone potessero contribuire all’avanzamento della propria società formandosi in occupazioni conformi alla loro personalità e ai loro desideri.

Inoltre Tonguç, provenendo da una famiglia di origini balcaniche e legato alle esperienze rurali dell’area, considerava i villaggi, per le loro peculiarità culturali, come i luoghi in cui potevano essere consacrati i valori etici e sociali più elevati, così come un’economia basata sulla famiglia in contrapposizione alla degenerazione legata ai fenomeni di urbanizzazione e industrializzazione. In tal senso i villaggi erano visti come i luoghi più remoti della divisione del lavoro capitalista, e quindi avulsi anche dalle dinamiche di contrapposizione di classe. Praticamente il luogo ideale per applicare quella sorta di terza via tra comunismo e liberalismo che le élite kemaliste provavano a propugnare.

La pedagogia di Tonguç mirava ad essere il motore di uno sviluppo sociale complessivo del territorio anatolico. Motivo per cui gli istituti di villaggio andavano oltre l'ambito dell'alfabetizzazione e dell’istruzione, e puntavano decisamente sulla formazione professionale, basata sull’apprendimento pratico di mestieri utili allo sviluppo locale, proiettando gli abitanti del villaggio ad essere i pionieri di una nuova società. In tal senso gli istituti di villaggio erano parte di un complessivo progetto di uniformazione culturale nazionale di stampo kemalista dei nuovi cittadini della repubblica. Motivo per cui furono incentivate largamente anche la lettura e l’arte, soprattutto quella teatrale.

Il principio pedagogico di base era riassumibile nella forma “educare tramite il lavoro”, con gli studenti che divenivano in maniera integrale il fulcro degli istituti, partecipando ad ogni fase di vita di queste realtà, a partire dalla costruzione materiale delle scuole, fino alla progettazione dei curricula, che in una prima fase erano modulati in base alle esigenze e alle capacità locali, cambiando da territorio a territorio. Sicuramente questo era uno degli aspetti più interessanti, che, tra l’altro, ha poi alimentato la retorica degli avversari degli istituti di villaggio che li additavano come possibili cellule di propaganda di idee progressiste, vista la loro propensione alla vita collettiva e alla condivisione di idee e scelte comuni.

Parte di un più ampio progetto politico?

In realtà, già prima della chiusura definitiva del 1954 nell’era di governo del Demokrat Parti, all’interno di una restaurazione complessiva di alcune fratture della società turca, gli istituti di villaggio avevano perso la possibile carica innovatrice con l’irrigidimento e l’uniformazione dei curricula avvenuta prima sotto il ministero di Hasan Ali Yücel nel 1943, e infine con Reşat Şemsettin Sirer che, nel 1947, ha definitivamente azzerato la libertà e la flessibilità fornita agli insegnanti.

L’esperimento educativo, insomma, mutava e “tramontava” assieme all’esperienza politica che lo aveva fino a quel punto sorretto e informato di senso. Oltre ad aspetti innovativi e di assoluto interesse pedagogico, infatti, non si può tacere sul ruolo globale che hanno avuto gli istituti di villaggio quale parte del complessivo processo di unificazione ed uniformazione culturale nazionale sotto l’egida delle frecce kemaliste che hanno causato non poche lacerazioni all’interno del composito tessuto sociale anatolico: la frattura tra élite urbane e mondo rurale è stata un tratto distintivo del processo di costruzione nazionale e proprio nelle campagne anatoliche si sono sviluppate le maggiori resistenze alla nuova visione repubblicana.

Il nazionalismo escludente di stampo kemalista ha inoltre avuto forti ripercussioni nei rapporti con le minoranze etnico-religiose presenti nel paese, segnatamente quella curda, con episodi drammatici come il massacro di Dersim del 1938, ma anche i veri e propri pogrom contro gli ebrei della Tracia nel 1934. Gli istituti di villaggio erano parte integrante di quel processo di nuova formazione identitaria della Turchia repubblicana, con l’ambizioso ruolo di uniformare proprio il vasto territorio rurale anatolico meno permeabile al nuovo credo kemalista. Ciononostante, essi hanno al contempo rappresentato – almeno nelle parole di tante persone che vi si sono formati e si sono espressi in proposito – un principio di autonomia culturale e comunitaria, di sviluppo dei contesti rurali in senso “progressista”. Una vera e propria uscita "dalle tenebre alla luce", per come la definisce ancora Hüseyn Köken nel suo poema.

Così, in seno a simili contraddizioni e in mezzo a ondate di mutamenti politici e sociali, si sviluppava il paese intero. Vista “dall’alto” degli odierni oltre 15 milioni di abitanti istanbulioti (e dall’alto del “sultanato” inaugurato da Erdoğan, che ha rotto definitivamente con la tradizione kemalista) l’esperienza degli istituti di villaggio appare distante, quasi figlia di un altro mondo. Eppure, essa continua a a suscitare dibattiti e a smuovere gli animi, segno forse di un rinnovato interesse verso percorsi collettivi rimasti a lungo inesplorati.