Sono ormai oltre 62mila i profughi siriani ospitati nei campi profughi in Turchia, e nonostante il paese sia stato il primo ad offrire ospitalità a chi fugge dal regime di Bashar al-Assad, l’afflusso continuo e sempre più massiccio di rifugiati comincia a preoccupare le autorità di Ankara, mentre gli scontri in Siria continuano. Il reportage del nostro corrispondente dal confine turco-siriano
Kilis, piccola cittadina a una manciata di chilometri da Antep (Turchia meridionale), ospita il più grande dei nove campi dove hanno trovato rifugio i cittadini siriani in fuga dal conflitto in corso nel loro paese. Qui, in centinaia di container, disposti in lunghe file parallele, vivono tra i dieci e i quindicimila rifugiati. Le provenienze sono le più varie, c’è chi è fuggito pochi giorni fa da Aleppo, chi è arrivato dalla provincia di Idlib più di un anno fa, ma anche militanti del Libero esercito siriano venuti per passare un po’ di tempo con le proprie famiglie o per curarsi negli ospedali turchi prima di tornare a combattere dall’altra parte del confine.
Retrovie del conflitto
Karim ha combattuto ad Aleppo fino alla settimana scorsa, fa fatica a parlare, ha la bocca tumefatta e il viso sfregiato. Mentre combatteva è stato colpito da un missile lanciato da un elicottero dell’esercito di Assad, non ha dubbi: “Sparano su tutto quello che si muove, ma negli ultimi mesi stiamo diventando sempre più forti, sono sempre di più i soldati che disertano, ad Aleppo e nel resto della Siria liberata stiamo resistendo e vinceremo.”
Salendo su uno qualsiasi dei container è facile rendersi conto di quanto la Siria sia vicina, basta allungare lo sguardo poco oltre le recinzioni del campo per scorgere le bandiere dei ribelli con le tre stelle rosse su sfondo bianco issate nel territorio passato nelle scorse settimane al Libero esercito siriano. Oltre ai posti di frontiera di al-Salama, Bab al-Hawa e Jarabulus, conquistati a fine luglio, ora i ribelli controllano diverse aree nei pressi di Idlib, Azaz e Dar Ezzor. Avere libertà d’azione nelle aree di confine tra Turchia e Siria è molto importante per i militanti dell’Esercito libero perché permette loro di rifornirsi con facilità di armi ed entrare e uscire senza problemi dalla Siria.
“I nostri militanti continuano a circolare liberamente tra i due paesi usando valichi non ufficiali e le autorità turche chiudono un occhio”, conferma Zakariya, militante del Libero esercito siriano che vive nel campo profughi di Boyunyogun, una sessantina di chilometri a est di Antakya: “Quando ci imbattiamo nelle pattuglie della polizia di frontiera turca, basta mostrare il nostro tesserino del Free syrian army e ci lasciano passare senza perquisirci, né chiederci dove andiamo”. Nonostante Ankara abbia chiuso tutti i valichi di frontiera con la Siria dopo che le autorità di Damasco ne hanno perso il controllo, il confine resta aperto per i rifugiati e i ribelli che quasi quotidianamente passano la frontiera, per prendere parte alle azioni militari della resistenza per poi tornare nei campi profughi in territorio turco.
Vita da rifugiati
All’entrata della tendopoli di Yayladağı, la prima allestita dalla Mezzaluna rossa più di un anno fa, un gruppo di bambini gioca a nascondino tra i resti carbonizzati di un capannone industriale. “Prima di divenire un campo profughi qui sorgeva una fabbrica di sigarette, quest’inverno abbiamo sistemato diverse tende dentro uno degli edifici abbandonati, ma un incendio provocato da una stufa a gas difettosa ha fatto due morti, una tragedia nella tragedia”, racconta il direttore del campo.
Nonostante gli sforzi delle autorità turche per fornire ai rifugiati una sistemazione decorosa, il continuo afflusso di profughi sta mettendo a dura prova la Protezione civile turca e il 17 luglio, nel campo profughi di Kilis si è scatenata una violenta rivolta. Per disperdere la manifestazione organizzata dai rifugiati che lamentavano una scarsa distribuzione di acqua e cibo è intervenuta la polizia con cariche e uso di gas lacrimogeni. Durante gli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti due poliziotti sono stati presi in ostaggio dei rifugiati, per poi essere liberati qualche ora dopo.
Sono ormai oltre 62mila i profughi siriani ospitati nei campi profughi in Turchia, paese che ha aperto le sue frontiere ai civili siriani in fuga dalle violenze di Assad fin dall’inizio della rivolta anti-regime. Al di là delle tensioni legate al sovraffollamento la maggior parte dei rifugiati è grata ad Ankara per l’aiuto ricevuto e il suo sostegno all’opposizione. Una gratitudine che i profughi mostrano esponendo e disegnando ovunque nei campi bandiere turche a fianco di quelle della “Siria libera”.
La Turchia è il paese che secondo le stime dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, ospita la maggior parte dei 136mila profughi siriani, seguita da Giordania, Libano e Iraq. Ad eccezione della Turchia tuttavia il trattamento riservato ai profughi è alquanto carente sia dal punto di vista sanitario che alloggiativo. Se ad esempio in Giordania e in Iraq i primi campi sono stati allestiti solo quest’estate, in Libano la maggior parte dei rifugiati vive in condizioni di fortuna e chi se lo può permettere in case private. Lo scorso 11 luglio il Governo libanese, sostenuto dalla coalizione di partiti pro-siriani “Otto marzo” ha emesso una circolare in cui invitava gli ospedali pubblici a non fornire assistenza medica ai rifugiati in fuga dal conflitto, inoltre, due settimane fa, diversi rifugiati sono stati riconsegnati dalle autorità libanesi alla polizia siriana. Un provvedimento che ha irritato l’Unione europea: “Come firmatario della convenzione Onu contro la tortura, il Libano si è impegnato a non estradare o respingere nessuno verso un paese dove potrebbe essere sottoposto a tortura” ha dichiarato il commissario europeo per gli Affari Esteri Catherine Ashton in un comunicato di protesta.
USA e Nato alla finestra
La Turchia è stato il primo paese ad aiutare i profughi siriani, tuttavia l’afflusso continuo e sempre più massiccio di rifugiati sta cominciando a preoccupare le autorità di Ankara. Durante l’incontro sulla crisi siriana tra il segretario di stato americano Hillary Clinton e l’omologo turco Ahmet Davutoğlu a Istanbul, lo scorso 11 agosto, uno dei temi più discussi è stato proprio l’emergenza rifugiati. Nell’ambito del meeting la Clinton ha annunciato che gli Stati Uniti forniranno altri cinque milioni di dollari alle organizzazioni che aiutano i rifugiati, portando a ottanta milioni di dollari complessivi la cifra che Washington ha destinato agli aiuti, mentre per garantire l’incolumità dei rifugiati in fuga istituire una no-fly-zone, come fatto in Libia, “è una delle opzioni sul tavolo”.
“Non vogliamo più parole dai cosiddetti ‘amici della Siria’, ma fatti”, dice Karim, che tra pochi giorni tornerà a combattere ad Aleppo. “Sono contrario a qualsiasi intervento militare straniero, abbiamo abbastanza uomini dalla nostra parte, le diserzioni stanno aumentando esponenzialmente, ci liberemo da soli, quello che ci serve sono solo armi pesanti. Se la Nato o chiunque altro bombardasse la Siria come avvenuto in Libia con il pretesto di aiutarci, dopo mesi che rimangono alla finestra, sarebbero davvero degli ipocriti.”