F16 (foto di AirmanMagazine)

F16 (foto di AirmanMagazine )

Il coinvolgimento di Ankara nell'ipotesi di intervento militare contro la Siria arriva in un momento di profonda crisi per i rapporti regionali della Turchia in Medio Oriente. La politica estera turca cambia slogan, da "zero problemi con i vicini" a “preziosa solitudine”.

29/08/2013 -  Fazıla Mat Istanbul

La Turchia invoca da circa due anni una presa di posizione “più attiva” della comunità internazionale nella crisi siriana. Dopo l’uccisione di centinaia di civili con l’utilizzo di armi chimiche lo scorso 21 agosto a Goutha, nella periferia di Damasco, superata la “linea rossa” tracciata dalla Casa Bianca per un eventuale intervento in Siria, sembra che la richiesta di Ankara avrà presto un seguito.

Mentre gli ispettori delle Nazioni Unite si trovano in Siria per effettuare degli accertamenti sul luogo del massacro, gli analisti tendono ad escludere una decisione unanime di intervento che possa emergere in seno alle Nazioni Unite per via del veto posto da Russia e Cina, che attribuiscono la responsabilità dell’attacco alle forze ribelli.  E nelle ultime ore emerge con più forza l’eventualità dell’intervento di una coalizione di “volenterosi” guidata dagli Stati Uniti e altri paesi tra cui presumibilmente la Gran Bretagna e la Francia: un intervento di breve durata (“di tre giorni” secondo quanto riportato dal portale NBC News sulla base di dichiarazioni di diplomatici statunitensi) che servirebbe non tanto a cacciare al-Assad, ma a dissuaderlo dall’utilizzare di nuovo armi chimiche.

Il ruolo della Turchia in un attacco militare

Gli esperti turchi discutono da giorni il ruolo che la Turchia andrebbe a ricoprire nell’eventualità di un simile intervento militare. Ankara privilegia su tutti un’azione promossa sotto l’egida delle Nazioni Unite. In caso contrario, come ha dichiarato lunedì scorso il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu al quotidiano Milliyet, “se gli ispettori dell’ONU dimostreranno che dietro all’attacco chimico c’è il regime di al-Assad, la Turchia prenderà parte alla coalizione internazionale che verrà formata per intervenire in Siria”, perché l’utilizzo di armi chimiche costituisce un “crimine contro l’umanità” ed “è necessario contrastarlo”. Per partecipare a una simile operazione militare il governo turco,  già provvisto di un mandato parlamentare di un anno che autorizza a reagire a eventuali sviluppi negativi in Siria, potrebbe anche chiederne un altro “se si renderà necessario” ha affermato Davutoğlu.

Secondo quanto riportato dal quotidiano USA-Sabah, il governo turco non dovrebbe partecipare direttamente all’ipotetica azione militare, ma coadiuverebbe le forze della coalizione con sei F-16 utilizzati per le esplorazioni e supporto radar, mentre la flotta navale sarebbe impiegata per fornire aiuti umanitari.

La Turchia sarà attiva anche dal punto di vista logistico, con le sue basi militari sparse lungo i 900 Km di confine con la Siria, la più importante delle quali è la base NATO di İncirlik situata ad Adana.  Il governo turco, che nei mesi passati ha accolto centinaia di profughi siriani, ospita anche il Consiglio nazionale siriano, formazione che rappresenta la maggiore forza di opposizione del regime di al-Assad. Anche i contatti di Ankara con i ribelli nel territorio siriano sono ritenuti rilevanti nell’eventualità di un intervento.

I rischi per Ankara

Nel corso degli ultimi mesi la Turchia ha chiesto ripetutamente che venisse instaurata al confine una no-fly zone o una zona cuscinetto. Un’ipotesi che viene esclusa dai vertici militari USA anche adesso, dati la complessità e i costi elevati che comporterebbe. Proprio su questo punto alcuni analisti sollevano seri dubbi sui “rischi” di un tale intervento per la Turchia.

“Lo spettro ristretto degli attacchi sulla Siria e la probabile assenza di una no-fly zone, comprensibile dal punto di vista americano, avrebbe, tuttavia, delle importanti ripercussioni per la Turchia”, scrive Joost Lagendijk su Today’s Zaman. “Se la Turchia non riesce a convincere gli USA a garantire la distruzione delle basi missilistiche della Siria, si troverà in seri guai con i siriani e i loro alleati. Le basi militari turche diverrebbero un obiettivo per i missili siriani e si può stare certi che Damasco non esiterebbe a organizzare nuovi attacchi terroristici mirati a colpire i civili, come già accaduto a Reyhanlı”, conclude l’analista.

Gli equilibri regionali e la “preziosa solitudine” turca

La nuova situazione siriana arriva in un momento di profonda crisi per i rapporti regionali della Turchia in Medio Oriente. Fino a un paio di anni fa il governo di Ankara si presentava come un “modello”  per i paesi coinvolti nelle “primavere arabe”, perché propagava un’unione di democrazia e islam trainata da un notevole successo economico e si poneva come “mediatore” nelle più accese dispute del Mediterraneo orientale. Tutto ciò grazie ad una politica basata sul concetto degli “zero problemi con i vicini” che presupponeva l’equidistanza dai vari attori regionali.

Un’equidistanza che è stata abbandonata con la scelta del governo del premier Tayyip Erdoğan di favorire, dopo le rivoluzioni arabe, gruppi ideologicamente più vicini alla propria posizione come i Fratelli Musulmani. Ma secondo quanto fanno notare diversi analisti, questo “Internazionalismo della Fratellanza” ha subito un crollo con il golpe militare che ha destituito il presidente dell’Egitto ed esponente dei Fratelli Mohammed Morsi. “Il leader dell’AKP e i suoi fedeli associati attribuiscono ai loro stretti legami con i Fratelli Musulmani egiziani più di un’affinità ideologica. Vedono una partnership storica e strategica che cerca di stabilire un nuovo ordine basato sulla solidarietà tra diverse ramificazioni nel bacino mediterraneo e nell’intero mondo sunnita”, scrive l’analista politico Kadri Gürsel su al-Monitor. “È perfettamente normale che gli islamisti alla guida della Turchia abbiano sentito un profondo senso di sconfitta e di minaccia nel vedere la Fratellanza egiziana destituita da un golpe e ora a rischio di sparizione.  Dopo tutto, il grande progetto di importanza storica è crollato”.

Alle pessime relazioni con la Siria e l’Iraq la Turchia ha aggiunto anche l’Egitto del post-golpe, col reciproco richiamo dei rispettivi ambasciatori. Il premier Erdoğan ha inoltre accusato Israele di aver ordito il golpe egiziano e i paesi occidentali di mettere in discussione il concetto di democrazia.

Ibrahim Kalın, consigliere capo per gli Affari Esteri del premier Erdoğan, ha coniato un nuovo termine per ridefinire l’attuale condizione politica estera della Turchia chiamandola “preziosa solitudine”. “Preziosa” per via della “superiorità morale” che distinguerebbe la posizione di Ankara dai paesi antagonisti.

“Certo è contraddittorio per Ankara – data l’accusa del premier Recep Tayyip Erdoğan ai paesi occidentali definiti ‘sanguisughe’ che hanno debilitato la regione – chiamare gli USA a intervenire [in Siria nda]”, osserva Semih İdiz sul Hürrüyet Daily News, “il Medio Oriente si è dimostrato essere molto più complicato e imprevedibile di quanto si aspettasse il governo Erdoğan. (…) I suoi consiglieri vorrebbero forse cercare di attribuire una qualità morale definendo la questione [la situazione della Turchia in Medio Oriente nda] un ‘isolamento prezioso’. Che poi sia veramente ‘prezioso’ è molto discutibile”, conclude İdiz.

 

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