Nel cuore di Istanbul, dove la norma è vitale caos, il giorno dopo l'attentato a Sultanahmet regna un silenzio inquietante. Le conseguenze della bomba nel racconto del nostro corrispondente
Camminare per le strade di Istanbul, lungo il lastricato di Sultanahmet, il giorno dopo. Vedere la città che cerca di ricominciare, pur ancora stordita, confusa, impaurita. Istanbul è mescolanza di odori, voci e colori, qui caos significa casa. Il vuoto ed il silenzio, invece, inquietano.
Mancano le code davanti a Santa Sofia e alla Basilica Cisterna, il frenetico andirivieni dei camerieri nei locali, manca persino l'assalto dei proprietari dei ristoranti, lo ammetto, solitamente quasi molesto, che provano a trascinarti ai loro tavoli. L'invito, se arriva, è apatico, sono molto di più gli occhi puntati verso le strade semivuote, le mani incrociate dietro la schiena, gli sguardi al cielo plumbeo che rotola sul Bosforo che ribolle.
Non fraintendiamoci, questa città è enorme, interi quartieri perseverano nelle proprie abitudini. Sultanahmet, però, è un punto sensibile: per gli strati e strati di Storia sotto la patina da agenzia pubblicitaria, e perché questi viali sono calpestati, ogni anno, da dodici milioni di turisti.
Undici di loro hanno perso la vita nell'attentato suicida, un numero minuscolo rispetto alla massa di persone che calca quotidianamente queste strade, eppure enorme se ci si sofferma a riflettere sulle molte conseguenze di quanto accaduto.
La prima è che undici esseri umani non torneranno a casa. La nazionalità tedesca di dieci di essi, l'undicesimo era peruviano, ha spinto molti a cercare un retroscena. Senza però una dichiarazione d'intenti esplicita, difficile stabilire con certezza l'intenzionalità di colpire cittadini di quella Germania che ha così stretti legami con la Turchia.
Più giusto soffermarsi sulle conseguenze: la Germania, i tedeschi, si sentono colpiti comunque, sia che siano stati scelti deliberatamente come bersaglio, sia che la statistica sia solamente una coincidenza figlia del fato. Tedeschi che, tra l'altro, sono il gruppo più consistente di quei dodici milioni di visitatori a cui accennavo prima.
In seconda posizione, i russi. E qui arriviamo alla seconda conseguenza di questo attentato: il danno economico e, soprattutto, d'immagine. Difficile pensare che questo 2016 sarà un anno roseo, per il settore turistico turco. “Sapevamo che sarebbe successo, era solo questione di quando”, raccontano i ristoratori di Sultanahmet, con il sospiro di chi ha visto concretizzarsi le proprie paure. “Ora è bassa stagione, si lavora comunque poco, ma quando arriverà la primavera, che succederà?”. Il fascino di Istanbul avrà la meglio sulla paura e sulla follia del gesto omicida? Quanto tempo servirà alla ferita per rimarginarsi?
La Turchia non è solo un paese che convive accanto ad un conflitto, quello siriano-iracheno. È un paese che la guerra ce l'ha in casa, con un sudest curdo messo a ferro e fuoco ormai da mesi. Le fotografie che arrivano da alcuni distretti di Diyarbakir o Cizre somigliano fin troppo a quelle di Aleppo o Homs.
La terza domanda che aleggia sul dopo attentato è quindi, quale sarà la risposta di Ankara? Se si presta orecchio alla narrativa del governo e dei media che lo sostengono, a questa violenza si aggiungerà altra violenza, non c'è spazio per distinguo e sottigliezze. Nel calderone con l'etichetta “terrorista” sono stati gettati ogni sigla o gruppo ritenuti responsabili di voler smembrare la Turchia, come già è stato fatto con Siria e Iraq: militanti dell'ISIS, gulenisti, curdi del PKK turco o del PYD siriano, insieme alla longa manus russa evocata invece da alcuni editorialisti favorevoli al governo: tutte minacce all'integrità della nazione turca.
Il 14 gennaio si è avuta la prima reazione ufficiale post-attentato dell'esercito: raid aerei sull'area di Qandil in Iraq, dove il PKK ha numerose basi logistiche e di addestramento. Sia nelle settimane precedenti l'attentato, sia nelle ore successive, sono stati eseguiti diversi arresti di presunti appartenenti allo Stato Islamico, cinque dei quali accusati di essere legati a Nabil Fadli, l'attentatore.
Di Fadli si sa che aveva nazionalità saudita. L'uomo aveva attraversato la Siria per raggiungere la Turchia, dove aveva ottenuto supporto logistico da complici ancora non identificati. Soprattutto, aveva richiesto asilo politico alla Turchia in qualità di rifugiato.
La quarta conseguenza del suo gesto riguarda perciò proprio la situazione di quegli oltre due milioni di rifugiati che la Turchia, impartendo una severa lezione di dignità e umanità all'Europa, ospita oggi sul proprio territorio. Riuscirà la coraggiosa politica di accoglienza a sopravvivere alla bomba di Sultanahmet?