La Turchia approva il pacchetto di riforme costituzionali aprendo così una nuova fase negli equilibri di potere del paese. L'Europa accoglie positivamente l'esito ma resta ancora molto da fare per l’allargamento dei diritti e la Corte di Strasburgo condanna la Turchia per non aver protetto la vita di Hrant Dink
La popolazione turca lo scorso 12 settembre ha approvato, con il 58% dei voti a favore, il pacchetto di riforme costituzionali proposto dal Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) aprendo così una nuova fase negli equilibri di potere del paese. Il nucleo più importante dei 26 emendamenti referendari riguarda il ridimensionamento dell’influenza dell’esercito nella sfera politica e tra le alte sfere giudiziarie. Per molti analisti si tratta di un primo passo importante verso una Costituzione completamente nuova, ma è ancora lontano dall’essere sufficiente.
Le consultazioni si sono significativamente svolte a trent’anni esatti dal 12 settembre 1980, data del terzo colpo di Stato nella storia del paese. In realtà solo la metà degli aventi diritto al voto hanno vissuto direttamente quegli anni, ma la Costituzione redatta dalla giunta militare golpista e oggi in uso in Turchia, pur con le varie – limitate – riforme che sono state applicate negli anni, ha mantenuto intatta tutta la sua eredità .
Il risultato del referendum, considerato dai partiti come una verifica di consensi per le elezioni politiche previste entro il luglio 2011, è stato superiore anche alle stesse attese dell’AKP, che nelle consultazioni amministrative dell’anno scorso aveva ottenuto solo il 39% dei voti, registrando un calo di preferenze. Forte del nuovo traguardo, ora il premier Tayyip Erdoğan sta valutando anche la possibilità di cambiare l’ordinamento parlamentare in uno presidenziale, ipotesi che però è fortemente avversata dai partiti all’opposizione.
Il progetto di una nuova Costituzione
“Dopo le elezioni generali del 2011 prepareremo una costituzione completamente nuova, libertaria al massimo e interamente democratica”, aveva annunciato il premier in un’intervista rilasciata durante la campagna referendaria. Questa è la carta principale sulla quale punta Erdoğan per attirare maggiori elettori alle prossime consultazioni, a partire da quelli curdi, i cui voti saranno ancora una volta determinanti nel decidere il verso dell’ago della bilancia.
Il voto curdo
L’appello lanciato dal filo-curdo Partito della pace e democrazia (BDP) di boicottare i seggi del referendum per non aver visto incluse nel pacchetto di riforme nessuna delle proprie richieste, è stato accolto dalla maggior parte degli abitanti curdi delle province dell’est e del sud-est turco. Emblematico il caso di Hakkari dove la presenza al referendum è stata solo del 7,12%. Se però la partecipazione complessiva al voto di questa regione si è aggirata attorno al 20%, è da segnalare che chi si è recato alle urne ha optato per il “sì”, con l’unica eccezione di Tunceli, dove si è registrato il “no” al 94%.
No, ma sì
Una nuova costituzione è ciò che si attende anche una parte dell’elettorato turco progressista, raccolto sotto la sigla “non è sufficiente, ma diciamo di sì” (Yetmez ama Evet), che pur non condividendo la linea politica “conservativa democratica” dell’AKP, ha appoggiato il pacchetto di riforme per rompere il sistema di legittimazione costituzionale degli interventi dei militari in politica.
Cosa cambia dopo il referendum
Secondo la riforma approvata, i militari d’ora in avanti potranno essere processati nei tribunali civili, mentre compariranno davanti ai tribunali militari solo per i reati commessi all’interno del servizio militare. I civili, dal loro canto, potranno essere processati nei tribunali militari solo in caso di guerra. È stato poi abolito l’articolo che sottraeva i militari golpisti alla denuncia presso le autorità giudiziarie per le decisioni e gli atti commessi durante il periodo di governo. Già lunedì sono piovute denunce a carico dei comandanti golpisti e degli uomini al servizio del loro governo – ma non è ancora chiaro se i reati commessi siano ormai prescritti.
La composizione della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura (Hakimler ve Savcılar Yüksek Kurulu) saranno significativamente modificate. La prima non sarà più composta da 11 giudici come ora, ma da 17 di cui due saranno nominati in parlamento, mentre i restanti verranno scelti dal Presidente della Repubblica. A sua volta, il Consiglio superiore della magistratura non sarà più composto da 7 membri stabili e 5 di riserva, ma da 22 stabili e 10 di riserva.
È su queste due modifiche che si è arenato gran parte del dibattito tra il “sì” e il “no” al referendum. Il principale attore dell’opposizione, il Partito repubblicano del popolo (CHP) guidato dal nuovo leader Kemal Kılıçdaroğlu, sostiene che la modifica non farà altro che aumentare il controllo del potere esecutivo su quello giudiziario, rompendo gli equilibri di potere, dal momento che la maggioranza parlamentare (336 seggi su 542) appartiene all’AKP e il Presidente della Repubblica Abdullah Gül, essendo un ex premier ed ex ministro dello stesso partito, non può essere super partes.
Tuttavia, secondo il prof. Baskın Oran, politologo e voce tra le più autorevoli sulla questione delle minoranze presenti in Turchia, “l’equilibrio non può rompersi, perché non ne esiste uno. L’ alto sistema giudiziario controlla lo Stato, mentre non c’è alcuna istituzione che possa a sua volta controllarlo. La situazione è resa ancora più grave se si considera che gli organi giudiziari sono liberi ma non imparziali”. In un’analisi apparsa su “Radikal İki” del 10 settembre, Oran ricorda che “la Corte costituzionale, secondo la stessa Costituzione, non dovrebbe mai entrare nel merito delle decisioni del potere legislativo, ma controllarle solo dal punto di vista formale” mentre esempi passati dimostrerebbero diverse prevaricazioni in questo senso.
Per quanto riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura, invece, Oran specifica che fino ad oggi i suoi membri venivano nominati “dal Consiglio di Stato (Danıştay) e dalla Corte d’appello (Yargıtay)” mentre il Consiglio, a sua volta, nominava “tutti i membri della Corte d’appello e i tre quarti del Consiglio di Stato, formando un vero e proprio sistema di club privato”.
L’Unione europea
Anche l’Ue ha accolto l’esito del referendum positivamente, definendo per il tramite della relatrice per la Turchia Ria Oomen-Ruijten “dei passi in avanti” il fatto che siano stati approvati miglioramenti quali l’introduzione dell’istituzione dell’ombudsman, il diritto al contratto collettivo, la limitazione del raggio d’azione dei tribunali militari. Resta ancora però molto da fare per l’allargamento dei diritti, e uno dei problemi più gravi resta la forte limitazione del diritto d’espressione.
Il caso Dink
Lo scorso 14 settembre la Corte europea dei Diritti dell’Uomo nella causa Hrant Dink ha condannato la Turchia a pagare alla famiglia del giornalista assassinato un risarcimento di 133mila 595 euro per aver infranto gli articoli sul diritto sancito dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo alla “vita” alla “libertà d’espressione” e ad avere una “inchiesta efficiente”.
Un mese prima la Turchia aveva presentato un vergognoso testo di difesa in cui si affermava che Dink aveva incitato con i suoi articoli il popolo all’odio e al rancore, aveva respinto la tesi che la sua vita fosse minacciata, arrivando a paragonare i suoi pensieri a quelli di un nazista che negli anni ’80 era stato condannato dalla Corte.
La difesa scandalo proveniente dal ministero della Giustizia, apparentemente all’insaputa del governo, ha creato alla Turchia grande imbarazzo. Il ministero degli Esteri ha cercato di spiegare la situazione come un malinteso da non doversi ripetere più, accettando di pagare il risarcimento senza ricorrere ad un appello.
Il 15 settembre era il compleanno di Hrant Dink. La moglie Rakel ha detto che “la decisione della Corte europea è un regalo di compleanno per Dink. Hanno impedito che mio marito vedesse questo giorno, ma se fosse vivo sarebbe sicuramente molto contento in questo momento. Perché non voleva separarsi dal suo Paese, ma diceva anche che si sentiva triste per la Turchia. Perché voleva sempre essere fiero con il suo Paese.”