Zaman, primo quotidiano per diffusione in Turchia, è stato commissariato nella cornice dello scontro di potere tra l'imam Fetullah Gülen e il governo AKP. Vittima del conflitto - ancora una volta - è la libertà di espressione
Sabato 5 marzo Zaman, il più diffuso quotidiano in Turchia, è stato posto sotto amministrazione controllata insieme ad altre imprese editoriali facenti capo al gruppo “Feza Gazetecilik”, legato alla comunità di Fetullah Gülen, l'imam che in Turchia è accusato di terrorismo e di aver tentato di rovesciare il governo attraverso la creazione di uno “stato parallelo”. La polizia è intervenuta in assetto antisommossa e ha disperso con idranti e proiettili di gomma la folla che si era radunata all'esterno dell'edificio del quotidiano. La mossa giudiziaria ha causato un moto di sdegno e forti proteste da parte di tutte le forze di opposizione, che accusano il governo di intervenire illegittimamente per tutelare se stesso, in spregio ai diritti costituzionali che tutelano la libertà di espressione.
“Costituzione sospesa”
Nell'ultima edizione di Zaman prima del sequestro, in una prima pagina completamente nera campeggiava la scritta “Anayasa askıda”, “Costituzione sospesa”. Dopo due giorni, Zaman è tornato in edicola con in prima pagina il terzo ponte sul Bosforo inaugurato da un compiaciuto Erdoğan. Il radicale cambio di linea editoriale in direzione filo-governativa era, visti i precedenti, largamente atteso: un'operazione simile era stata condotta anche nel settembre scorso nei confronti del gruppo “Koza Ipek”, proprietario del quotidiano Bugün oltre che di riviste e stazioni radiotelevisive, anch'esso accusato di fiancheggiare lo stato parallelo di Gülen. Da quel giorno Bugün è un organo fedele del partito di governo AKP e, a partire da oggi, Zaman ne sarà un altrettanto convinto sostenitore.
I giornalisti di Zaman hanno reagito lanciando in tempo di record due nuove pubblicazioni: il giornale online Yarina Bakiş e la piattaforma Turkish Minute, dove vengono raccolti articoli in lingua inglese che la nuova gestione di Zaman rifiuta di pubblicare. Non si sa quanto potranno durare queste “contro-pubblicazioni”, quando il pugno di ferro del potere giudiziario tornerà a colpire, ma di certo rivelano come l'intervento dei giudici fosse atteso da tempo e nelle redazioni ci si fosse preparati al peggio.
Le reazioni
Unilaterale e veemente la condanna in tutto il mondo da parte delle organizzazioni a tutela della libertà di stampa, le cui espressioni di preoccupazione per il degenerare dello stato di diritto nel paese si sprecano ormai da tempo, senza però trovare ascolto da parte del governo turco. Timide e senza riscontro le voci di protesta da parte dell'Unione europea, almeno prima dell'incontro a Bruxelles in tema di migrazioni.
Il governo turco vedeva in Zaman l'organo di stampa della P2, per fare un paragone vicino alla recente storia italiana. I sostenitori di Erdoğan approvano dunque l'intervento dello stato contro un'organizzazione dagli scopi considerati palesemente eversivi.
Saadet Oruc, editorialista di Sabah, citando anonime fonti di polizia che hanno partecipato all'operazione scrive che “la disciplina del personale di Zaman era simile a quella di un'organizzazione criminale segreta. Tutti i dipendenti avevano memorizzato le stesse risposte alle domande che gli ufficiali giudiziari hanno loro rivolto”. Sabah è un altro dei quotidiani che nel 2007 ha subito un simile forzato cambio di gestione.
I sostenitori di Zaman tuttavia si difendono e dichiarano l'illegalità dell'azione giudiziaria, per la quale il procuratore avrebbe faticato non poco prima di trovare una corte disposta ad avviare l'operazione, dopo che il tribunale di Bakırköy, ufficialmente competente, aveva respinto la richiesta. A difesa della stampa c'è infatti l'emendamento alla Costituzione del 7 maggio 2004, che afferma come “l'impresa editoriale, costituita secondo i principi legali vigenti,[…] non può essere oggetto di confisca o sequestro o impedita nella sua operatività quando accusata di essere stata strumento in un crimine”.
Erdoğan e Gülen
La vera domanda attorno al caso Zaman diventa quindi se lo stato turco sia legittimato ad intervenire contro la presunta rete eversiva di Gülen.
Erdoğan e Gülen sono stati a lungo alleati, uniti dal nemico comune dell'oligarchia militare che per oltre 80 anni ha gestito il potere nel paese, compiendo diversi colpi di stato che la costituzione kemalista autorizzava qualora l'esercito ravvisasse un pericolo per l'esistenza della nazione.
Dopo che i rapporti tra l'allora capo del governo e Gülen erano già irrimediabilmente deteriorati, il ricercatore Soli Ozel della Istanbul's Kadir Has University ha dichiarato che i due hanno sempre avuto evidenti differenze ideologiche ed una diversa visione anche in ambito religioso, ma avevano un nemico comune: lo stato kemalista e l'oligarchia militare.
Erdoğan accusa oggi Gülen di aver istituito uno stato parallelo allo scopo di abbattere il governo legittimamente eletto. Il predicatore - auto esiliatosi negli Stati Uniti - ha più volte esortato i membri della sua comunità, chiamata Hizmet (Servizio), a muoversi nelle arterie del sistema senza essere notati, fino a portare dalla propria parte tutti i poteri costituzionali dello stato turco.
A denunciare la pericolosità della comunità di Gülen ci aveva pensato, in tempi in cui il sodalizio con l'attuale presidente della repubblica era ancora vigoroso, il giornalista Ahmet Sik nel suo libro “l'Esercito dell'Imam”. A causa di questa pubblicazione Sik è stato perseguito per vie giudiziarie e il libro, ritirato dalle librerie, è circolato a lungo soltanto in rete. Ironico ricordare che, al tempo, Zaman era stato il quotidiano che con più fervore si era scagliato contro Sik, chiedendone l'arresto e l'adozione di provvedimenti punitivi. Dopo la confisca di Zaman, Sik ha dichiarato la propria solidarietà e affermato che il gruppo sta ora subendo lo stesso tipo di fascismo che ha colpito lui e molti altri. Ali Aslan, rappresentante di Zaman a Washington, ha pubblicamente ringraziato Sik: “Grazie per aver detto fascista ai fascisti. Noi non abbiamo saputo proteggere la libertà come hai fatto tu”.
Per alcuni proprio le presunte infiltrazioni di Hizmet nell'apparato statale turco, tra l'altro ancora oggetto di indagine, insieme al controllo sui servizi segreti, avrebbero permesso ad Erdoğan di spazzare via l'oligarchia militare con i processi Ergenekon e, a partire dal 2011, avrebbero portato alla riforma che ha fatto sì che sia ora il governo a nominare i vertici dell'esercito. Sarebbero stati infatti proprio i gülenisti ad aver reso possibile questa serie di processi, secondo i detrattori anche attraverso la fabbricazione di prove fasulle. Insomma, se Gülen ha davvero costruito questa rete all'interno dello stato, il primo beneficiario e per molti anni è stato Erdoğan stesso.
I nodi vengono al pettine
Eliminato il nemico comune, i nodi ideologici tra i due sono però venuti al pettine. Nel 2013 il governo è finito nella bufera per un enorme scandalo di corruzione che ha sfiorato la stessa famiglia Erdoğan nel momento in cui, in una registrazione considerata dal governo fasulla, l'allora premier e ora presidente intimava al figlio di liberarsi di un'ingente quantità di denaro. Erdoğan ha sempre sostenuto che il caso fosse pilotato da Hizmet e la guerra tra le due fazioni è iniziata senza esclusione di colpi.
Zaman non è che l'ennesimo capitolo di questo conflitto per il controllo dell'apparato statale turco che ha visto, tra le altre cose, il tentativo di processare i vertici dei servizi segreti, microspie negli uffici di Erdoğan e la chiusura forzata in Turchia delle scuole di Hizmet, che costituivano i centri di reclutamento della comunità.
A pagare il prezzo di questa guerra sarà però la Turchia. Secondo Soli Ozel il conflitto sottopone a forte stress sia le istituzioni repubblicane sia i diritti civili, strangolati dalla lotta dei due vecchi amici per il controllo dello stato.
La libertà di espressione e stampa, di manifestazione, di ricerca accademica, di associazione politica, hanno subito negli ultimi anni un ridimensionamento che mina nel profondo la vita democratica del paese. Chiunque vinca questa guerra, non sembra volere né essere pronto a condurre il paese verso un'autentica società democratica.
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