In Turchia l'esercito controlla siti web conducendo una guerra psicologica contro chi si oppone alle Forze Armate. L'ennesimo scandalo denunciato dai giornalisti, gli attacchi alla libertà di espressione nel Paese. Il rapporto di Bianet
La denuncia da parte di diversi quotidiani turchi, a inizio novembre, dell'esistenza di una lista di siti web controllati dall'esercito, ha provocato una dura reazione da parte del mondo della stampa e delle organizzazioni dei giornalisti del Paese. Questo ennesimo scandalo mostra come, dopo l'assassinio di Hrant Dink, gli attacchi alla stampa indipendente e alla libertà di espressione siano ancora all'ordine del giorno in Turchia.
Il 4 novembre il quotidiano Radikal è stato il primo a parlare di una lista nera dei siti considerati "pericolosi" da parte dell'esercito. Secondo il giornale, in una lettera inviata ai pubblici ministeri del processo Ergenekon da un sedicente "funzionario delle forze armate", quest'ultimo denunciava l'esistenza di una lista di siti web divisi per categoria ("reazionari", "separatisti", "anti-esercito" e "pro-Erdoğan) da tenere sotto controllo. Secondo quanto riportato dal quotidiano Bugün, inoltre, l'esercito non si era limitato a controllare i siti, ma aveva anche creato 43 pagine web per condurre una "guerra psicologica contro organizzazioni civili che si oppongono alle Forze Armate".
L'organismo interno all'esercito che conduceva questa guerra psicologica sarebbe stato, secondo il giornale, il Gruppo di Studio sull'Occidente (BÇG) creato alla fine degli anni novanta per contrastare "la propaganda conservatrice" dell'islamista Partito della Prosperità (FP) di Necmettin Erbakan, che guidava un governo di coalizione e fu poi costretto alle dimissioni proprio dall'esercito nel 1997.
I vertici delle forze armate turche non hanno negato l'esistenza di questo gruppo né di aver redatto la lista nera. Al contrario, si sono difesi giocando allo scaricabarile e dichiarando di aver agito seguendo una direttiva del 2000 inviata dall'allora governo kemalista guidato da Bülent Ecevit. Ahmet Şağar, segretario personale del Primo ministro, ha però negato che sia mai stata inviata tale direttiva sostenendo che il governo Ecevit era totalmente estraneo alla vicenda. Nei prossimi mesi la magistratura farà luce su questo aspetto. In ogni caso, l'esistenza di un gruppo segreto interno alle forze armate incaricato di contrastare le opinioni che lo stesso esercito riteneva pericolose per il Paese è ormai un fatto accertato. Questa vicenda rappresenta l'ennesimo segnale che in Turchia la libertà di espressione continua ad essere sotto attacco.
Leggendo l'ultimo rapporto redatto da Bianet, network che monitora le violazioni della libertà di espressione e gli attacchi ai giornalisti in Turchia, è evidente che la situazione è tutt'altro che rosea. Sono state 190, solo negli ultimi tre mesi, le persone citate in giudizio per reati d'opinione, 74 delle quali giornalisti. Secondo Bianet inoltre "prosegue l'attacco del potere giudiziario contro un dibattito libero e il diritto all'informazione. In particolare, in questo periodo, si sta cercando di sabotare la cosiddetta apertura ai curdi. Questa lotta contro la libertà di espressione viene portata avanti grazie a leggi anti-democratiche che non sono in linea con gli standard internazionali."
Ma quali sono le leggi anti-democratiche che limitano la libertà d'espressione in Turchia di cui parla Bianet nel suo rapporto?
Prima di tutto l'articolo 216 del codice penale turco che punisce chi "incita all'odio e alla violenza". Nei fatti questo articolo viene spesso usato per colpire i giornalisti kurdi, come è successo a Eren Keskin, Murat Batgi e Edip Polat, tutti condannati ad un anno di carcere per aver usato il termine "Kurdistan", o a Ercan Öksüz e Oktay Candemir, colpevoli di aver intervistato alcuni sopravvissuti al massacro di Zirve, località nei pressi di Van bombardata dall'esercito turco come rappresaglia per una rivolta kurda nel 1930. Secondo i magistrati, pubblicando la loro intervista, i due giornalisti avrebbero contribuito a creare un clima di odio inter-etnico nel paese.
Un altro degli strumenti usati da pubblici ministeri di orientamento nazionalista per colpire i giornalisti è l'articolo 301 del codice penale, in base al quale devono essere perseguiti coloro che "insultano la Turchia, i turchi o le istituzioni della Repubblica Turca". Questo articolo è diventato tristemente famoso dopo l'assassinio, nel 2006, del giornalista di origine armena Hrant Dink. Contro Dink era infatti iniziata una campagna diffamatoria dopo che era stato condannato a sei mesi di carcere proprio in base all'articolo 301. Dopo l'assassinio del giornalista armeno le organizzazioni turche per la difesa dei diritti umani, il settimanale Agos, di cui Dink era direttore, e un gruppo di intellettuali liberali avevano dato vita ad una campagna per l'abolizione del 301 e delle leggi contro la libertà d'espressione. Nonostante la fortissima opposizione in parlamento dei kemalisti e dei nazionalisti, il partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) approvò un emendamento all'articolo 301, nel 2008, che prevede che i processi per "insulto alla nazione turca" possano svolgersi solo dopo che il ministro della Giustizia ha dato il suo consenso.
Questo emendamento sembrava prospettare una soluzione di compromesso che da una parte avrebbe fatto calare il numero dei processi per il reato di "insulto alla nazione turca", come chiedevano le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, ma allo stesso tempo non abrogava totalmente il 301 per evitare uno scontro coi nazionalisti e le forze armate. Nonostante le speranze degli attivisti per i diritti umani, però, i processi continuano. Sempre secondo Bianet sono infatti 17, ad oggi, le persone imputate per "insulto alla nazione turca". Il ministero della Giustizia, inoltre, nella maggior parte dei casi non ferma i processi, come è successo a Rahmi Yıldırım processato dopo il via libera del ministro per aver scritto un articolo in cui criticava le ingerenze dei militari in politica.
E' interessante notare come la maggior parte dei processi per reati di opinione in Turchia si concludano spesso con l'assoluzione degli imputati. La mediatizzazione di quei processi, tuttavia, viene utilizzata altrettanto spesso dall'estrema destra per organizzare violente campagne di diffamazione contro gli intellettuali liberali che esprimono idee non in linea con l'ideologia ufficiale kemalista. Così è avvenuto nel caso di Orhan Pamuk, processato nel 2005 per aver affermato che in Turchia erano stati uccisi un milione di armeni e trentamila curdi, o nel 2006 a Elif Şafak, accusata di aver insultato la nazione turca per aver parlato della questione armena nel suo libro "La Bastarda di Istanbul".
Volgendo lo sguardo dal giornalismo tradizionale alla rete, il panorama è ancora più grigio. YouTube è infatti oscurata da ormai 16 mesi in base alla legge 5651 sui crimini in internet perché contiene alcuni video che secondo i giudici insulterebbero la figura del padre della patria Mustafa Kemal Atatürk. Ma YouTube non è l'unico sito ad essere stato proibito. Secondo quanto denunciato dall'associazione "Alternativa Informatica", tra il 23 novembre 2007 e l'11 Maggio 2009 l'accesso a 2.601 pagine web è stato oscurato. Oltre a YouTube anche siti come wordpress.com, geocities.com, myspace.com, dailymotion.com e alibaba.com sono stati censurati.
In Turchia sono in molti a trovare assurdi questi divieti, ma l'opposizione non si è ancora tramutata in movimento organizzato per chiedere la riapertura dei siti, forse anche perché aggirare il bando non è per niente difficile. E' sufficiente infatti usare "siti filtro" come ktunnel.com o vtunnel.com, e lo si può fare senza neppure sentirsi troppo in colpa visto che perfino il primo Ministro Erdoğan ha confessato in una recente intervista di guardare ogni tanto YouTube, nonostante il divieto.