La scrittrice Bejan Matur non ha simpatie per il PKK, anzi. Sente però il dovere morale di recuperare, senza giudicare, le storie e le ragioni di chi è partito per la montagna. Una recensione

08/01/2016 -  Francesco Marilungo

Nel linguaggio comune in Turchia l’espressione “salire in montagna” (dağa çıkmak), richiama immediatamente l’esperienza dei giovani che hanno abbandonato la loro vita quotidiana per arruolarsi nel PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan - Partiya Karkerên Kurdistanê) che appunto in montagna ha tradizionalmente le sue basi e il suo terreno operativo. È di quella montagna che parla questo reportage di Bejan Matur, poetessa turca di origini curde.

In tempi in cui lo scacchiere mediorientale sembra diventare un complesso mosaico di sigle, affiliazioni, schieramenti, può essere molto utile cercare di capire cosa sia il PKK, organizzazione sulla lista Europea del terrorismo, eppure in prima linea contro l’avanzata dell’ISIS nel nord Iraq e in Siria. L’ideologia del PKK, secondo le formulazioni del leader imprigionato Abdullah Öcalan, ispirato a sua volta dal confederalismo democratico e dal socialismo ecologico dell’americano Murray Bookchin, è alla base degli esperimenti di amministrazione autonoma del Kurdistan siriano (Rojava); proprio al confine con l’oscurantismo jihadista dell’ISIS, trova espressione concreta l’esperienza di lotta più che trentennale del PKK che pone al mondo intero una sfida ideologica e politica avanguardista.

Come definire e comprendere questa forza nata e cresciuta fra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 nella Turchia golpista, e fautrice dell’ultima delle ribellioni curde in termini storici? Come si può capire il valore sociologico di tale movimento senza dare spazio all’esperienza di chi ne fa parte? Pochi giorni prima di essere freddato da un proiettile nel cuore della città curda di Diyarbakir nel novembre scorso, Tahir Elçi, avvocato per i diritti umani e presidente del foro degli avvocati curdi, era stato coinvolto in un processo – giudiziario e mediatico al contempo - per aver detto apertamente alla CCN turca che “il PKK non è un’organizzazione terrorista”. Dopo due anni di delicati negoziati per la pace e il disarmo fra Turchia e PKK, gli scontri sono ripresi la scorsa estate nelle città curde e sulle montagne del Qandil con una violenza tale da riportare alla mente i bui anni ’90.

Ma cos’è dunque il PKK? Chi sono i suoi membri? Sono terroristi o sono guerriglieri di una forza di liberazione? Per cosa lottano? Per quali ragioni salgono sulle montagne per affrontare l’esercito turco? Sono domande a cui il pubblico, in primo luogo quello turco, sente la necessità di trovare delle risposte, se è vero che Guardare dietro la montagna ha venduto 50.000 copie nel giorno stesso della sua uscita in Turchia ed è stato ristampato ben 10 volte. In Europa si moltiplicano le petizioni per liberare Öcalan e per escludere il PKK dalle liste del terrorismo ed è dunque con grande tempismo che Poiesis Editrice pubblica in Italia (nella traduzione di Giulia Ansaldo) questo libro che ci aiuta un po’ a capire e ad entrare più a fondo nella questione, soprattutto sotto l’aspetto umano.

Il grande merito di Bejan Matur è quello di cercare di guardare oltre l’etichetta – d’uso comune in Turchia – di “terrorista” affibbiata ai membri del PKK. Con grande umanità, Matur smonta il feticcio per cercare gli uomini e le donne che dietro di esso perdono profondità.

Bejan Matur non ha simpatie per il PKK, anzi. Sente però il dovere morale di recuperare, senza giudicare, le storie e le ragioni di chi è partito per la montagna. Guardare dietro di essa vuol dire sforzarsi di guardare oltre il muro che divide per ritrovare su basi umanistiche la via della riappacificazione. Guardare dietro la montagna raccoglie un gran numero di interviste che l’autrice ha compiuto in Turchia, in Europa, e sul Qandil con i membri o ex-membri del PKK. Il valore maggiore del libro sta proprio nella sua valenza testimoniale in grado di far emergere attraverso i racconti personali dei protagonisti il legame profondo e controverso che lega il PKK alla società curda.

Più che una storia del movimento, è una raccolta di esperienze individuali, pertanto variegate e spesso contraddittorie. L’autrice si dà il compito arduo dell’empatia, di provare ad immedesimarsi in chi si sceglie una via violenta di ribellione. In quest’esercizio dell’empatia l’autrice è forse sostenuta dal suo background di poeta. Sembra essere invece meno a suo agio e meno libera dal condizionamento del pubblico principale a cui si rivolge – il lettore turco – quando avanza analisi politiche o ipotesi per un percorso di pace. In quelle pagine, Matur sembra smarrire il merito principale di questo suo lavoro, ovvero quello di raccogliere le memorie, le esperienze e le ragioni nascoste nell’apparente normalità della vita quotidiana che spingono ragazzi e ragazze giovanissimi ad imbracciare le armi per scuotersi dalla loro condizione subalterna sul piano politico, culturale ed economico.

Quei racconti lasciano trasparire la violenza “sistematica” dello stato – dai primi giorni di scuola fino alla leva militare – cui i combattenti del PKK sentono di rispondere. Sono voci raramente raccontate ed echeggiate dai media, in particolar modo in Turchia. L’operazione di Bejan Matur risulta più efficace quando l’autrice riesce meglio a nascondere se stessa e non lasciar emergere le sue idee ed il suo coinvolgimento. Per buona parte del libro, lascia che le voci da lei interpellate giungano libere sino al lettore in ascolto, prive di complesse letture sociologiche e analitiche, ma pregne d’un valore esperienziale e, in fin dei conti, umano che squarcia il velo di censura insito nella definizione “terrorista”. Nell’ascolto di queste voci sta l’operazione del guardare dietro la montagna, che aiuta ad ampliare il nostro orizzonte, fornendoci importanti spunti di riflessione e restituendoci le sfumature di una questione complessa ed estremamente dolorosa.