Dalla spiaggia che vide l'amore tra Antonio e Cleopatra ai ballerini di zeibek. Un viaggio tra magnifiche coste e testimonianze nell’antica Caria, Turchia sud-occidentale
Splende la primavera su quest’angolo della Turchia sud-occidentale. Sono arrivato davanti a un minuscolo scalo marittimo: due pontili di legno incrociati dove ozia un barcone solitario, ricoperto da un ampio tendalino; in attesa di comitive che poi, almeno per oggi, non verranno. Nel parcheggio sterrato e semivuoto dove lascio l’auto, un ragazzino e sua madre giocano con il vento e un aquilone. Disposte come a teatro attorno a noi, le foreste verde intenso della Caria ammantano i monti e scendono quasi al mare.
Il giovane dallo sguardo chiaro e dagli stivaloni da pesca che mi accoglie fa una proposta di traversata in lire turche: andata e ritorno in tutta tranquillità su quel confortevole natante - a quest’ora del mattino sono l’unico escursionista - e due ore di visita all’isoletta che mi interessa, dove lui mi farà da guida. Il prezzo è alto, calcolato per una dozzina di persone, mentre ora quell’andirivieni sarebbe solo per me. Ma la contrattazione va a buon fine: lui è favorito dal forte calo della lira degli ultimi mesi, che induce me a spendere; io dalla simpatia dello straniero che parla la sua lingua, che induce lui a calare.
L'Isola dei cedri e la spiaggia di Antonio e Cleopatra
Il motorino a scoppio borbotta qualche istante sott’acqua, poi si avvia lento. La placida navigazione lascia spazio alle chiacchiere, libere e svagate come l’aria che prende a circolare attorno ai nostri volti. Apprendo subito la fortuna che mi è toccata: solo da oggi, metà aprile, l’isola con la sua area archeologica è riaperta alle visite. Il mio è un tragitto inaugurale.
Del resto, appena ieri sono riuscito a fare il primo bagno in mare, dall’altra parte di questo golfo di Gökova (‘Piana Celeste’, in turco), cioè sul versante volto al sole del mezzodì. Un sole che mi ha rinfrancato, all’uscita di acque ancor fredde. Una volta si chiamava ‘Golfo Ceramico’, da Kèramos, il piccolo centro marittimo sulle cui rive mi sono bagnato: e che nasconde tra aie, campi coltivati e pratoni ove ruminano pacati buoi, i resti dell’omonima, antica città ellenica.
Era da tre anni che desideravo visitare quest’isoletta, una delle pochissime rimaste ai turchi nell’Egeo, Sedir Adası, ‘L’Isola dei cedri’, non solo è ricoperta di testimonianze archeologiche, ma è legata ad uno dei grandi amori dell’antichità, quello tra Antonio e Cleopatra. Si racconta che il generale romano abbia fatto portare dall’Africa tonnellate di sabbia fine, per creare una spiaggia che ospitasse i due amanti in luna di miele su queste acque cristalline. Leggenda, forse: ma io vedrò davvero la spiaggia, bianca e invitante, durante il giro dell’isoletta, assieme a un teatro antico con le gradinate dilatate dalle radici degli ulivi, a resti di mura dai portali massicci, alle fondamenta di un tempio, a diroccate ed obliate chiese bizantine.
Pure il mio cicerone e la ragazza che lo accompagna, studentessa universitaria anche lei poco più che ventenne, vivranno qui presto la loro luna di miele, poiché - vengo a sapere - sono in procinto di sposarsi: molto giovani e con scarse risorse economiche, ma lanciano il cuore oltre l’ostacolo, come si usa qui in Turchia dove l’età media dei matrimoni è più bassa che da noi.
Muğla
Eppure, ho spesso sentito dire che qui il turismo non tira più come una volta. A Muğla, la cittadina sull’altipiano sovrastante il golfo che è la base delle mie escursioni, più di un lavorante mi ha parlato con nostalgia delle stagioni passate, quando era facile trovare impiego nelle attività lungo la costa. Del resto, non lontano da qui sorgono Bodrum (Alicarnasso) e Marmaris, località rinomate presso turisti e croceristi di tutto il mondo. Molti di costoro però non sanno che subito alle spalle di quei multicolori ombrelloni sorge una delle terre più interessanti, caratteristiche e degne d’esser conosciute dell’Anatolia: l’antica Caria, oggi in gran parte compresa nella provincia che ha per capoluogo appunto Muğla.
Rientro così dalla mia felice escursione sull’isola degli Amanti in questa deliziosa e tradizionale cittadina, che ha circa 100.000 abitanti.
Anche qui è da molto che desideravo soggiornare. L’avevo già visitata altre volte, grazie ai pullman di linea, ma solo dalla mattina alla sera e in piena estate: eppure, rispetto alla calura delle zone circostanti, questo centro sempre pulito e dal tono elegante e discreto, più rilevato ed interno rispetto alle affollatissime località costiere, pareva un’oasi di quiete e frescura.
Il mio ambito soggiorno in Caria ha coinciso in effetti con una fase critica per il settore turistico turco, e le lamentele dei giovani trovano riscontro nelle statistiche del periodo. Come prevedibile, il grande paese anatolico ha subito un netto calo dei flussi dall’estero dal 2016, a seguito dei drammatici eventi del luglio di quell’anno e dei gravi attentati terroristici che li hanno preceduti e seguiti (un calo addirittura del 32,7% nel trimestre estivo, secondo i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica Turco, Tuyk). Me lo hanno confermato anche i responsabili dell’ufficio turistico provinciale, i quali mi hanno accolto, come sempre mi capita in Turchia, con grande gentilezza e dovizia di informazioni, per poi invitarmi ad una delle attività programmate per l’annuale ‘settimana del turismo’. Del resto, Muğla è il terzo distretto della Turchia per numero di presenze turistiche, dopo Istanbul e Antalya.
Ho così l’ulteriore fortuna di assistere a un festival dedicato alla tipica danza locale, lo zeibek. Gli assidui frequentatori della Grecia lo avranno sentito chiamare zeibekiko: danza prevalentemente maschile, solitaria, che non contempla passi e movimenti prefissati, ma ispirati a particolari condizioni psicofisiche.
Se per sostenerla occorrono eccellenza e prodezza motorie (in origine era una danza guerriera), per darle un’anima ci vuole però una qualche dose di infelicità e nostalgia esistenziali, amorose, di quelle che si affogano nel vino: e ci si muove sempre come barcollando, sull’abisso di un’intima melanconia. Non manca quasi mai, al termine delle interminabili feste notturne dell’Egeo, sia in Grecia, sia in questa parte dell’Asia minore. E proprio qui nacque, un paio di secoli fa: dove, prima del forzoso ‘scambio di popolazioni’ del 1923, convivevano i greci moderni eredi della migrazione in Asia della fine del II millennio a.C. e gli ottomani pervenuti, duemila anni più tardi e anch’essi dopo una lunga migrazione, su queste sponde affacciate all’Europa.
Mentre in Grecia la danza viene praticata in abbigliamento consueto, quotidiano, qui è rimasta legata ad una tradizione più formale, sicché il costume dei ballerini che ammiro nel festival del villaggio di Kızıl Ağaç non è molto diverso da quello ammirato la mattina stessa al museo di Muğla. Il museo, da poco restaurato e riallestito, sorge presso una piazza piena dei tavolini di un paio di ‘giardini da tè’, non lontano dal comune e della biblioteca cittadina. Contiene tre sezioni: oltre a quella folklorica, dove ho incontrato appunto l’elegante manichino in costume, una naturalistica ed una archeologica. Qui trovo esibita una sorprendente collezione di steli funerarie di gladiatori: lo scheletro di uno di loro, con tanto di segno del colpo d’arma fatale, è conservato al centro della sala dedicata ai morituri di questo lembo d’Asia.
Gli armati sono raffigurati sulla pietra nelle rispettive specialità guerriere, identiche a quelle praticate nel Colosseo, ed accompagnati da scritte commemorative: “Questa tomba appartiene ad Eumelo, forte gladiatore. Dopo che ebbe uccisi molti combattendo corpo a corpo, una lancia scagliata da lontano lo fece cadere nella polvere”. In quanto figlio del liceo classico, interpreto con facilità il testo originale greco inciso sulla pietra. Ma il visitatore che si affida alla tabella sottostante vi legge soltanto una trascrizione in turco, seguita da una in inglese. Insomma, nessun riferimento al fatto che questi erano combattenti che seguivano sì l’uso romano dei combattimenti nell’arena, ma parlavano il greco, come del resto gran parte degli abitanti dell’epoca: lingua dominante che si intrecciava col meno ufficiale cario, una parlata autoctona della Anatolia. E lo stesso avviene per un bel passo dell’Iliade riportato solo in turco ed inglese all’interno del museo, senza alcun riferimento al testo originale, né alla grecità del padre della letteratura occidentale.
Pare rimediare all’omissione, appena fuori dal museo, la statua moderna di Erodoto, antico iniziatore della storiografia greca e quindi mondiale. Si trova qui in quanto è una delle grandi personalità native della regione. Difatti era di Alicarnasso, l’odierna Bodrum. Contrariamente all’illustre esponente di una disciplina sorella, il geografo Strabone, che ad Amasya, sua città natale, vidi raffigurato con tunica e turbante nelle vesti di un Mago persiano, questo Erodoto è indubitabilmente abbigliato ‘alla greca’. Anche se nulla, nella iscrizione del piedistallo, accenna al fatto che scrisse in greco e fosse uno dei maggiori esponenti della civiltà ellenica.
Piccole omissioni, ma rivelatrici di un rapporto della Turchia con il proprio passato, anche remoto, che è di ammirazione e di orgoglio, sì, ma anche difficile e contraddittorio; un passato la cui conoscenza potrebbe portare, se affrontata con maggiore oggettività e spassionatezza, ad una visione aperta, pluralista della storia dell’Anatolia. Favorita anche dal fatto che nell’intero paese monumenti e musei sono conservati, rispettati e valorizzati come raramente accade anche in Italia. In particolare, la regione di Muğla non è solo una delle più affascinanti, ricche di testimonianze antiche e dotate di magnifiche coste della Turchia (1124 km di lunghezza, all’incirca quanto la Sicilia): è anche una delle circoscrizioni più vicine all’Europa sia geograficamente che culturalmente, vi si respira un’aria di libertà e di tolleranza che la rendono immune da tentazioni oscurantiste, conservatrici o nostalgiche.
Tuttavia, la secolare tensione con la Grecia finisce talvolta col penalizzare proprio quegli aspetti del passato, prossimo e remoto, che più potrebbero mettere in luce le affinità e le eredità comuni tra Europa ed Anatolia: come mi ricorda, solenne e un po’ mesto in un’altra mattina in cui il sole contendeva a fatica il cielo ai nuvoloni neri, il bouleutèrion marmoreo di Stratonikeia, la città da cui provengono le steli dei gladiatori. Il bouleutèrion, cioè la sala del Consiglio tipica delle città-stato democratiche elleniche, è il corrispondente del Senato romano e il prototipo di tutti i parlamenti, di quello turco non meno che di quelli occidentali.
I nuvoloni sembrano invece ormai allontanarsi dall’orizzonte del turismo turco dopo l’infausto 2016: le statistiche dicono che già a partire dalla seconda metà del 2017, anno del mio viaggio in Caria, si è avuta una ripresa degli arrivi, che ha permesso di recuperare in parte il terreno perduto. E la tendenza prosegue anche in questo 2018.
Assai curioso è tuttavia il carattere di questo recupero, che vede decisamente ridistribuite le presenze rispetto alle aree geografiche di provenienza. In realtà, il calo dai paesi occidentali non si è fermato: ad aumentare, in misura spettacolare, sono gli arrivi da paesi come la Russia (che ha superato tutti come quantità di presenze), l’Iran ed altri stati islamici mediorientali.