I volti di alcune delle vittime a Suruç

Dopo l'attentato a Suruç, la Turchia si scopre nel mirino dello Stato Islamico (ISIS). Condanna unanime, ma l'opposizione accusa il governo AKP di aver a lungo flirtato con gli estremisti in funzione anti-curda

23/07/2015 -  Fazıla Mat Istanbul

La sala cinematografica del Centro di cultura Amara a Suruç fa da deposito in questi giorni. Custodisce giocattoli e generi di prima necessità destinati a Kobane. Sono stati portati domenica scorsa nella cittadina, situata al confine con il cantone curdo in Siria, da trecento giovani della Federazione delle associazioni giovanili socialiste (SGDF). Persone arrivate dai quattro angoli della Turchia che volevano aiutare a rimettere in piedi Kobane, dopo il lungo assedio dello Stato islamico (ISIS), ricostruendo gli ospedali, un parco, una scuola materna, una biblioteca. Avevano preparato anche un video per diffondere l’idea. Un filmato di pochi minuti che in apertura recita: “Abbiamo difeso Kobane insieme, la ricostruiremo insieme. I ragazzi di Gezi [Park] sono solidali con Kobane”.

Lunedì mattina una potente esplosione ha mandato in frantumi il loro progetto. Un kamikaze, le cui generalità sono state confermate solo ieri dopo il test del DNA, si è introdotto nel gruppo facendosi esplodere durante la conferenza stampa che si stava tenendo presso il centro culturale, dove al momento dell’attentato erano presenti oltre 150 persone. Una carneficina: 32 morti – 4 ancora da identificare – un centinaio di feriti. Ventiquattro, tra le persone che hanno perso la vita, erano ventenni, studenti universitari. Come l’attentatore - Şeyh Abdurrahman Eyüboğlu - ex studente di ingegneria della città turca di Adıyaman.

A tre giorni dall’attentato, la storia di come Eyüboğlu sia diventato un kamikaze al servizio di una presunta cellula turca del gruppo Stato islamico (come affermano le autorità turche, visto che l’attentato non è stato rivendicato dal gruppo jihadista), si intreccia con quella di un altro attentatore, Orhan Gönder, il ragazzo ritenuto responsabile dell’esplosione avvenuta a Diyarbakır alla vigilia delle elezioni del 7 giugno, prima del comizio del co-leader del partito filo-curdo democratico dei popoli (HDP) Selahattin Demirtaş.

Secondo le testimonianze raccolte da İdris Emen del quotidiano Radikal, i due giovani si erano conosciuti ad Adıyaman all’ “İslam Çay Ocağı”, una sala da tè gestita dal fratello maggiore di Eyüboğlu. Il posto sarebbe stato chiuso nel 2014 da parte del comune, dopo le lamentele dei familiari di diversi giovani che frequentavano il locale ed avevano iniziato a comportarsi in “modo strano”. Radikal scrive che il posto serviva come centro per reclutare membri dell’ISIS.

Le reazioni all'attentato

In Turchia, “non c’è nessuna forza che possa muoversi sulla linea tra Urfa e Suruç senza che l’intelligence (MIT) lo sappia”, è stata la prima reazione della co-leader dell’HDP Figen Yüksekdağ dopo la tragedia di lunedì. La co-leader ha affermato che “l’esecutivo si è astenuto per anni dal definire lo Stato islamico una organizzazione terroristica” ed è “compartecipe della responsabilità di questo massacro”.

Anche i deputati del Partito repubblicano del popolo (CHP), seconda formazione politica del paese, si sono mossi sulla stessa linea d’onda: “Viene naturale chiederci quale sia la funzione svolta dal MIT. L’intelligence non è riuscita a fare luce su nessuna delle stragi [degli ultimi anni] perché si è trasformata in un’ organizzazione che lavora al servizio del presidente Recep Tayyip Erdoğan”, ha affermato il vice del partito Veli Ağbaba, aggiungendo che “quanto accaduto a Suruç è diretta conseguenza della politica condotta dall’AKP e dall’intelligence turca in Siria”.

“I ragazzi della Federazione sono stati tutti meticolosamente perquisiti prima della conferenza stampa. Come è possibile dunque che l’attentatore – o gli attentatori – siano riusciti a confondersi tra quei giovani?”, sottolinea invece il giornalista İrfan Aktan sul portale Zete.com.

Sono tutte domande che attendono una risposta. L’attentato è stato condannato all’unanimità sia dal presidente Recep Tayyip Erdoğan che dal premier Ahmet Davutoğlu. Quest’ultimo ha detto che “l’aggressione avvenuta non va considerata come l’attacco di un gruppo contro l’altro, bensì come un unico attacco rivolto a tutto il paese. Quando si tratta di terrorismo dobbiamo trovare un terreno d’intesa comune”.

Giochi pericolosi

Ma il terreno di intesa comune non sembra così facilmente raggiungibile. Ankara è accusata da tempo di fornire sostegno logistico all’ISIS, con l’obiettivo principale di far cadere il regime di Bashar al Assad. Allo stesso tempo, la posizione assunta dal governo turco nei confronti dei miliziani curdi dell’Unità di protezione popolare (YPG) durante l’assedio di Kobane da parte del gruppo Stato islamico (il presidente Erdoğan aveva affermato che lo YPG è più pericoloso dell’ISIS) e il fatto che Ankara consideri la formazione di un’entità autonoma curda nel Nord della Siria una situazione più temibile della vicinanza dei jihadisti, portano il movimento politico curdo, come pure diversi osservatori, ad affermare che l’AKP utilizzi l’ISIS anche in funzione anti-curda.

Negli ultimi tempi la regione di Urfa è finita più volte sotto i riflettori della stampa, soprattutto a causa di una sua provincia, Akçakale, dove è stata segnalata la presenza di membri dell’ISIS. Diversi giornali hanno riportato notizie di combattenti armati che entravano e uscivano agevolmente dalla frontiera, un traffico passato “inosservato” dalle forze dell’ordine. Il 16 giugno scorso, subito dopo la cacciata dell’ISIS da Tel Abyad (in Siria) da parte delle milizie curde (YPG), quattro giornalisti sono addirittura stati sottoposti ad un controllo di identità per aver chiesto al governatore della provincia İzzettin Çetin se a Urfa erano presenti membri dell’ISIS.

I rappresentanti del governo respingono ogni accusa affermando di ritenere lo Stato islamico un’organizzazione terroristica e di collaborare con i governi europei per contrastare il passaggio di combattenti provenienti dall’Europa. Nelle ultime settimane sono state condotte anche delle retate in diverse città che hanno portato all’arresto di una trentina di persone accusate di far parte del gruppo e sospettate di organizzare il passaggio in Iraq e in Siria di combattenti stranieri, nonché di mettere in contatto le reclute di varie città turche.

Agli inizi di luglio il governo turco ha anche oscurato tre siti internet in lingua turca appartenenti all’ISIS, che ha diffuso un messaggio su un altro sito web, chiedendo “di smettere di perseguitare i musulmani” perché altrimenti avrebbero “aperto una nuova pagina con lo Stato turco”. Ma l’ISIS ha continuato a “dialogare” pubblicamente con lo “Stato turco” (descritto quale “un governo che si è ribellato ad Allah”) anche tramite l’ultimo numero della rivista del gruppo, Kostantiniyye (Costantinopoli). “Abbiamo cercato di spiegare che il supporto e le concessioni al PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, definita “la banda atea”) fatte dallo Stato turco - intento nell’ultimo periodo a mettersi contro lo Stato islamico - lo stanno portando alla disgregazione”, si legge nell’editoriale.

Secondo il giornalista Cengiz Çandar la Turchia si trova a dover affrontare “numerosi gruppi salafiti/jihaisti che, come il genio della lampada, a furia di essere accarezzati sono venuti fuori e ora si muovono liberamente in Turchia e versano sangue (…) È arrivato il momento che Ankara consideri l’ISIS come la prima minaccia esterna ed interna [per la Turchia], in questo modo cambieranno naturalmente tutte le politiche e le priorità riguardanti la sicurezza del paese”.

Ancora sangue

Ma anche ieri ci sono state delle morti: due poliziotti sono stati uccisi in un attentato rivendicato dal PKK, che avrebbe dichiarato di averlo fatto “per vendicare Suruç”. Il co-leader dell’HDP Selahattin Demirtaş, che il giorno prima ha ammonito contro la possibilità di nuovi attacchi “che possono accadere ad ogni momento per lacune di sicurezza e di intelligence”, ha condannato l’azione del PKK, dicendo che “non si può lavare il sangue col sangue”. Demirtaş ha lanciato anche un appello per realizzare nel fine settimana un grande corteo internazionale per la pace, senza bandiere né stemmi.

Al blocco temporaneo di Twitter di ieri, finalizzato a censurare le foto dell’attentato, si contrappongono intanto le immagini dei funerali delle vittime alevite e sunnite, che continuano ad arrivare ad una ad una nelle città natali. Nessun lutto nazionale però per loro, un riguardo dimostrato senza indugi da Ankara alla morte del re Abdullah dell’Arabia Saudita avvenuta lo scorso gennaio. “Non avrebbe più senso, se ad ogni simile episodio dichiarassimo lutto nazionale”, ha spiegato il vice-premier uscente Bülent Arınç.