In viaggio verso Aladağ - dove nel 2016 andò a fuoco un dormitorio femminile e morirono 12 persone - in compagnia degli attivisti della rivista/associazione Mukavemet
Percorrendo la strada che conduce da Adana (sud-ovest della Turchia, il quinto centro più popoloso del paese) al piccolo villaggio di Aladağ, è difficile scorgere segni di insediamento umano. Mano a mano che si sale di altitudine il verde fitto e lussureggiante dei primi boschi cede il passo all'asperità di monti nudi e appuntiti, mentre la terra pare spaccarsi in mille rivoli rocciosi. Sono i paesaggi cantati dal celebre scrittore e giornalista Yaşar Kemal, dove "i cervi dalle lunga corna violacee hanno la loro dimora. Le rocce sono aguzze e taglienti come lama ed è ardua impresa scalarle. Avvicinandosi alla vetta la vegetazione scompare, e non rimane altro che la roccia arida e spoglia quasi sempre coperta di neve" (così in Memed il falco).
Sembra difficile qui rinvenire evidenze della recente svolta autoritaria del paese. Siamo lontani dal gigantesco palazzo presidenziale della capitale fatto costruire da Erdoğan, che continua a espandersi. Siamo lontani dalle affollate strade di Istanbul dove si rincorrono monumenti e manifesti che celebrano il fallimento del tentato golpe del 15 luglio, ora diventato anche argomento di studio nelle scuole.
Valicando, un sentiero tortuoso porta fino al centro di Aladağ, che si sviluppa ai suoi lati in un gruppuscolo di case.
L’incendio nel dormitorio
Qui la sera del 29 novembre 2016 divampava un incendio nel dormitorio femminile della città, in cui persero la vita undici ragazze al di sotto dei 15 anni e il guardiano notturno. Altri riportarono ferite e ustioni, gettandosi dalle finestre nel tentativo di sfuggire alle fiamme. Pare infatti che tutte le porte fossero chiuse, lasciando ben poco scampo a chi si trovava all'interno. "Nulla in quell'edificio era a norma", ci dice Özlem, educatrice e attivista legata a Mukavemet (un collettivo di giornalisti e assistenti legali che avevamo intervistato qui) che sta seguendo il caso. "Non c'erano manutenzioni o controlli ufficiali. Il gruppo che lo gestiva – un'associazione caritatevole affiliata all'organizzazione religiosa dei Suleymancı – sta diventando sempre più potente e riesce ad aprire le proprie strutture senza bisogno di documenti ufficiali".
Quasi un'ironia della sorte, la costruzione del dormitorio di Aladağ si inseriva in un ampio processo di riorganizzazione del sistema educativo turco, che si è avviato diversi anni fa e che fra i suoi obiettivi ha anche il raggiungimento di standard di sicurezza più elevati. A partire dagli anni '90 molti degli edifici scolastici dei piccoli centri, considerati magari pericolanti, sono stati chiusi per concentrare il servizio nelle città maggiori, facendo così nascere l'esigenza di dormitori che potessero ospitare chi veniva da fuori. "Ma il problema è che tutti questi servizi legati all'educazione vengono lasciati al settore privato. Non ci sono trasporti, non ci sono dormitori pubblici… per chi è povero e vive in un villaggio si tratta praticamente di un ricatto: o mandi i tuoi figli in queste strutture religiose o non possono studiare", continua Özlem. "Come si vede anche nel caso di Aladağ, maschi e femmine vengono rigidamente separati senza alcuna possibilità di interazione. Ai ragazzi viene impartita un'educazione di stampo fondamentalista, che secondo noi sta facendo aumentare l'affiliazione allo Stato Islamico nell'area".
Un intreccio di relazioni
Quello degli intrecci, soprattutto economici, con sette e associazioni religiose è infatti uno degli aspetti più controversi del regime erdoganiano. Definitivamente terminata l'alleanza di comodo con Fethullah Gülen, altre realtà – che comunque già coesistevano con FETÖ nel complesso schema di relazioni dell'AKP – stanno riempiendo il vuoto lasciato da questa rottura, creando così un sostrato sociale favorevole al partito di Erdoğan. Proprio qualche mese prima della tragedia di Aladağ il partito di opposizione CHP denunciava la situazione in una lunga relazione, evidenziando come la mancanza di servizio educativo pubblico nelle aree rurali stesse aprendo la strada per il sorgere di strutture illegali. Con effetti negativi anche altrove: nel 2008 a Konya sono morte 17 ragazze in seguito a una fuga di gas, mentre l'anno scorso si sono verificati episodi di molestie sessuali in un centro del distretto di Karaman.
"Quello che vogliamo è che vengano riconosciute le responsabilità non solo di chi gestiva il dormitorio, ma anche delle autorità che mettono in atto politiche del genere, dal governo provinciale al ministero dell'Educazione". Özlem e gli attivisti di Mukavemet sono risoluti ma sanno che non basta agire sul solo piano giudiziario. "Quest'anno abbiamo provato a organizzare un campo estivo nella zona di Aladağ, interagendo con i familiari delle vittime e dei feriti dell'incendio. Si è trattato solo di un paio di settimane, ma ci sono stati risultati tangibili. I primi giorni i ragazzi quasi non si parlavano, abituati come sono a rimanere sempre separati. Poi, piano piano, si sono aperti e hanno ritrovato il piacere e la gioia di stare insieme. Anche le famiglie sulle prime erano titubanti, ci chiedevano se per noi non fosse un problema che avessero scelto di mandare i propri figli a un istituto religioso. Ma è ovvio che a noi non interessa il loro orientamento ideologico, ci interessa mostrare che può esistere un differente tipo di educazione e magari un differente tipo di comunità. Per questo abbiamo cercato di organizzare laboratori di danza, arte, insegnare letteratura ma soprattutto abbiamo ascoltato i ragazzi tentando di costruire un gruppo".
Crepe nel sistema?
Nel frattempo, il processo ai presunti responsabili dell'incendio continua. Dopo l'ultima udienza del 6 ottobre, che ha sostanzialmente confermato le accuse a gestori e dirigenti del dormitorio, si terrà un'ulteriore sessione ad Adana per la metà di dicembre. Alcuni testimoni hanno dichiarato che ci sono stati tentativi di corruzione nei loro confronti, con offerta di denaro da parte dell'organizzazione dei Suleymancı in cambio del silenzio, mentre i rappresentanti del dormitorio affermano che l'incendio è stata “un'opera di sabotaggio”.
"Il governo e le autorità hanno tutto l'interesse a mantenere bassa l'attenzione su questa vicenda. Credo che la loro strategia al momento sia quella di mostrarsi collaborativi senza però far seguire alcuna azione concreta. Nel nostro caso le istituzioni locali di Aladağ si sono pure offerte di collaborare per il campo estivo, dicendo che però quest'anno sarebbe stato troppo presto e sarebbe stato meglio rimandare. Sappiamo che è un modo per ostacolare l'iniziativa, perciò abbiamo fatto da soli senza chiedere la loro autorizzazione", conclude Özlem.
È dunque anche nel “vuoto” che si riproduce l'autoritarismo. L'apparente assenza e disinteresse dello stato verso l'educazione e i servizi si trasforma ad Aladağ – così come in altre aree povere e poco popolate – in un diffuso “ricatto sociale”, dove realtà e associazioni anche solo affini a Erdoğan stanno di fatto portando avanti una costruzione del consenso per le sue politiche.
Eppure, Aladağ e altri casi analoghi potrebbero rappresentare delle crepe nel sistema. I familiari delle vittime hanno rilasciato dichiarazioni molto dure nei confronti delle autorità pubbliche poco prima dell'apertura del processo. Gruppi di attivisti come Mukavemet sono decisi a dar loro supporto, magari offrendo occasioni per un'educazione diversa. Bisognerà vedere quanto riusciranno a scalfire la rete di relazioni già esistente e quanto rabbia e risentimenti personali sapranno tradursi in istanza collettiva. Intanto, con l'incedere dell'autunno, i monti attorno ad Aladağ riprendono a coprirsi di neve.