Diyarbakır - Francesco Brusa

Il centro storico di Diyarbakır è stato teatro di una vera e propria guerra tra milizie curde e autorità turche. 30.000 cittadini sono stati espulsi e molte case semidistrutte

08/02/2018 -  Francesco Brusa

Lo stato turco ha vinto la guerra, ed ora sembra apprestarsi a vincere la pace. Per le strade di Diyarbakır, dove anche per bocca di bambini che giocano in mezzo ai vicoli risuonano le parole “Apo vive” (con riferimento all'ex-leader del PKK Abdullah Öcalan), dove una brulicante vita fatta di negozi, bar, luoghi di culto e ritrovi spontanei coesiste con la consapevolezza che – come ci ripetono gli abitanti - “la polizia può entrare in casa tua da un momento all'altro”, sono ancora ben visibili i segni del cruento conflitto iniziato un paio di anni fa.

Soprattutto nel centro storico di Suriçi (o “Sur”), cui si accede passando da checkpoint militari disseminati lungo la circonferenza delle antiche mura, tante sono le abitazioni semidistrutte, i fori di proiettile sulle porte, aree completamente rase al suolo delimitate da transenne che ne oscurano la vista. Ed è proprio qui che, metaforicamente e concretamente, lo stato turco sta "costruendo la pace”. Mentre i bulldozer rimuovono detriti e macerie, l'amministrazione municipale e il governo promulgano nuove leggi, stringono patti e progettano quella che ai loro occhi potrebbe essere “la Diyarbakır del futuro”.

Ma ci sono molte persone, come Talat, giovane attivista della Piattaforma “No alla distruzione di Sur”, che la pensano diversamente. "Metà del Sur è praticamente distrutta. Circa 2000 persone hanno perso la propria abitazione e ad altri si sta invece impedendo di tornare a vivere nel centro. Più o meno 30.000 abitanti sono stati spostati. Quello che sta avvenendo è una turchizzazione forzata della città", ci dice senza troppi giri di parole.

Dalla speranza alla disillusione

Diyarbakır, o “Amed” in curdo, è una delle più antiche città del mondo. Il passaggio di diverse civiltà e popolazioni, le variegate stratificazioni e influenze architettoniche la rendono un luogo di grande interesse culturale (che gli è recentemente valso l’inserimento nel Patrimonio Mondiale dell’Unesco). Ma, come molti centri della Turchia, è anche investita da profondi cambiamenti sociali ed economici che ne ibridano il tessuto urbano con nuove forme abitative e relazionali.

Durante gli anni ‘90, in conseguenza del conflitto fra lo stato turco e la guerriglia curda, molti contadini dei villaggi circostanti si sono trasferiti qui, spesso costruendo quartieri dal nulla con dei mezzi di fortuna. Qualche tempo più tardi, cominciarono le prime conquiste politiche del movimento curdo che nel 1999 arrivava a governare la municipalità di Diyarbakır con il proprio partito. L’inedito potere e la relativa libertà di quel periodo portarono a una sorta di “riappropriazione” dello spazio urbano, con la modifica di insegne e nomi e una promozione costante della cultura curda, nonché a benefici economici.

"Prima eravamo tutti molto poveri, ma uguali. Poi, con il governo comunale del partito curdo, in tanti hanno potuto aprire aziende e attività commerciali o ottenere incarichi meglio retribuiti, così si è formata una nuova classe ricca", racconta sempre Talat.

Gli sviluppi di Diyarbakır riflettevano le trasformazioni economiche: nella pianura arida, quasi desertica, che circonda l’aeroporto iniziarono a sorgere alcune gated community, per soddisfare i bisogni della parte di popolazione arricchita che dal centro storico si trasferiva in periferia, mentre le vie appena fuori dalle antiche mura accoglievano una miriade di catene di fast-food e piccoli centri commerciali (il quartiere “Ofis”). Il Sur, svuotatosi delle famiglie abbienti, andava dunque a costituirsi come una piccola enclave in cui confluivano gli strati più poveri della cittadinanza, uniti da un sentimento di solidarietà ma al tempo stesso di disillusione.

"Nonostante queste differenze però si è sempre mantenuta una coscienza condivisa fra ricchi e poveri, l’idea di appartenere a una comunità coesa nel lottare per il riconoscimento della sua identità e dei suoi diritti", ci dice Talat. Le percentuali del partito curdo infatti crescevano anche a livello nazionale, segnando uno storico ingresso nel parlamento (con l’HDP che registrava risultati attorno al 70% all’interno del centro storico di Diyarbakır). Ma, parallelamente, andavano maturando delle crepe: per alcuni, soprattutto giovani, rabbia e disillusione prevalevano sulla solidarietà e sulla speranza. Si formava cioè quella generazione di curdi che, se certo non riconosceva l’autorità di Ankara, altrettanto diffidava da quella dei leader della guerriglia più anziani e guardava con sospetto a qualsiasi possibilità di compromesso politico. Una generazione che è stata definita dagli analisti “Mad Max”.

Anche per questo, l’escalation del conflitto curdo-turco dopo il fallimento dei negoziati con il PKK e l’uscita dal cessate il fuoco, ha avuto il Sur di Diyarbakır fra i suoi maggiori epicentri. Ragazzi che il più delle volte si improvvisavano combattenti hanno scavato trincee e sparato per rappresaglia contro polizia e militari turchi, nell’idea di conquistare una completa indipendenza del quartiere. Ma il resto della popolazione, desiderosa di pace e fiduciosa nei negoziati, non li ha sostenuti e la risposta dello stato non ha tardato ad arrivare, con particolare brutalità e ferocia. Una serie di pesanti coprifuoco ha posto fine allo scontro, lasciando dietro di sé un cumulo di macerie e incertezza che ancora oggi riempiono il centro della città.

Danneggiamenti e pressioni

"Erdoğan ha dichiarato pubblicamente che sognava di ricostruire Diyarabkir sin da quando era sindaco di Istanbul", prosegue Talat. "Praticamente vuole svendere la città, anzi vuole costruire un luogo da cui possa trarre profitto in continuazione. Le persone di Suriçi vivevano in pace e in una situazione di solidarietà reciproca. Ma sopratutto erano indipendenti a livello economico: c’era una fitta rete di rapporti di quartiere, le abitazioni erano autocostruite, etc. Perciò il governo sta approntando un piano che faccia evacuare tutti gli abitanti di Suriçi. Vogliono prevenire qualsiasi elemento di dissenso e opposizione per il futuro".

Il 21 marzo del 2016 il Presidente turco ha firmato un decreto che consentiva l’espropriazione di ben 6292 lotti di terreno sui 7714 totali del Sur di Diyarbakır. Considerando che le aree restanti erano già di proprietà della TOKI (Toplu Konut İdaresi Başkanlığı – Amministrazione Pubblica dell’Alloggio Collettivo), attualmente il centro della capitale curda è nella sua totalità in mano al governo. Se non un “urbicidio”, come è stato definito da alcune parti, certo un furto in grande stile. "La loro tattica è questa: per prima cosa offrono dei soldi alle persone per andare a vivere in un’altra zona", ci spiega Talat. "Se queste si rifiutano, cosa che praticamente succede sempre, allora iniziano a far pressione verbalmente magari con delle minacce tramite telefonate anonime. Oppure si oppongono in maniera più diretta, detenendo chi si rifiuta di lasciare la casa. Altre volte sono le abitazioni stesse a essere rese inagibili, con dei tagli arbitrari alla rete elettrica o con danni provocati volontariamente mentre si svolgono lavori di ricostruzione lì vicino. Ci sono anche dei gruppi affiliati all’AKP che di tanto in tanto effettuano delle 'ronde' nel Sur".

Tutti casi per cui gli attivisti della Piattaforma stanno offrendo supporto legale agli ex-residenti, che probabilmente finiranno davanti alla Corte europea. Ma nel frattempo la distruzione/ricostruzione da parte del governo sembra procedere inesorabile. Tanto più che in seguito al conflitto del 2015 la municipalità di Diyarbakır è stata commissariata e manca dunque qualsiasi contrappeso istituzionale alle decisioni imposte dall’autorità di Ankara (a questo proposito, è doveroso notare che anche l’UNESCO non si è espressa sulle vicende del centro storico delle città curda).

"Ora le associazioni curde sono molto più deboli di prima, chiunque facesse parte del movimento è stato attaccato o ha subito pressioni. Con il kayyum (“commissario”) Diyarbakır viene gestita direttamente dal governo, che impone con facilità i propri progetti. Si vocifera di piani per abbattere o spostare alcuni monumenti, ad altri edifici e luoghi è già stato cambiato il nome e sono state apposte bandiere turche. In generale, è evidente che il patrimonio storico della città e la sua identità non vengono minimamente rispettate: nelle ricostruzioni viene impiegato solo cemento, che non è un materiale proprio di Diyarbakır. A me sembra che in tutti questi anni l’attitudine dello stato turco nei confronti dei curdi non sia cambiata per niente. Continuano a negare la nostra esistenza e la nostra cultura. Con le vittorie politiche e i negoziati degli ultimi tempi abbiamo sperimentato un certo sollievo e una maggiore autonomia, speravamo che le cose stessero cambiando. Ma era solo la preparazione per un altro attacco, ancora più duro e pervasivo dei precedenti", dice Talat con una punta di rassegnazione.

Un patrimonio immateriale

Nonostante gli sforzi delle associazioni e le battaglie legali degli ex-residenti, gli edifici continuano infatti a essere abbattuti. Diyarbakır pare avviarsi verso una nuova fase della sua storia, in cui a modellare lo spazio urbano sarà quasi esclusivamente la volontà del governo centrale. Non è difficile immaginare in che direzioni vada questa volontà: sono quelle – già applicate in alcuni quartieri delle città dell’ovest – della gentrificazione , della segregazione sociale, della “messa a lucido” e anestetizzazione della vita quotidiana in favore del turismo, della costruzione di una nuova “identità turca” attraverso il rinnovamento dei luoghi e delle simbologie.

Ma, evidentemente, Diyarabakir non è né Istanbul o Ankara. Il senso di appartenenza a una comunità è qualcosa che qui trascende la condivisione delle stesse strade, o dello stesso quartiere. Consapevolezza e solidarietà, oltre che dalla lotta vera e propria, si sono alimentate anche da una “cultura” diffusa e inclusiva (dal folklore alle attività artistiche di vario genere) che soprattutto negli ultimi anni è stata un fondamentale strumento di emancipazione per il popolo curdo. Tolta la possibilità di una resistenza politica, che comunque si cerca di perseguire, resta allora il dovere della memoria. "Quello di cui abbiamo paura è che tutto questo venga dimenticato in futuro. È un processo graduale, e ci si abitua facilmente. Ma non dobbiamo scordarci che sono i poveri, gli ultimi, a pagarne il prezzo più alto", conclude Talat, evocando un altro “patrimonio”, stavolta immateriale, da difendere di pari passo con quello storico e concreto che è oggi sotto attacco.