Dopo 14 anni di potere il partito di maggioranza AKP sembra più stanco e logoro dell’opposizione, tanto da non essere più sicuro di ottenere - alle politiche di domenica 7 giugno - la maggioranza assoluta. Intanto nel mirino del presidente Tayyip Erdoğan finiscono i giornalisti
Quelle del 7 giugno saranno le elezioni politiche più critiche e imprevedibili dell’ultimo decennio in Turchia. La posta in gioco è alta: l’AKP, il Partito della giustizia e dello sviluppo che guida il paese da 14 anni, questa volta potrebbe non ottenere la maggioranza assoluta (276 seggi su 550) per una quarta legislatura monocolore. E' a rischio inoltre l'intenzione del capo di Stato Tayyip Erdoğan di trasformare l’attuale ordinamento parlamentare in un sistema “presidenziale alla turca”, con una pericolosa concentrazione dei poteri nelle mani del super-presidente. A far saltare il tavolo potrebbe essere il quarto partito del paese, il pro-curdo Hdp (Partito democratico dei popoli), che tenterà di superare lo sbarramento elettorale del 10%. Un'eventualità che potrebbe sottrarre all’AKP come minimo 50 seggi parlamentari.
Slogan e fact-checking
“Noi in parlamento “ e “Non ti faremo diventare presidente” sono infatti gli slogan principali del partito guidato dai co-leader curdi Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ. Perché nella campagna elettorale più accesa degli ultimi anni è anche a suon di slogan e pubblicità che si stanno scontrando le parti.
“Loro parlano, l’AKP mette in atto”, ribattono i cartelloni dell'AKP che tappezzano le strade principali del paese, con il volto ridente del premier Ahmet Davutoğlu. Qualche esempio in tal senso - reclamizzato negli stessi striscioni pubblicitari - sono “l’aereo”, “l’automobile” e “il carro armato” che verrebbero prodotti per la prima volta a livello nazionale. Una novità quest'ultima per molti. Anche per l’opposizione, che ha chiesto con un’interrogazione parlamentare dove fossero collocate le fabbriche delle produzioni in questione, senza però ottenere risposta e aprendo la pista all’ipotesi di una clamorosa bufala elettorale. Secondo l’organizzazione “Doğruluk Payı” (dogrulukpayi.com), un gruppo che effettua il fact-checking riguardo alle affermazioni delle formazioni politiche, l’AKP ha effettivamente “messo in atto” solo il 30% delle promesse elettorali del 2011.
Non si può però negare che il governo dell’AKP sia stato efficiente in alcuni campi, motivo per cui nonostante il calo di preferenze (gli ultimi sondaggi lo indicano tra il 40 e il 44% contro il 49,9% delle politiche del 2011) risulta ancora il primo partito del paese. Per molti elettori con un reddito basso gli aiuti sociali ricevuti dal governo risultano un valido motivo per votare AKP. Perché se il reddito minimo previsto dalla legge è di 949 lire turche (circa 310 euro), c’è da aggiungere che il ministero per le Politiche sociali sostiene da anni in modo continuativo circa 13 milioni di cittadini con una cifra che per il 2015 ammonta a quasi 30 miliardi di lire turche (circa 10 miliardi di euro).
La questione economica
Non a caso l’economia è il tema maggiormente dibattuto nel periodo pre-elettorale e ha portato i partiti dell’opposizione a rivedere il proprio approccio alla questione, adottando strategie innovative. Indicativo è il caso del Partito repubblicano del popolo (CHP, kemalista orientato a sinistra) che ha impostato il proprio discorso elettorale su nuove soluzioni economiche, dal raddoppiamento del salario minimo al mega progetto di rilancio economico dell’Anatolia. Il partito avrebbe addirittura incaricato la statunitense Benenson Strategy Group – la società che ha fatto vincere le elezioni a Barack Obama – di organizzare la propria campagna elettorale.
Erdoğan all’attacco
A due giorni dal voto sta per concludersi anche la campagna elettorale a due voci dell’AKP, con quella di Erdoğan che sovrasta ampiamente quella del primo ministro Davutoğlu. Il presidente, contrariamente a quanto previsto dalla Costituzione, che gli conferisce uno status essenzialmente rappresentativo, ha infatti utilizzato ogni occasione per tessere le lodi al AKP ed attaccare l’opposizione.
Il Consiglio superiore elettorale (YSK), chiamato a intervenire più volte dall'opposizione, ha risposto di non avere l’autorità di richiamare all’ordine il capo dello Stato. "Io sono imparziale" afferma intanto Erdoğan, “sono dalla parte del popolo”, per poi accusare tutte le formazioni rivali di tramare contro il bene della nazione: l’HDP sarebbe "l’avamposto del gruppo terrorista" PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), il CHP sarebbe “nemico della religione” e “zoroastrano” nonché “alleato del movimento religioso di Fethullah Gülen” (un tempo fedele alleato di Erdoğan, ora suo acerrimo nemico). E perfino il Partito di azione nazionalista (MHP) è accusato di non essere sufficientemente nazionalista.
Media nel mirino
Ma gli attacchi di Erdoğan non sono rivolti solo ai politici, ma anche – in crescendo – alla stampa indipendente. Nelle ultime settimane sono finite nel mirino del presidente il gruppo Doğan (cui fanno capo diversi giornali tra cui Hürriyet e la rete televisiva CNNTürk) e il quotidiano Cumhuriyet.
Quest’ultimo in particolare ha attirato tutti i fulmini su di sé per aver recentemente pubblicato un servizio e delle immagini che comproverebbero l’invio di armi ai jihadisti in Siria da parte di Ankara. Il governo nega, affermando che il carico “di tipo umanitario” era diretto alle popolazioni turkmene (che negano a loro volta di essere i destinatari di un simile invio). “Ma anche se [le armi] ci fossero state”, ha dichiarato Erdoğan rivolgendosi ai giornalisti di Cumhuriyet, “voi siete talmente privi di etica giornalistica che vi mettete a collaborare con i gülenisti [il movimento di Fethullah Gülen] sbandierando al mondo un’operazione condotta dai nostri servizi segreti. Questo è spionaggio e verrà trattato di conseguenza”.
Il direttore della testata Can Dündar è ora sotto inchiesta e la procura ha presentato un testo d’accusa richiedendo l’ergastolo per il giornalista, un rischio che corre tutto lo staff del quotidiano, che ha dichiarato di condividere la responsabilità della notizia.
Mentre la società civile si mobilita per dimostrare il proprio sostegno alla testata, restano in sospeso le domande che il quotidiano ha rivolto al presidente e che mettono in luce tutte le ambiguità del caso. Prima fra tutte, perché mai degli aiuti umanitari fossero scortati dai servizi segreti.
La sete di potere dell’AKP
“Se l’AKP uscirà forte da queste elezioni avvierà un’operazione di purga. Non verrà risparmiato nessuno, dai partiti alle organizzazioni della società civile fino ai media dell’opposizione. Tutte le sue forze sono coordinate in questa direzione e non si tratta di un pettegolezzo”, ha commentato il co-leader dell’HDP Demirtaş. “Sarebbe una catastrofe per il paese. Dalla Corte costituzionale al parlamento non c’è più alcuna istituzione in grado di controllare il presidente. È per questo che perfino dentro l’AKP alcuni dirigenti sperano che l’HDP superi lo sbarramento. Perché sono spaventati da quello che potrebbe accadere in caso contrario. Conoscono bene il loro capo”.
Dopo 14 anni di governo e con tutta la retorica della “Nuova Turchia” l’AKP appare tuttavia un partito stanco a confronto con le formazioni dell’opposizione, e le crepe si vedono anche all’interno dello stesso AKP. La lingua della moderazione e del pluralismo che lo caratterizzava nei primi anni di potere e che gli aveva guadagnato il favore dei più ha ormai lasciato spazio ad un linguaggio aggressivo che non risulta offrire niente di nuovo. Sempre più si parla di un AKP “avvelenato dal potere”, anche tra i suoi stesso sostenitori.