Su proposta dell'AKP, il parlamento turco ha approvato una nuova normativa sui social media, che rischia di restringere ulteriormente i sempre più limitati spazi di libera espressione nel paese. L'approfondimento del nostro corrispondente
La mattina del 21 marzo 2014 Twitter è stato temporaneamente bloccato in Turchia. Negli stessi attimi in cui il servizio diventava inaccessibile lo stavo utilizzando e fui contattato da un amico in Italia che mi chiedeva se la notizia fosse vera.
Ricordo che vedendo la schermata di twitter apparentemente inalterata, sul momento gli risposi che non mi sembrava ci fosse alcun blocco e, senza troppo pensarci in maniera un po’ presuntuosa, gli scrissi anche: “La Turchia non è la Cina!”. Avevamo ragione entrambi. Riaggiornando la pagina web mi accorsi che effettivamente Twitter era davvero diventato inaccessibile in Turchia. Il popolare social media sarebbe stato poi sbloccato dopo qualche settimana anche in seguito a forti proteste da parte della società civile.
Da oltre 10 anni la Cina continua a tenere bloccati permanentemente i social media più popolari in occidente, come Twitter e Facebook, e anche altri siti web come Wikipedia risultano inaccessibili. Apparentemente queste scelte non trovano grande opposizione da parte della stragrande maggioranza della popolazione cinese, al contrario in Turchia ogni tentativo di censurare il web è puntualmente criticato da ampi strati della popolazione.
La Cina è il più grande mercato per i social media al mondo per numero di utenti, ma le piattaforme social utilizzate dai cinesi sono sviluppate a livello locale come Weibo, WeChat, YouKu e Renren. In Turchia i social più popolari sono sempre stati invece quelli maggiormente utilizzati nel mondo occidentale come Facebook, Instagram e Twitter.
L’impresa di importare in Turchia il modello cinese sui social media è ancora lontana dal compiersi e le condizioni dei due paesi restano molto diverse; al tempo stesso il governo AKP ha fatto di tutto per percorrere una strada simile a quella seguita da Pechino e la recente regolamentazione sui social media lo dimostra ancora più chiaramente.
La nuova controversa legge sui social media
Dopo una lunga notte di dibattiti, alle 7 del mattino del 29 luglio 2020 il parlamento turco ha approvato una legge che impone ai social media più visitati in Turchia di aprire uffici nel paese e di nominare un cittadino turco come rappresentante legale. Le compagnie che gestiscono i social avranno 48 ore di tempo per rimuovere contenuti o bloccare utenti qualora i tribunali turchi lo richiedessero.
Se le compagnie non si adeguano è prevista la riduzione della banda fino al 90% o multe da pagare che vanno da 1 a 10 milioni di lire turche, da più di 146mila dollari a oltre 1 milione e 461mila dollari. Le compagnie che gestiscono i social saranno anche obbligate a tenere un archivio in Turchia delle condivisioni e le informazioni relative agli utenti che utilizzano le piattaforme in territorio turco.
Condizioni molto stringenti che potrebbero convincere le aziende americane che gestiscono i social ad adeguarsi se non vogliono perdere i 54 milioni di utenti che frequentano i social media in Turchia. “Solo Twitter per ora non ha risposto”, ha affermato un deputato del partito di governo AKP spiegando come le altre compagnie che gestiscono i social avrebbero già accettato di adeguarsi ai nuovi regolamenti.
Non c’è stata alcuna dichiarazioni ufficiale a riguardo da parte di Facebook, Instagram o dello stesso Twitter, il provvedimento entrerà in vigore comunque in ottobre quando il parlamento turco riaprirà dopo la pausa estiva.
Il testo della legge è arrivato in aula per iniziativa dell’AKP di Erdoğan e del suo alleato in parlamento, il partito del movimento nazionalista MHP, forza di estrema destra alleata del partito del presidente. Nonostante il voto contrario da parte dei partiti di opposizione, la legge non ha avuto problemi a passare: con l’appoggio del MHP, il partito AKP di Erdoğan può tranquillamente trovare la maggioranza ad ogni voto parlamentare.
Tutela della privacy e lotta agli insulti on-line sono le argomentazioni utilizzate dal governo nel difendere la legge che, sempre a detta dell’AKP, si sarebbe basata su regolamenti simili già utilizzati in Germania e, come ha sostenuto il portavoce di Erdoğan, non limiterà la libertà di espressione degli utenti delle piattaforme social. La pensano diversamente le forze di opposizione che hanno criticato la legge parlando di “censura” on line .
Le proteste delle opposizioni non si sono fermate al voto in aula. Il maggior partito di opposizione, il socialdemocratico CHP, ha ieri annunciato che porterà la legge davanti alla Corte Costituzionale. Anche organizzazioni per la libertà di espressione in Turchia hanno contestato il provvedimento, trovando il sostegno di molte associazioni internazionali e delle Nazioni Unite: la portavoce dell’Alto Commissario dell’ONU per i diritti umani aveva sostenuto che la legge “ridurrà ulteriormente la libertà di espressione in Turchia ”.
I social network e la censura
I social media sono da anni al centro dell’attenzione del partito del presidente Erdoğan che in passato li ha già rallentati o temporaneamente bloccati. Con questa legge, il governo è riuscito però a trovare una formula per cui i social continueranno a funzionare ma saranno privati delle condivisioni di alcuni utenti qualora queste venissero considerate sconvenienti da parte di tribunali turchi.
Pare infatti improbabile che le aziende che gestiscono i principali social network saranno disposte a pagare multe salatissime o a vedere limitato il loro servizio in nome della libertà di espressione. Non sarebbe nemmeno la prima volta: anche prima dell’approvazione della legge erano previste multe, sebbene molto più basse, e già in passato i servizi social sono stati limitati temporaneamente in Turchia e i profili di alcuni utenti sono stati resi inaccessibili per vari motivi. Solo lo scorso aprile, Facebook ha bloccato senza fornire adeguate motivazioni l’account del corrispondente di Radio Radicale in Turchia Mariano Giustino per poi riattivarlo oltre un mese dopo parlando di un “errore” .
Oltre 400mila pagine web risultano ad oggi bloccate in Turchia, i social hanno già subito in passato limitazioni e per oltre due anni tutte le edizioni di Wikipedia sono rimaste inaccessibili. Il primo caso noto di limitazioni a contenuti on line in Turchia risale al 2007 con un blocco imposto a YouTube, che si è protratto per qualche anno.
La tendenza si è intensificata soprattutto nel periodo delle proteste anti governative di Gezi Park del 2013 ed è culminata con il blocco di Twitter per un paio di settimane nella primavera del 2014. Da allora si sono registrate, sporadicamente, altre limitazioni. Nello stesso tempo, negli ultimi sette anni la distribuzione dei quotidiani in Turchia è calata del 48% anche a causa della chiusura imposta a decine di giornali condannati per propaganda terroristica.
Per questo motivo i social media in Turchia rappresentano uno spazio fondamentale per trovare notizie non riportate sui media statali o su quelli filogovernativi che occupano la maggior parte del mercato.
Terreno di scontro
La politica dell’AKP nei confronti del controllo dei social media non rappresenta certo una novità, quanto piuttosto un atteggiamento consolidato nel tempo che però non è sempre stato sostenuto dal partito in maniera compatta. All’epoca del blocco di Twitter del 2014, tra le voci critiche si levò anche quella di Abdullah Gül, all’epoca presidente della Repubblica uscente e 15 anni prima fondatore dell'AKP insieme a Erdoğan che in quegli stessi giorni, da primo ministro, sosteneva invece la necessità del blocco nonostante proteste arrivate anche dall’estero . Abdullah Gül definì la decisione “inaccettabile”, una posizione che, significativamente esternò sulla stessa piattaforma proprio mentre Twitter era già stato reso inaccessibile da qualche ora.
Guardandosi indietro, si può affermare che quel momento abbia segnato l’inizio delle tensioni tra Erdoğan e Gül, che successivamente ha abbandonato l’AKP per la crescente distanza con l’attuale presidente turco anche su altre questioni dirimenti. Più di recente anche altri nomi noti del partito hanno seguito le orme di Gül andando a fondare nuovi movimenti politici in opposizione a Erdoğan.
Ai tempi delle proteste anti governative di Gezi park nel 2013, gli attivisti turchi scrivevano con vernice spray sui muri di Istanbul istruzioni per cambiare le impostazioni dei DNS o VPN e quindi aggirare eventuali blocchi imposti a pagine web o utenti social. Oggi moltissime persone in Turchia utilizzano costantemente questi sistemi consapevoli delle possibili censure che potrebbero abbattersi sui contenuti che leggono e condividono.
Con la legge approvata dal parlamento turco, anche l’utilizzo di Virtual Private Network o browser anonimi potrebbe risultare inefficace visto che il servizio continuerebbe ad essere accessibile, ma sarebbe privato dei commenti o della partecipazione di alcuni utenti e contenuti.