Matty Bishwam/flickr

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La nomina di Sedat Selim Ay, funzionario di polizia processato più volte per accuse di tortura e violenza sessuale negli anni '90, a nuovo vice-capo della sezione antiterrorismo della questura di Istanbul, ha sollevato polemiche e riportato in Turchia l'attenzione su una questione dolorosa e ancora aperta. Divergenze anche all'interno del partito di governo, l'AKP di Tayyip Erdoğan

03/09/2012 -  Fazıla Mat Istanbul

Ha all’attivo due condanne in primo grado per reato di tortura, ed ha portato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR) a sentenziare contro la Turchia in diversi ricorsi. Sedat Selim Ay è da poco più di un mese il nuovo vice-capo della sezione antiterrorismo della questura di Istanbul, un’assegnazione che ha da subito suscitato preoccupazione, polemiche e proteste dalle più disparate frazioni dell’opinione pubblica turca. Ma per il prefetto di Istanbul Avni Mutlu, che l‘ha nominato, il neo dirigente della polizia deve il suo importante nuovo incarico ad uno stato di servizio “impeccabile”.

Il nome di Ay, che già aveva ricoperto la stessa posizione a Diyarbakır, non era noto ai più fino all’ultima promozione. Il quotidiano Taraf ha portato la questione in prima pagina per diverse settimane, dando alla vicenda una visibilità molto superiore a quella degli altri media a mezzo stampa. Per giorni il quotidiano ha pubblicato testimonianze di persone che negli anni ’90 hanno subito torture sotto custodia cautelare, un periodo in cui la tortura veniva applicata sistematicamente durante gli interrogatori a cui venivano sottoposti soprattutto militanti della sinistra e curdi.

Il passato di Sedat Selim Ay

Il coro di voci pubblicato da Taraf ha riportato in superficie le sofferenze di allora, puntando il dito contro la squadra denominata “TIM-3” di cui facevano parte l’allora commissario Ay, il suo superiore, tale Bayram Kartal, anche lui premiato nel tempo con varie promozioni, insieme ad altri “colleghi”. I racconti più agghiaccianti provengono da donne: per molte di loro, le torture subite includevano anche violenze sessuali.

“Ay era il numero due della squadra responsabile delle violenze. Colto, intellettuale e calmo. Visto da fuori lo credevi umano”, ricorda Ayşe Yılmaz, oggi rappresentante per la Turchia del Comitato internazionale contro le sparizioni (ICAD), che nel 1997 subì 14 giorni di inferno per poi essere rilasciata. Yılmaz ha successivamente presentato ricorso alla ECHR, che ha condannato la Turchia a pagarle un risarcimento per non aver condotto un’inchiesta efficiente sul suo caso. “La promozione di Ay non mi rattrista, ma indica ancora una volta qual è la realtà in Turchia”, commenta amara l’attivista.

Ay non è mai stato condannato in via definitiva, pur essendo stato trovato colpevole di tortura in due occasioni dal tribunale. La prima volta il processo fu prescritto prima di giungere in appello: fu in questa occasione che l’ECHR condannò la Turchia a pagare a ciascuno dei ricorrenti 10mila euro per non aver condotto un’inchiesta valida. Il secondo processo in cui Ay e colleghi vennero condannati per torture inflitte nel ’97 finì invece in appello e il giudice decise che il processo andava ripetuto con raccomandazione di aggravare la pena, in considerazione dell’elevato numero (15) delle persone che avevano subito il danno. Ma anche in questo caso il processo finì in prescrizione.

Una delle ricorrenti, Asiye Zeybek sporse anche denuncia per violenza sessuale nei confronti di Ay e del suo gruppo, violenza certificata con tanto di perizia medica. La denuncia però non ottenne alcun risultato in loco e la Zeybek presentò il proprio caso alla Corte di Strasburgo che condannò di nuovo la Turchia. I reati a carico di Ay sono dunque tutti prescritti e le condanne della ECHR riguardano il Paese, non le persone. Per tutti questi motivi lo stato di servizio di Ay risulta “impeccabile”.

Il sostegno di Erdoğan e le divergenze nel partito

Anche il premier Tayyip Erdoğan ha apertamente preso le difese del poliziotto liquidando quali “speculazioni” le obiezioni sulla nomina di Ay. “Non sacrificheremo un nostro collega che ha lottato contro il terrorismo solo perché lo vogliono alcuni gruppi media o opinionisti”, ha commentato il premier ed ha aggiunto che “questo collega non risulta colpevole, non ha alcuna condanna a suo carico”.

Duro il commento del direttore di Taraf Ahmet Altan alle parole di Erdoğan: ”In passato lo facevano i militari. Andavano in televisione e ci mentivano guardandoci dritto negli occhi. Lo potevano fare perché credevano di essere molto forti e che nessuno avrebbe potuto rinfacciargli la menzogna. Questo errore di valutazione è stato la loro fine. (…) Il premier sta mentendo al suo popolo per prendere le parti di un poliziotto ‘condannato per tortura’. (…) Noi abbiamo pubblicato il documento che prova che quel poliziotto è stato condannato. Se il premier è sicuro della sua innocenza ci faccia vedere la sentenza di assoluzione e ci farà fare una bruttissima figura. Perché altrimenti sarà lui a farla, per aver mentito al suo popolo”.

Una reazione compatta alla nomina di Ay è arrivata dai membri della Commissione per i diritti umani del parlamento afferenti a tutti i partiti, incluso anche il deputato dell’AKP (Partito della giustizia e sviluppo) Mehmet Kerem Yıldız. All’interno dell’AKP, tra le voci solitarie di opposizione alla nomina di Ay anche vicepremier e portavoce del governo Bülent Arınç, che ha messo in risalto l’importanza delle “regole etiche della società” riguardo alla vicenda: “Anche se queste speculazioni non fossero vere”, ha affermato, “non è tuttavia corretto assegnare una persona che è stata accusata di azioni crudeli e di torture a una posizione così importante”. Arınç ha suggerito inoltre che spetterebbe al ministero dell’Interno rimuovere Ay dal suo incarico. Un auspicio che sembrerebbe per ora privo di speranza dato che, interpellato sulla questione, il ministro dell’Interno İdris Naim Şahin ha dichiarato di non avere seguito la vicenda.

Altre voci critiche dall’interno del partito di Erdoğan appartengono ad alcune deputate come Ayşe Böhürler, tra i membri fondatori dell’AKP: “Leggo le notizie e non conosco bene l’aspetto giuridico della vicenda, ma come donna non trovo corretto che una persona che ha alle spalle una condanna per avere torturato altre donne venga nominato ad un simile incarico”. La deputata è stata anche zittita in malomodo dal premier durante una riunione di partito per aver sollevato la questione, inducendo la Böhürler a scrivere sulla sua rubrica nel quotidiano Star di aver dovuto iniziare un “digiuno della parola”.

Le reazioni della società civile

Un gruppo di intellettuali credenti e alcuni teologi dell’Islam raccolti attorno alla rivista di cultura ispirata ai valori dell’Islam www.varide.net ha lanciato una petizione per protestare contro la promozione di Ay, raccogliendo in un mese qualche centinaio di firme.

Un’altra petizione di più vasta portata è condotta dall’ Associazione dei giuristi progressisti (Çağdaş Hukukçular Derneği) che ha recentemente promosso la linea telefonica “Aiuto, la polizia mi sta picchiando” per combattere la crescita esponenziale dei casi di violenza della polizia registrata nell’ultimo periodo. Si tratta di un servizio di assistenza legale e medica in collaborazione con l’ordine degli avvocati di Istanbul, la Fondazione per i diritti umani della Turchia (TİHV) e l’ordine dei medici di Istanbul. L’obiettivo? Stabilire il livello di tolleranza zero alla tortura e ai torturatori, spiegano i promotori del progetto.

“Tolleranza zero alla tortura” era una delle più importanti promesse elettorali che nel lontano 2002 avevano portato il primo governo AKP al potere. Nei primi anni del suo mandato l’esecutivo ha mantenuto la parola realizzando miglioramenti notevoli nella lotta alla tortura sia a livello legislativo che a livello formativo e direzionale del corpo di polizia. Il motore era la prospettiva di adesione all’Unione europea, mentre la situazione di distensione con il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) favoriva questo andamento. Ma già nel 2006, con l’ampliamento della definizione di “terrorismo”, diventata in poco tempo una minaccia per la libertà d’espressione, si è iniziata a registrare un’inversione di tendenza.

Ora che la meta UE sembra ormai quasi svanita per la Turchia e che la questione curda ha raggiunto dei livelli di violenza che ricordano molto quelli vissuti negli anni ’90, la nomina di Ay appare come un ulteriore segnale di allarme che alla società civile spetta riconoscere e combattere senza far passare altro tempo.