Il 28 dicembre scorso un drone Predator ha fatto strage di civili che attraversavano il confine tra Turchia ed Iraq. "Un errore operativo", hanno dichiarato le autorità turche. Ma i famigliari delle 34 vittime esigono giustizia. Intanto il conflitto turco-curdo è sempre meno sommerso
Garibe Ürek ha solo 19 anni, ma nonostante la sala sia strapiena, per la conferenza stampa organizzata a Istanbul dall’Associazione turca per i diritti umani e il Tavolo per la pace, racconta il suo dolore con voce ferma, sangue freddo e determinazione.
Sul manifesto, appeso alla parete, le vittime di Uludere. La metà dei volti sono di suoi familiari. Anche quando parla della morte del suo compagno, Adem Ant, mostrando ai giornalisti la foto che li ritrae assieme durante la festa per il loro fidanzamento, la sua voce non perde di vigore, troppo forte la sete di giustizia per lasciarsi andare all’emozione.
“Adem sarebbe venuto a trovarmi a Istanbul il 14 febbraio per festeggiare il giorno degli innamorati e il mio compleanno, ci saremmo sposati a maggio, con la sua perdita sono svaniti anche tutti i miei sogni.” Poi, con sguardo severo, Garibe si rivolge al pubblico: “Avete mai visto una persona col corpo in pezzi? Io sì. Ho con me una foto che non mostrerò mai a nessuno, ma che non riuscirò a togliermi dalla testa per tutta la vita”.
Il 28 dicembre scorso un drone Predator dell’esercito turco ha colpito 35 persone scambiate per militanti dell’autonomista Pkk mentre attraversavano il confine tra Iraq e Turchia. 34 i morti di quello che il governo turco ha definito un “incidente operativo”. E’ l’ennesimo tragico episodio di un sanguinoso conflitto che da ottobre si sta facendo di giorno in giorno più duro.
Maxi-processo e bombardamenti
Intanto continua il maxi-processo contro politici, giornalisti e intellettuali curdi accusati di essere membri del Koma civakên kurdistan, organo del Pkk incaricato di organizzarne l’azione di resistenza nelle città e il 4 febbraio sono ripresi i bombardamenti dei campi degli autonomisti curdi in Nord Iraq.
Il giorno dopo la strage di Uludere, Hüseyin Çelik parlamentare di Van e vice presidente del Partito della giustizia e dello sviluppo – al governo - ha dichiarato che non si può parlare di un atto premeditato. “I primi dati in nostro possesso indicano che si è trattato di un incidente operativo. Se c’è stato un errore, la verità non sarà occultata”, ha assicurato.
I famigliari delle vittime sostengono invece che le autorità sapevano che nella zona bombardata si trovavano civili. Secondo Ferhat Üncü, uno dei portavoce dei famigliari, prima di attraversare il confine erano stati avvertiti sia i militari che la polizia. Üncü ha annunciato, inoltre, che rinuncerà, come gli altri famigliari delle vittime, al risarcimento di 150mila lire turche (circa 65mila euro) offerto dal premier Erdoğan dopo la strage: “Non ci interessano i soldi, vogliamo sapere chi sono i responsabili della morte dei nostri famigliari e che vengano puniti, poi si può parlare di indennizzi”.
Sopralluogo a Uludere
Il 7 febbraio, una delegazione di deputati, membri della Commissione d’inchiesta sulla strage istituita dal parlamento turco, si è recata ad Uludere per raccogliere informazioni sull’accaduto.
Oltre ai famigliari delle vittime, i parlamentari hanno sentito le autorità militari e i vertici delle forze dell’ordine. Secondo i primi risultati dell’indagine tuttavia le responsabili del massacro vanno cercate ad Ankara: “Le autorità militari di Uludere dopo aver ricevuto l’ordine del divieto di volo alle nove del 28 dicembre non hanno più ricevuto ordine e non sanno quindi cosa sia successo. Infatti i droni in possesso dell’esercito turco decollano da Batman e pattugliano il territorio, le immagini registrate vengono analizzate ad Ankara e da lì arriva l’eventuale ordine di fare fuoco sugli obiettivi identificati” ha spiegato ai microfoni dell’emittente Cnn, Türk Levent Gök, parlamentare del Partito repubblicano del popolo e membro della Commissione d'inchiesta.
Intellighenzia curda in carcere
E se lo scontro armato si fa sempre più duro, sul fronte giudiziario, non si fermano gli arresti di giornalisti, politici, accademici e intellettuali curdi. Negli ultimi mesi gli arresti nell’ambito del processo Kck sono divenuti quasi quotidiani. Sono ormai più di 1100 le persone arrestate con l’accusa di essere membri del Pkk, e la cifra sale a 6200 se si considerano gli imputati per fiancheggiamento o “propaganda terrorista”.
Persino la professoressa Büşra Ersanlı, membro della commissione incaricata di scrivere una nuova costituzione indicato dal pro-curdo Bdp, è in carcere dallo scorso ottobre. “Non abbiamo più quadri, hanno arrestato moltissimi dei sindaci eletti nel nostro partito e ora mentre parlano di un processo democratico e partecipato, arrestano il membro della commissione costituzionale espresso dal Bdp” ha dichiarato il leader del partito Demirtaş.
Recrudescenza del conflitto
A poco più di un mese dai fatti di Uludere, il 4 febbraio scorso, l’esercito turco ha comunicato di aver ripreso i bombardamenti sui campi degli autonomisti curdi in Nord Iraq e il 9 febbraio 13 militanti del Pkk e un soldato sono morti in scontri a fuoco in due diverse località nel sud-est a maggioranza curda. Un clima di crescente tensione in netto contrasto con il periodo di tregua e dialogo iniziato nel novembre 2009 quando il Primo ministro Erdoğan, inaugurando quella che aveva chiamato “l’apertura ai curdi”, aveva dato il suo ok a incontri segreti tra membri del Mit, gli 007 turchi, ed esponenti di spicco del Pkk tra cui Abdullah Öcalan, leader dell’organizzazione autonomista. Tuttavia dopo le elezioni politiche del giugno 2011 questo processo ha subito una forte battuta d’arresto aprendo la strada a una nuova fase di violento conflitto armato.
Secondo il governo la responsabilità del fallimento delle trattative sarebbe del movimento curdo incapace di parlare con una sola voce e del Pkk che con il sanguinoso attentato di Silvan dove hanno perso la vita lo scorso luglio 13 soldati avrebbe messo una pietra tombale sul processo di pace. Dal canto suo invece Selahattin Demirtaş leader del pro-curdo Partito della pace e della democrazia in una recente intervista al quotidiano Milliyet ha dichiarato: “Erano stati preparati protocolli (di intesa). Che sono stati poi sottoposti a Kandil (il Pkk, Ndr). Se il governo avesse detto che era d’accordo con le proposte contenute in quei protocolli Öcalan si sarebbe appellato al Pkk (per il rispetto degli accordi) e sarebbero stati applicati dopo essere stati resi pubblici. Forse ci sarebbero voluti anni, ma l’obiettivo era il disarmo totale. Però, cinque giorni dopo le elezioni il Primo ministro (Erdoğan) ha annunciato che non sosteneva la road map”. Secondo Demirtaş questo cambio di rotta sarebbe legato al successo elettorale degli islamisti di Erdoğan: “E’ chiaro che tenere la decisione in sospeso era solo un trucco per tenerci buoni fino a dopo le elezioni. Abbiamo chiesto più volte di rendere pubblici gli accordi, ma non è avvenuto. Il responsabile dello stop al dialogo è Erdoğan”.