Il parlamento di Ankara approva la riforma che permette alle ragazze di entrare con il velo in università, ma giuristi e rettori continuano ad opporsi. Democrazia e capi d'abbigliamento nel dibattito politico turco
Nonostante la riforma di due articoli della costituzione votata a larga maggioranza dal parlamento sabato scorso, per il momento il velo continua a rimanere al di fuori dei campus universitari turchi. La riforma, promossa dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), dai nazionalisti del MHP (Movimento di Azione Nazionale) e votata anche da una parte dei deputati del partito curdo DTP (Partito della Società Democratica) non sembra bastare. Giuristi e rettori universitari chiedono, per aprire le porte alle studentesse velate, che venga riformato anche un articolo del regolamento dello YOK, l´istituzione che controlla le università del paese. Non si è ancora giunti quindi all´atto finale di una querelle che avvelena la politica turca da almeno un ventennio e che nelle scorse settimane è tornata a riaccendere gli animi.
Mentre in parlamento deputati, per lo più maschi, si accapigliavano sulla sorte delle studentesse velate, nel centro di Ankara decine di migliaia di persone partecipavano alla manifestazione "per la laicità e l´indipendenza" accusando il governo di mettere a repentaglio "l´esistenza stessa della repubblica". Diviso il mondo delle università. Mentre il consiglio interuniversitario dei rettori bollava l´iniziativa del governo come "minaccia per la laicità del paese", 3.500 accademici firmavano un documento di sostegno all´iniziativa del parlamento. Le divisioni attraversano sindacati, ordini professionali ed anche le discussioni dell´uomo della strada.
Per il momento l´unica voce assente dal coro è quella delle forze armate. Mentre la scorsa primavera i militari erano arrivati a minacciare un colpo di stato, in questi giorni si sono limitati ad una laconica dichiarazione del capo di stato maggiore: "Tutti conoscono la posizione dell´esercito in materia". Dall´anno scorso però molta acqua è passata sotto i ponti della politica turca: la schiacciante vittoria elettorale dell´AKP, il recente scandalo Ergenekon che coinvolge molti ex militari e soprattutto l´idillio esploso tra Erdogan ed i militari in materia di guerra al PKK.
Nei giorni scorsi i caccia di Ankara hanno bombardato per l´ennesima volta le postazioni del PKK nel Nord Iraq e sabato, mentre il parlamento decideva del velo, Erdogan a Monaco di Baviera assicurava che la "guerra continuerà fino alla vittoria finale". Segnali che fanno intuire i contorni di un nuovo equilibrio, di un nuovo compromesso che si sta disegnando tra il governo e le forze armate.
Le divisioni intorno ad un capo di abbigliamento non rappresentano certo una novità per la storia turca. Intorno a veli e cappelli si sono spesso cristallizzate le tensioni prodotte dagli slanci modernizzatori. Fin dall´epoca ottomana. Nel 1826 le autorità impegnate in un processo di riforma ispirato all´Occidente vietarono l´uso del turbante, sarik, considerato un simbolo di arretratezza "orientale" per sostituirlo con il fez. Quasi un secolo dopo Kemal Ataturk, fondatore della repubblica, deciderà invece che il fez e gli abiti di foggia orientale sono incompatibili con le aspirazioni moderniste della repubblica. "La rivoluzione del cappello" impose agli uomini turchi l´abbandono del fez a favore di copricapi di foggia occidentale. Magari quel berretto con visiera che diventerà presto il simbolo della prima generazione di uomini kemalisti ma che susciterà le proteste dei credenti, impossibilitati a toccare con la fronte il pavimento della moschea durante la preghiera. Ai recalcitranti i tribunali della rivoluzione commineranno numerose condanne a morte.
Significativamente però i rigori della legge risparmieranno le donne. Nessuna proibizione nei confronti di veli, carsaf - il chador turco, ed altri accessori della tradizione. Tanto che la giovane moglie di Ataturk si farà spesso fotografare a fianco del marito con un abito nero che le lascia scoperto solamente il viso.
La neonata repubblica si adopererà per promuovere l´immagine della "donna nuova" che partecipa alla vita sociale, balla il tango, veste all´occidentale, partecipa a concorsi di bellezza e gare sportive. Escludendo silenziosamente dalla sfera pubblica la donna della tradizione. In particolare nelle universita´, il luogo per eccellenza destinato a formare le nuove generazioni nello spirito della repubblica.
A partire dagli anni ´60 però l´incremento demografico e la mobilità sociale portano alle soglie dell´università nuovi soggetti. E risale al 1964 il primo scandalo del velo, quando un studentessa della facoltà di teologia dell´università di Ankara si presenta in aula a capo coperto. Un gesto che le costerà l´espulsione. Per ironia della sorte quella studentessa era la sorella maggiore dell´attuale ministro degli esteri Ali Babacan.
Dalla fine degli anni ´70 il revival islamico porterà ad un ritorno dei riferimenti tradizionali e religiosi in tutte le sfere della società. Le strade e le aule universitarie si popolano di ragazze che portano il turban, un velo colorato che arriva a coprire anche il collo. Una presenza che viene percepita come invasione, profanazione di quello spazio urbano disegnato dagli ideali kemalisti e fondato sull'esclusione di simboli religiosi e tradizionali considerati inconciliabili con la modernità. Ma le studentesse con il velo sembrano voler smentire l´equazione religione-tradizione=oscurantismo, sulla quale si è fondata la repubblica. Di origine popolare, queste ragazze piuttosto che utilizzare il velo per riprodurre la cultura ed i rapporti tradizionali lo usano come una sorta di scudo, che permette loro di fare quello che alle loro madri non era consentito: partecipare alla sfera pubblica, approfittare delle opportunità dell´istruzione, inserirsi nel mondo del lavoro e delle professioni. Non quindi semplicemente vittime delle pressioni della comunità tradizionale ma soggetti consapevoli che approfittano della modernità attraverso i simboli della tradizione.
La costituzione redatta dai militari nel 1982 sancirà il divieto per il velo di entrare nelle università. Da allora la cronaca è costellata di tentativi dei partiti conservatori o di ispirazione islamica di ammorbidire o annullare il divieto, e di sentenze della corte costituzionale che lo confermano. Per le studentesse tre alternative: rinunciare all´università, togliersi il velo ai cancelli di ingresso oppure indossare una parrucca. Oppure tentare, senza successo, la strada della Corte Europea per i Diritti Umani. Ci ha provato anche la moglie dell´attuale presidente della repubblica Gul, per poi rinunciare di fronte all´ascesa politica del marito.
Vent´anni di polemiche hanno contribuito a caricare il velo di una serie di significati che non gli appartengono. Si è discusso e si discute di una striscia di stoffa per discutere in realtà dei rapporti di forza tra schieramenti, partiti e lobby di potere, del regime come si dice in Turchia. Le preoccupazioni delle ragazze turche, con o senza velo, sembrano invece essere altre: gli ancora bassi tassi di scolarizzazione femminile nella scuola superiore, la disoccupazione, in un paese in cui il tasso di occupazione femminile è la metà della media europea. Ed i sondaggi mostrano anche che una larga maggioranza della società è favorevole all´abolizione del divieto.
Dalla prospettiva delle garanzie per le libertà individuali di fronte all´invadenza dello stato difficile contestare l´iniziativa del governo, a meno di voler reclamare il consolidamento della democrazia difendendo contemporaneamente un divieto che rappresenta l´eredità di una tradizione autoritaria.
Ma è a questo punto che cominciano i dubbi. Sull´entusiasmo democratico e libertario di un governo che si concentra sul velo per dimenticare tutto il resto. A partire dal più volte annunciato progetto di una nuova costituzione democratica e pluralista, sempre rinviato. Dalle legittime richieste di garanzie di coloro che il velo non lo vogliono indossare e che temono che dopo l'università sarà la volta della scuola superiore. Dalla riforma dell´articolo 301 del codice penale, ancora una volta accantonata, forse il prezzo da pagare per l´appoggio dei nazionalisti del MHP nella votazione di sabato. Ed a proposito di articolo 301 il parlamentare europeo Joost Lagendijk, ad Istanbul per la terza udienza del processo Dink, si è fatto portavoce del pensiero di molti: "La nostra pazienza si sta esaurendo. Da un anno ascoltiamo solo parole, adesso vogliamo vedere dei fatti".
Il timore è che lo slogan "democrazia conservatrice" dell´AKP nasconda una concezione di democrazia limitata, che immagina diritti e libertà solo per una parte della società.
Un atteggiamento del resto speculare a quello di molti di coloro che sono scesi nelle piazze o nell´arena mediatica per protestare contro il governo, facendo balenare nostalgie forcaiole. Pronti ad attaccare come antimoderna e fascista la riforma del velo ma anche a tacere sistematicamente di fronte alle situazioni di violazione dei diritti elementari che la cronaca propone quotidianamente.
Il consolidamento di uno stato di diritto realmente universalista dipenderà alla capacità di questi mondi di riconoscersi reciprocamente e gettare i ponti del dialogo. La questione del velo offre un'altra occasione per il futuro della democrazia in Turchia.